Il Partenone è saltato in aria. Atene piomba nel caos. In un’atmosfera senza tempo, un coro di voci aggiunge nuovi pezzi al puzzle del mistero, ma invece di chiarire, infittisce i dubbi. Che cosa ha spinto il giovane ventenne al gesto profanatore? Come sarà punito? Chi lo conosceva davvero? Quali le responsabilità della città-giungla ai piedi dell’Acropoli? Chryssòpoulos mescola finzione, storia e realtà, per riflettere su identità e simboli. Sfida coraggiosa, in una Grecia che vive una terribile recessione economica. Con una scrittura brillante che si finge prosa documentaria (confessioni, testimonianze, elenchi di prove indiziarie), l’autore ricama al tempo stesso un’intensa metafora. In filigrana balenano domande fondamentali: che cosa può dire il Partenone all’uomo contemporaneo? Quanto è solido il senso di identità se ha bisogno di aggrapparsi a un simbolo, caricandolo di ideologia? Accusato di fervore iconoclasta, Chryssòpoulos ha risposto con fermezza che la distruzione dei monumenti è sempre un crimine: egli guida il lettore a immaginare l’inimmaginabile, per tornare poi a ripensare il presente.

La profanazione dell’improfanabile è il compito politico della generazione che viene.

Giorgio Agamben, Profanazioni, Ed.Nottetempo, Roma 2005, p.106.

 

INDICE

  1. Breve confessione di un guardiano
  2. La notizia
  3. Testimonianze relative a quella giornata
  4. Probabile monologo di Ch.K., autore del gesto
  5. Reperti
  6. A proposito del Manifesto di Ghiorgos V. Makrìs
  7. Lista delle persone menzionate dal soggetto Ch.K. durante l’interrogatorio
  8. Prove a carico del soggetto: oggetti messi agli Atti
  9. La fotografia
  10. «…Trasparente, come carta di riso giapponese»
  11. Condanna e pena

Epilogo

 

A Dema,

mia madre

Siamo noi i visionari folli della terra,

il cuore in fiamme e gli occhi spiritati.

Siamo i pensatori irredenti e gli amanti tragici.

Mille soli scorrono nel nostro sangue

e ovunque ci insegue la visione dell’infinito.

La forma non arriva a domarci.

Noi siamo innamorati dell’essenza del nostro essere

e fra tutti i nostri amori è lei che amiamo.

Siamo i grandi entusiasti e i grandi negatori.

Chiudiamo dentro di noi tutto il mondo e lontano da esso non siamo nulla.

I nostri giorni sono un incendio e le nostre notti un mare immenso.

Intorno a noi risuona il riso degli uomini.

Siamo i Messaggeri del Caos.

 

GHIORGOS MAKRIS

Noi, i pochi, 1950

* Questa poesia vede la luce nel circolo del poeta Ghiorgos Makrìs, il “Movimento degli Irresponsabili”, un gruppo numeroso di intellettuali e artisti che agli inizi degli anni ’50 si ritrovavano nel quartiere di Kolonaki ad Atene, fra cui Natalia Melà, Takis Vasilakis e Minoas Arghyrakis, Ghiorgos Makrìs e Lena Tsouchlou. È quest’ultima a chiamare il gruppo “Messaggeri del Caos”. Nel volume Scritti di G.B.Makrìs (Estia, 1986) la poesia riporta l’indicazione: “Mano di Ghiorgos Makrìs, Ispirazione di Lena”. Non è chiaro se questa nota sia dello stesso Makrìs oppure del curatore Epaminondas Ch.Gonatàs. Informazioni riguardo al “Movimento degli Irresponsabili” si trovano nel libro di Manolis Daloukas, Il Rock greco – Storia della cultura giovanile dalla generazione del Caos alla morte di Pavlos Sidiròpoulos, 1945-1990 (Ediz. Anghyra 2006). [N.d.A.]

 

1. Breve confessione di un guardiano

 Senza esitare, in modo spontaneo, ma con un che di artificioso nei modi e un tono di voce che sembra impostato e falso. Come se parlasse di un personaggio importante.

 Che dire? Ci perdo la testa. Dopo tanti anni… Ero il primo a vederlo ogni mattina. Arrivavo sempre di buon’ora, controllavo tutti gli ingressi e aprivo il registro dei visitatori. Ogni giorno ne passavano davvero tanti.

Interrompe il discorso e comincia a raccontare dal principio, in modo enfatico.

 Era estate, il sito inondato di gente. Sugli schermi della sorveglianza non si potevano distinguere i volti, tanto fitta era la folla: scorreva un oceano confuso e mobile di turisti. Un caldo soffocante. Stavo in piedi davanti al mio tavolo ed era impossibile concentrarmi sul lavoro. La mente si perdeva, vagando in pensieri senza capo né coda. Il frastuono era insopportabile, i passi e le chiacchiere dei visitatori creavano un brusio continuo, indistinto. Invariato, non cambiava di intensità, era una nota unica e tormentosa che si ripeteva per ore intere. Gente che continuava a salire, ad arrivare, senza sosta.

Era ormai mezzogiorno ed eravamo tutti ipnotizzati per la stanchezza, il sole, il caldo opprimente. Ma proprio allora sentii che mi chiamava. Distintamente, in mezzo al delirio infinito della gente, sovrastando le voci e il caos. La mia prima reazione fu di stropicciarmi gli occhi stupito. Ero sicuro che la mente mi stava giocando uno dei suoi scherzi. Quel giorno l’ora del sole a picco era intollerabile. Appoggiai la schiena sudata contro la parete e chiusi gli occhi. Lo sentii che mi sussurrava da dentro il muro, come quando i detenuti comunicano tra loro di cella in cella. Era tutto vero.

Guardai intorno. Nessuno sembrava aver notato nulla. Diedi uno sguardo agli schermi. Nulla di strano. Sempre la stessa fiumana ininterrotta di gente. Ma io continuavo a sentire la sua presenza.

Uscii sul sentiero centrale e mi fermai in mezzo alla folla. Ovunque volgevo gli occhi, una moltitudine di sconosciuti mi oltrepassava con indifferenza. E Lui a chiamarmi, in modo sempre più distinto. Senza parole. Come se fosse in grado di chiamare con il pensiero. Mi voltai a destra e sinistra, ma non riuscivo a capire da dove provenisse la voce. Forse dalla bocca di uno dei visitatori. Dagli edifici, lontano giù in città, dalle strade. Dai tronchi degli alberi. Anche le pietre e il sole sembravano parlare. Le nuvole. Perfino l’aria ripeteva lo stesso richiamo. La città intera mi parlava.

Chiusi gli occhi e mi feci forza. Dovevo capire in che modo stava comunicando con me. Era una semplice intuizione o un magnetismo misterioso, o qualche altro fenomeno? Era davvero lui che mi chiamava dall’alto della città o era la mia immaginazione a plasmare quell’incubo? Fu allora che tutto si fermò. All’improvviso regnava il silenzio. Non si sentiva anima viva. Nel loro avanzare, i turisti sembravano non toccare terra con i piedi. L’affanno dei respiri si era attenuato, mentre un soffio d’aria silenzioso rinfrescava i loro volti. Non parlavano più. I vestiti ondeggiavano pigramente, palpitando come le branchie dei pesci nel mare profondo. Tutto era diventato trasparente e abbacinante. Lui ora taceva e con lui tutta la città stava in silenzio. Mistero.

Ma di colpo tutto finì. Come se la realtà si fosse assentata per un istante e ora fosse tornata. Le voci assordanti, lo strascichio dei piedi, il tramestio dei passi, il frusciare dei vestiti, la calura, il sole implacabile.

L’importante era che io fossi lì sulla roccia, e soprattutto in quel momento – ora lo so –. Forse quel giorno si evitò qualcosa di indicibile, o forse qualcosa di abominevole si era messo in moto in quello stesso istante. Quell’unica volta, sono sicuro, mi ha chiamato e io non ho saputo seguirlo.

Dopo una breve pausa, riprende, ma con una cadenza più lenta, e il tono si fa un po’ più drammatico.

Cos’altro posso dire? Salii su il primo giorno dopo la catastrofe e non credevo ai miei occhi. Lui stava lassù da tanti secoli e si poteva pensare che ormai avesse un pezzo di cielo tutto suo. E lì dove prima si ergeva, ora si spalancava l’orizzonte.

Superai la cancellata dell’ingresso crollata. Come era successo? Con quali parole descrivere il disastro? Intorno tutto era sudicio e annerito dal fumo. Il terreno era pieno di fango, dappertutto frantumi sparsi. Presi il breve sentiero verso la sommità e a ogni passo temevo che il cuore non avrebbe retto. Non una pietra al suo posto. Tutto sottosopra. Una polvere sottile copriva il terreno e sulle macerie bruciava ancora una debole fiamma. Mi avvicinavo e la strada diventava sempre più impraticabile: ovunque si vedevano i suoi pezzi di marmo, rotolati giù, mutilati. Mi riesce difficile parlarne. Tutto era crollato: là dove prima si ergeva lui, ora si stendeva solo il cielo. Un cielo che per la prima volta mi apparve in tutta la sua vastità. Spietato. Marmi ovunque, sbriciolati. Uno sfacelo inaudito, una ferita aperta.

Si interrompe. Si alza e fa alcuni passi nervosi cercando di controllarsi, ma in modo ostentato.

Chi ha potuto compiere una cosa simile? Chi mai si è messo in testa l’idea di colpire a morte qualcosa di così… Lui era… Mi sembra di impazzire. Lui era… sacro: impensabile anche il solo sfiorarlo. Siamo orfani. Che cos’è la città senza di lui? È un crimine inaccettabile. Non era forse presso di lui che cercavamo rifugio, ogni volta che ne avevamo bisogno?

La nostra città era indegna di lui. Era piccola, non riusciva più a sostenerlo. Non lo meritava, non era alla sua altezza e ora questo è chiaro come il sole, ma ormai è tardi. È lei, è la città che lo ha ucciso. Si è presa vendetta contro di noi. Sì, lo credo veramente, questa è la sua vendetta. Lei stessa ha deciso come farlo e ha scelto con attenzione l’assassino. La mano. Lei lo ha chiamato, come aveva chiamato anche me. Ora capisco. Non era lui che mi chiamava, ma era la città. Lei mi stava mettendo alla prova. E così ha fatto quel giorno anche con altri, fino a trovare uno così orribilmente senza scrupoli da accettare di colpire il colle. Sono stato anch’io parte del suo piano. Quel giorno lei parlò. Parlò a tutti noi. E quel giorno trovò l’uomo adatto.

Cammina ancora e poi siede su uno sgabello, in un angolo a sinistra.

Certo, lo avevo notato. Nelle ultime settimane veniva quasi ogni giorno. All’inizio non ci badai. Non aveva nulla di particolare. Uno fra tanti… Eppure lui veniva, ancora e ancora. In ore diverse. In modo irregolare. A volte passava parecchio tempo prima che ricomparisse. Oppure tornava due o tre volte nello stesso giorno. Non lo vedevo spesso. Forse veniva più regolarmente di quanto avessi notato. Magari durante il turno degli altri guardiani. Oppure mi evitava in modo sistematico, può darsi anche questo. E poi ecco, compariva di nuovo. Sapevo che lo avrei rivisto. E alla fine riuscivo a distinguerlo in mezzo alla folla e riconoscevo facilmente il suo viso, proprio per queste sue visite così frequenti. Perché per il resto non aveva nulla che potesse attirare l’attenzione. Era taciturno e camminava sempre a testa bassa. Come se volesse nascondersi in mezzo alla folla. Non mi fissò mai dritto negli occhi. Forse a volte non sono riuscito a individuarlo in mezzo alla gente. Chi lo sa? Magari veniva anche più spesso. Di solito saliva in fretta, deciso, per il sentiero centrale. Si era scelto un posto particolare in un angolo un po’ in disparte, dalla parte della cancellata e restava seduto lì per parecchio tempo. Capitava che finivo il mio turno e lui non si era mosso per niente. Era ostinato. Guardava e basta. Osservava in modo attento. Non si spostò mai da lì, non si avviò verso la cima, ma sempre lì, si appoggiava a uno dei fari che venivano accesi verso il pomeriggio tardi. E non è mai salito da un sentiero diverso. Non portava nulla con sé. Era senza borsa. Non si tolse mai la giacca. Arrivava da solo e non parlava con nessuno.

Me lo ricordo così. E poi a poco a poco cambiò. Saliva il sentiero di corsa. Lasciava il suo solito posto e girava senza posa intorno al monumento. Falcate nervose. Camminava di continuo. Misurava il luogo palmo a palmo. A passi uguali, come per calcolare la distanza o il tempo. E osservava con lo sguardo vigile. Lo vedevo chinarsi per guardare meglio un dettaglio, farsi ombra sugli occhi con la mano contro il sole accecante. Aveva un piccolo taccuino. Scriveva. Prendeva appunti ad ogni momento. Muoveva alcuni passi e si fermava all’improvviso per annotare un pensiero o qualcosa che aveva visto. E poi daccapo. Pochi passi e un appunto.

Alcune volte arrivò con una ragazza. Non parlavano. Non si guardavano quasi. Camminavano senza toccarsi e spesso si separavano, prendendo direzioni opposte. Non so. Poi diventava di nuovo il visitatore riservato che conoscevo. Curvo e taciturno, tornava al suo posto. Questo era successo due o tre volte, e così non mi stupivo più. Conoscevo ormai la sua mania. C’erano giorni in cui semplicemente stava seduto in raccoglimento. Oppure camminava di continuo senza fermarsi.

Non l’ho avvicinato nemmeno una volta. Non conosco il suono della sua voce, non gli ho mai parlato e non ho mai saputo il suo nome. I nostri sguardi non si sono mai incrociati. Provavo per lui una strana simpatia. Era dominato da una passione segreta, un’ossessione. Sono sicuro che egli lo ha amato. È vero che stavamo in silenzio, senza scambiarci una parola, lui forse ignorava la mia esistenza e io lo guardavo da lontano, dagli schermi della sorveglianza: nonostante ciò, eravamo uniti da una invisibile affinità. Il mio atteggiamento nei suoi riguardi era di comprensione, non volevo infastidirlo o turbare i suoi momenti. Mi sentivo quasi in obbligo di rispettare la sua devozione. Dite che mi sono ingannato a tal punto? Ero così cieco? Così ingenuo? Perché non sono riuscito a riconoscere l’uomo che lo avrebbe distrutto? Non ci credo. Anzi, sono sicuro. Quel ragazzo lo ha amato.

Resta seduto sullo sgabello. Alza gli occhi e guarda come a chiedere conferma:

«Sono andato bene?»

 2. La notizia

 Il colle sopra la città è orfano. Gente comune continua ad affluire lassù e si registrano manifestazioni di sdegno, d’altra parte giustificate. La voce circolata in precedenza, che smentiva la catastrofe, è solo un ricordo. Nei primi giorni la negazione della realtà ci aveva offerto un caldo rifugio di protezione dal dolore, ma ora la fantasia consolatoria non sa più darci sollievo. Ormai non possiamo più fingere che non sia successo.

È difficile, nessuno riesce ancora ad abituarsi a quella cima nuda. Anche i nomi delle strade sembrano sottolineare la perdita con sarcasmo. Là dove prima si ergeva il nostro monumento più rappresentativo e prezioso, oggi si stende solo il cielo vuoto e uno scenario desolante di rovine e macerie.

L’isteria collettiva ha raggiunto il culmine all’annuncio della versione definitiva dei fatti. Il comunicato è di poche pagine, in un freddo linguaggio burocratico che sfiora appena gli aspetti più superficiali. È arrivato senza alcuna anticipazione, come una doccia fredda. Nessun ulteriore chiarimento. Non riesce a darci pace né conforto. Ignoto il nome di chi ha redatto il testo. Eventuali interrogazioni in merito non sono previste.

Venerdì 17 del corrente mese, alle ore 20 : 13, quella modesta esplosione, quasi impercettibile, ha rischiarato per un attimo, come una scintilla, il complesso monumentale in cima alla città. L’area si è illuminata, in un silenzio inspiegabile. Un lampo abbacinante ha oscurato tutto per un istante, anche le luci dei fari. Tutto si è spento di colpo e una bassa nuvola di fumo e polvere ha avvolto il colle. Poi, il sordo sfrigolio dei marmi che si sbriciolavano. Una debole fiamma rischiarava appena la cima della città, rimasta al buio per la prima volta.

Poco dopo ci fu una seconda esplosione. Decine di persone si precipitarono correndo, ma non si poteva passare fra le macerie. Nessuno sapeva che cosa fosse successo. Nessuno poteva immaginare che cosa fosse successo. Lo schianto fu repentino, quasi in silenzio, un evento così assurdo da sembrare inventato. La città era annichilita da un senso di apatia e incertezza. Nessuno riusciva a credere ai propri occhi. I passanti guardavano lassù impietriti. Negozi e uffici si erano svuotati. La folla riversata per le strade se ne stava immobile, muta, tutti gli sguardi puntati in alto. Era la paralisi totale. Nei viali bus e automobili erano fermi e gli autisti, abbandonati i veicoli in mezzo alla carreggiata, fissavano ammutoliti nella stessa direzione. L’immobilità era assoluta. Come se il tempo si fosse raggelato. Una calma irreale si era stesa ovunque. I balconi dei palazzi e degli alberghi del centro erano invasi da spettatori insoliti, poveracci senza fissa dimora, anch’essi sbigottiti. La vita si era fermata. In cima al colle si vedeva bruciare ancora una debole fiamma. Nulla accadde. Per ore intere restammo con il fiato sospeso, impotenti. Per ore intere tutto si fermò.

Poi calò la notte, la folla cominciò a diradarsi e la città lentamente riprese vita. Pochi trovarono il coraggio di avvicinarsi alla roccia.

Per tutta la notte gli elicotteri sorvolarono la zona e ferivano il cielo scuro con i fari. Quella sera tutti restarono chiusi in casa.

Alle prime luci dell’alba ebbe inizio il difficile e doloroso computo dei danni. Lo spettacolo era desolante. Il monumento si era letteralmente polverizzato. Un piccolo cratere si apriva al centro della roccia. Anche gli altri edifici erano ridotti a un cumulo di macerie e rovine. Pezzi di marmo e ferraglia dalle impalcature di sostegno, tutto scagliato in ogni direzione. Purtroppo un ammasso di roccia si era staccato dal colle a causa dell’onda d’urto e aveva provocato danni all’anfiteatro romano sottostante. Il museo e le sue vetrate rimasero intatti ai piedi del colle, a guardare il cielo ormai vuoto.

Gli esperti hanno trattenuto a stento la disperazione nel dare la notizia che la catastrofe era irreversibile. Il portavoce non è riuscito a frenare la commozione.

Nel rapporto si delinea una prima ricostruzione dei fatti. Durante il sopralluogo si sono chiariti dettagli relativi all’ordigno all’origine dell’esplosione: il meccanismo di accensione era costituito dal classico congegno a orologeria, detonatore, batterie ecc. Ma il materiale plastico era di fattura non artigianale, cosa che fa sospettare la mano di un professionista.

L’autore del gesto ha studiato in ogni particolare l’architettura del tempio e si presume che abbia buone conoscenze di meccanica statica. Infatti ha suddiviso con precisione le quantità di materiale esplosivo necessarie, collocandole alle giunture dell’edificio e perfino tra i rocchi di alcune colonne. Il monumento, indebolito dal peso dei secoli, non ha opposto una forte resistenza. La sua ossatura di marmo pentelico si è accasciata in un colpo solo. Con la prima esplosione si è verificato il collasso verso il centro. Una volta che l’edificio è crollato in un mucchio di macerie, allora si è innescata la parte più cospicua dell’esplosivo, sistemata al centro. Le gru e le impalcature hanno completato il disastro, schiacciando e facendo a pezzi ciò che l’esplosione non aveva ancora distrutto.

Già dal giorno dopo la polizia si è lanciata in una ricerca a tappeto su vasta scala. Migliaia di sospetti sono stati prelevati dalle autorità di sicurezza. La paura era tangibile ovunque e ognuno guardava il vicino con diffidenza. Il motivo di maggiore angoscia era sentirsi accusati per esempio in questi termini: «A lui in fondo la catastrofe non è dispiaciuta». E infatti alcuni ne erano contenti. Intanto, i media si attivarono nell’analisi di ogni possibile colpevole e anche di eventuali mandanti morali. L’invito a partecipare alle indagini fu esteso perfino all’Arcivescovado, perché (come è noto) in un certo periodo della storia il monumento aveva ospitato un tempio cristiano.

Dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani la caccia all’uomo fu condannata come un pogrom diretto a colpire immigrati, minoranze politiche e altri soggetti indesiderabili. Da segnalare anche alcune isolate espressioni di violenza razziale. Nonostante ciò, le ricerche furono coronate da un successo immediato. Il soggetto fu individuato sulla terrazza di un edificio del centro. Fu trovato in possesso di disegni e schemi preparatori dell’atto criminale. Si chiama Ch.K. (il nome completo non è stato reso noto), è un giovane di ventun anni, nullafacente e si tratta di un soggetto asociale. Stando alle informazioni pervenute, il suo gesto è frutto di un piano premeditato, dopo una lunga osservazione del sito. Il giovane ha sistemato l’esplosivo fatale nel pomeriggio di venerdì e poi ha seguito il macabro spettacolo dal suo rifugio. Per quanto si sa, l’arresto fu una naturale conseguenza del suo atteggiamento sconsiderato, visto che dopo l’esplosione stava sulla terrazza del suo condominio, lanciando grida di trionfo.

Un silenzio inatteso grava sulle ipotesi del movente. Secondo fonti non confermate, Ch.K. avrebbe rilasciato una confessione in cui spiega che cosa lo ha portato al suo atto orribile. Le autorità si rifiutano di avvalorare queste indiscrezioni e hanno reso noto che si tratta di una personalità psicopatica. Il comunicato ufficiale ribadisce che Ch.K. non ha saputo dare una spiegazione razionale al suo gesto, in buona sostanza un atto senza una precisa finalità.

Infine, restano segreti il luogo e le condizioni di detenzione di Ch.K. Nulla è trapelato circa la sua sorte futura e non si ritiene opportuno divulgare la sua fotografia.

3. Testimonianze relative a quella giornata

 «Abita da solo e non lo vediamo spesso. Non va molto in giro. Parla poco e solo per dire lo stretto necessario, e con gli occhi bassi. Non sappiamo come si chiama».

Z.F., 18:30

«Ero stato nel suo appartamento: nulla di speciale. Nemmeno ho notato qualcosa di particolare in lui. Non ha mai dato fastidio a nessuno. Parla sempre a bassa voce e dà del lei. È molto gentile. Il suo monolocale è pulito e in ordine. Ricordo un grande divano foderato di rosso e dei libri sparsi qua e là. Non mette la musica ad alto volume. Non ha amici. Non disturba».

M.P., 20:18

«È una persona sensibile e di grande intelligenza. Non è molto socievole, ma è uno di quelli che la sa lunga, ne sono certo. Mi fiderei ciecamente di lui. Dà l’idea di saper giudicare la gente».

Ch.S., 20:27

«Lo vedo tutti i giorni: cammina spedito e poi aspetta irrequieto all’entrata, ogni mattina. Appoggia la mano sinistra al cancello chiuso e misura il tempo battendo la punta della scarpa destra sul selciato. È molto preciso: arriva ogni giorno alla stessa ora e aspetta, sempre con quei suoi calcetti nervosi. Spesso mi è venuta voglia di seguirlo. Non voglio parlargli né sapere chi è o come si chiama. Così, solo per seguirlo un po’, vedere dove va, fare un pezzo di strada con lui. Voglio vedere con chi parla, sentire la sua voce. Vedere come si mette in tasca il portafoglio. Come si muove fra gli altri visitatori. Non sono mai stato dell’umore giusto per farlo. O forse in fondo ho paura di farlo. Sapete, mi basta vederlo passare. E posso immaginare dove va e come parla e come mette via il portafoglio».

Z.Ch., 22:37

«Martedì scorso è passato di qui. Era da un po’ che non lo si vedeva da queste parti. Ho saputo che ora vive da solo. Non so niente della famiglia. Solo che non sono mai venuti a trovarlo. Chissà! Non parla mai di loro. Come se non esistessero. Forse è meglio così. E noi non facciamo domande. È arrivato che aveva diciotto anni. I soldi li ha. Non ha bisogno di lavorare. Una volta mi ha detto che mi avrebbe parlato di loro, ma non ha mantenuto la promessa».

X.O., 20 : 25

«Il tizio di cui mi parlate… mai sentito».

V.D., 09 : 02

«Non si apre con tutti e spesso l’immaginazione lo porta a reazioni strane. Già in passato mi parlava di progetti grandiosi e anche adesso continua a riferirci di fatti assolutamente improbabili. Scrive poesie. Insomma, vede il mondo con occhi diversi e vuole cambiare molte cose intorno a lui. In fondo non lo vorremmo anche noi?»

Ch. O., 22 : 45

«L’uomo che cercate non esiste».

  1. D., 10:10

«Fa lunghi giri da solo, nel tardo pomeriggio, e non è facile indovinare quello che gli passa per la testa. A volte finisce in un cinema, oppure passeggia nella zona dei vecchi caffè che ormai non frequentiamo più. Non manca mai di salire in cima alla città. Gli piace guardare le strade dall’alto».

A.T. ,14 : 12

«L’ho notato mentre vagava in giro senza meta e mi ha incuriosito. Non tentava di nascondersi. Aspettava qualcuno o si gingillava tanto per passare il tempo? Chi lo sa. Sembrava indeciso fra due alternative. Come se non sapesse cosa fare. Dava l’impressione di essere un po’ perso. Non l’ho ritenuto un tipo sospetto e quindi non ho dato seguito. Ha ciondolato per un po’ e poi è scomparso. L’ho visto solo una volta, ma mi ha colpito».

E.Z., 11 : 33

«Non ricordo…»

A.T., 12 : 58

«Gli piace esagerare le cose e dare un tono drammatico alle sue decisioni. Pensa di poter salvare il mondo o almeno di avere la ricetta per farlo. Si rifiuta di crescere. Anzi, è ancora un bambino. È preda di un messianesimo particolare, adolescenziale. Ha idee e ideali. Gli piacciono le visioni grandiose. Ha un che di eroico. Il suo linguaggio è romantico, pieno di frasi solenni. È un po’ ossessivo».

G.V.M., 13:24

«Purtroppo è un ragazzo ostinato che si rifiuta di fare marcia indietro. Dico “purtroppo”, perché ferisce chi gli sta vicino. È nevrotico. Sempre in guerra con persone e cose, se la prende con oggetti e idee astratte, parole o frasi. Sembra di un altro mondo. Ed è questo il suo fascino».

Ch.Ch., 15 : 48

«Dovrebbero lasciarlo in pace. Tipi simili non sopportano gli altri a lungo. Tipi simili devono restare lontano dalla gente. Dovrebbero lasciarlo in pace».

K.F., 08 : 32

«È uno difficile e indeciso. Non sa cosa vuole e cambia opinione ad ogni momento. È volubile. Imprevedibile. Insomma, penso che si salva solo per la sua viltà. È un fifone. Non si vede subito, ma spesso è la sua stessa fantasia a fargli paura o a mettergli in testa pensieri angoscianti. Ha paura, è per questo che non si butta e fa proclami altisonanti. Tante belle parole. Si perde correndo dietro alle visioni di alte imprese. Le grandi aspettative sono solo una copertura. Così a volte mi riesce difficile capire chi ho di fronte».

E.Z., 10 : 09

4. Probabile monologo di Ch.K., autore del gesto

 Rumore di mobili spostati. Sedie trascinate. Passi. Scatto dei tasti di avvio di un registratore. Infine, il respiro profondo di qualcuno vicino al microfono. Pausa di alcuni secondi. Silenzio assoluto.

 Quando cominciai, non avevo idea di come avrei dovuto poi proseguire. Non avevo progetti. Nessun ideale. Fu un impulso che di slancio mi spinse in quella direzione. Ma avrebbe potuto benissimo gettarmi chissà dove.

Non ci fu un primo giorno. Non ci fu un inizio vero e proprio, né una qualche ispirazione, e non avevo un disegno prestabilito. Il mio primo pensiero, anzi, quello che ho subito immaginato chiaramente in tutti i suoi dettagli, è stato il risultato, il dopo. Tutto qui. La notizia che comincia a rimbalzare sulle pagine dei giornali, le dichiarazioni dei cronisti, le immagini dei telegiornali. Le reazioni… Il gesto che galleggia sopra la città, si propaga in onde d’urto su quartieri e viali. Sospeso sul tetto della città. Inchiodato alle nuvole. Il gesto che diventa notizia. Sulla bocca di tutti. Dovunque e sempre. Il gesto divenuto nostro. Il piacere segreto di essere il suo artefice.

Questo fu il primo passo. Ora posso dirlo con certezza. Soprattutto, mi deliziava pensare: tutti lo sapranno, ne parleranno, si stupiranno, ma solo io ne potrò godere. Perché sarò l’unico a non essere sorpreso. E ogni volta che qualcuno ne parlerà, ogni volta che io stesso ne leggerò la storia, nei minimi dettagli, tutto si trasformerà nella conferma più dolce. Questo gesto sarà del tutto mio.

Nella nostra città è difficile che qualcosa ti appartenga in modo totale. Quando trionfi, gli altri si appropriano di una parte del tuo successo. (I fallimenti invece, come è ovvio, difficilmente sono accettati dalla comunità, e non sono certo appetibili.) Dunque, non ti resta nulla che sia solamente tuo, senza che ne sia reclamata la proprietà condivisa. Tranne forse un’ultima illusione: il gesto secondo coscienza.

Temevo molto di essere frainteso. Questo mi ha fatto esitare spesso e ho rinviato la cosa. Non volevo essere stigmatizzato come l’ennesimo mostro criminale. Un affascinante paranoico. Un matto. Un comodo stereotipo.

La nostra città possiede un unico e solo monumento. Un segno-chiave che, per questa sua singolarità, si presta a ogni genere di scopi. Intorno non esistono altri punti di riferimento

così riconoscibili, e se questa prova tangibile della nostra memoria, che tutti crediamo ci appartenga di diritto, venisse per caso a mancare, avremmo allora l’impressione di vivere in un mondo estraneo. Artificiale. In un gioco di società, forse, o sul fondo di un acquario.

Le luci nella nostra città sono colorate. Gialle o arancione. La nostra città è calma, ma pure impaziente, proprio come noi. Ora sa dove va, ora vaga incerta senza meta. La nostra città siamo noi. Ovunque andiamo, la portiamo nelle nostre tasche. E quando ci capita di essere stanchi, la appoggiamo a terra, non importa dove, ed entriamo dentro di lei, per nasconderci, e viviamo chiusi nelle sue viscere. In questa città calda e asciutta ci culliamo con le stesse canzoni. Ancora e ancora.

È molto importante avere delle motivazioni chiare. Io non volevo fare del male. No, non volevo proprio. Non intendevo distruggere. Il mio obiettivo non era distruggere. Non ci sono spiegazioni logiche. C’è solo l’illusione di agire in totale autonomia, conta l’atto in sé e basta. Io non sono il portavoce di nessuno, non rappresento nulla. Semplicemente, è una cosa mia. Punto e basta: questo gesto appartiene a me.

Sembra esitare per un attimo e il filo logico del discorso si spezza. Comincia a pensare ad alta voce, come se parlasse fra sé e sé.

 Nella nostra città ognuno ha i suoi percorsi – o forse dovrei dire il suo percorso personale? Io attraverso la strada sempre dallo stesso punto. Salgo e scendo gradini. Tredici per ogni piano. Quattro passi fino al marciapiede. Due gradini ogni volta che prendo l’autobus, altri due per scendere. Quattro passi fino al marciapiede di fronte, venti e sono al portone di casa. Tutto qui sembra vicinissimo: appunto, quattro passi. In una catena urbana ininterrotta, un quartiere tiene per mano l’altro, una casa sembra poggiare su quella contigua, una strada passa il testimone alla successiva e cambia solo nome. Questa continuità non è affatto particolare. Non mi sorprende. Non succede solo qui. Solo che qui una cosa si trova a un soffio dall’altra. Così chi vive qui ha l’impressione di poter vedere a piedi tutta la città, in una sola tirata. E l’orizzonte scompare così spesso fra gli edifici, che ti vien da pensare che basta uscire di casa e puoi girare ogni angolo di questo piccolo mondo, con la stessa facilità con cui disegni un cerchio intorno al quadrato.

Ma non è solo lo spazio che si misura con la lunghezza di un passo. Vale anche per il tempo, per cui hai l’impressione di poterlo attraversare facilmente, con una sola falcata. Ma questa sensazione non è affatto particolare. Non mi sorprende. Non succede solo qui. Se solamente non ci fosse questo sole impietoso! La polvere ti avvolge così fitta che pensi di poterla stringere nella tua mano. Se solamente non ci fosse il caldo… che rende così difficile questo unico passo per attraversare il tempo. Tutto qui ti imprigiona nella luce.

Continua lentamente, come se tentasse di ricordare qualcosa del passato.

Tutto partì da una constatazione: il segno distintivo della nostra città si leva sulla sua sommità. Si erge al centro e lo illuminiamo per non perderlo di vista nemmeno un istante. È di genere maschile. Ha un nome, però noi non lo usiamo, e così lo abbiamo proiettato in un mondo ideale. Infatti quando ne parliamo, usiamo la maiuscola: «GuardaLo», «L’ho visto», oppure «accanto a Lui», «alla Sua ombra» e così via.

Fin da piccolo lo vedevo troneggiare da lassù. E sentivo dire da tutti quanto è straordinario, leggero e armonioso. Come si intona così perfettamente con il paesaggio e si eleva al di sopra di parametri umani. Tutti concordano: è un capolavoro. È il simbolo assoluto della bellezza più sublime. Chi lo ha costruito? Ormai non ha importanza, basta che esista. D’altra parte qui da noi chi è autore di qualcosa non gode di onori. In questa città nulla ci appartiene, la proprietà non esiste. Non ci appartiene nemmeno l’orgoglio per lui. E infatti lo abbiamo imparato dagli altri.

Sono salito molte volte a vederlo da vicino, a studiarlo, cosa che non siamo abituati a fare. Quando saliamo su, lo guardiamo di sfuggita e poi volgiamo lo sguardo alla città che si stende ai suoi piedi e ci lamentiamo, perché non è degna di lui e noi non riusciremo mai e poi mai, nonostante gli sforzi, a essere degni di un tale capolavoro.

Ho percorso molte volte il sentiero gradinato che porta a lui. Fingevo di non aver sentito mai nulla sul suo conto, dimenticavo tutti gli elogi che hanno composto su di lui, e lo mettevo alla prova. Dicevo: «Ecco, sono qui. Conquistami. Siamo soli qui. Inondami con il tuo fascino». Ha fallito. Sono andato a vederlo ancora e ancora. In ogni stagione, a tutte le ore. Ho visto il sole spuntare fra le sue colonne. L’ho visto incupito, coperto di nuvole. Illuminato dai fari che gli creano intorno un bagliore di luce arancione. Gli ho concesso tutte le occasioni che ha chiesto. Però ha fallito.

Come accade spesso con i nostri begli ideali, così è con lui. Intorno a te senti parlare all’infinito della sua perfezione, tutti ribadiscono che non ha alcun difetto, tutti lo adorano. E tu non comprendi. Chiedi spiegazioni e loro ripetono sempre gli stessi aggettivi vibranti di iperboli. Non è ammissibile alcun dubbio. E finisci per crederci anche tu. E se per caso hai qualche esitazione, prima o poi anche tu dovrai allinearti al consenso generale. Perché è difficile schierarti contro, e se tutti con le loro lodi sperticate ti martellano con il fatto che è meraviglioso, alla fine tu sarai d’accordo, perché non sopporti di essere messo fra gli ignoranti, gli stupidi e i bastian contrari. Così anche tu partecipi alla costruzione del suo mito, e poi non solo finisci per crederci, ma ne diventi un difensore appassionato. Come tutti noi.

Basta osservare con attenzione la nostra città. Le case, i quartieri, noi stessi. Gli sputi sulla strada. L’odore acre di un corpo sudato. Le imprecazioni. L’aria secca. La città. Il nostro spazio: pochi metri quadrati per ciascuno.

Alcuni lo amano perché è semplice, leggero, puro, sobrio. Dove sono la semplicità, la leggerezza, la purezza, l’eleganza nella loro vita? Se la bellezza non è un valore che rispettano, come possono amare lui perché è bello? Perché non cercano la bellezza in loro stessi, nelle persone che li circondano? Perché non riescono a capirla? Perché non li interessa e non li commuove?

La bellezza nella nostra città si è persa da tempo, sotto i lampioni che di notte spargono luce arancione sulle strade. La bellezza è oggi un manierismo superficiale e falso. Quella vera è sparita. È una virtù dimenticata. Nella nostra città l’orgoglio non esiste. Viviamo tutti con una grandezza che non è nostra, come se ce l’avessero data in prestito. Tutti lo sanno, ma sono vili e non lo ammetteranno mai. Io sono partito da qui : lui non è così perfetto come pensano. E allora ho capito che non mi restava più nulla, perché anche quel poco avuto in prestito, lo avevo restituito.

Si interrompe all’improvviso e poi continua.

 Anche se la nostra città non ha confini netti, tutto qui segue un ordine severo, non tanto in relazione allo spazio, ma al tempo. Si vive un’evidente lacerazione: qui/lì, davanti/dietro, destra/sinistra, Est/Ovest, prima/dopo. Coppie antitetiche, delimitate ogni volta da un confine ben preciso. Una frattura che squarcia la città come una pugnalata. Talvolta è un ostacolo che ferma la continuità del paesaggio: qui/lì. Altre volte è lo stupore di un cambiamento inatteso: prima/dopo. Per alcuni è l’insostenibile durezza di un passato storico: allora/adesso.

Ogni volta quindi sei chiamato a scegliere uno dei due poli. Solo che questa impressione è anch’essa doppiamente ingannevole. Anzitutto, la geografia urbana sembra ignorare le regole: un marciapiede che si interrompe a metà; aree libere definite ‘piazze’ solo in virtù dello spazio vuoto che creano; uno stradario bizzarro, dove il nome viene cambiato di continuo ad alcune vie, mentre per altre si mantiene quello storico e ormai antiquato, che suona come un ricordo nostalgico. Un senso permanente di lavori in corso: viali sventrati, edifici riconvertiti a nuove funzioni e altri che proprio non riesci a figurarti a quale oscuro scopo fossero destinati. C’è poi un’altra cosa da considerare, chi passeggia per le strade è morso da un senso di sospetto. Tutto qui è Passato, ma allo stesso tempo Presente. La Storia qui ha la forma di una triplice negazione. Una sorta di ritornello spensierato che la città stessa sembra ripetere ancora e ancora: non ricordo – non mi riguarda – non so.

Esita per un attimo e continua, questa volta come se leggesse un testo.

Sono tornato di nuovo da lui, a guardarlo. Non era cambiato. Le luci arancione gli piovevano addosso come sempre. Questa constatazione mi ha reso ancora più inquieto, aprendomi gli occhi su un’ingiustizia, un paradosso. Si tratta di un dominio tirannico. Era un avversario più forte di quanto mi aspettassi. Non era affatto crollato, dentro di me. Come ero stato ingenuo a pensare che lui si ergeva lassù, in cima alla città, del tutto sopravvalutato! No. La sua forza stava altrove. Il suo potere era di altra natura. Allora sono salito un’altra volta ai suoi piedi. Per un po’ sono stato lì davanti a lui, poi mi sono seduto su una pietra e l’ho guardato, impavido.

Questa volta sembrava nudo, indifeso. Come rattoppato da ogni parte. Sorretto da una struttura metallica e di legno. Stampelle per tenerlo su dritto. Gli mancavano pezzi interi. Smagrito, curvo, tutto ossa. Siamo sempre lì a restaurarlo. I tecnici non lo lasciano nemmeno per un attimo. Occhi esaminatori lo scrutano senza interruzione. Non lasceremo che vada distrutto.

Me ne andai pieno di domande e tornai l’indomani per misurarmi con lui. Non intendevo lasciar perdere. Perché se una cosa la conosci bene, la puoi combattere più facilmente. E invece di una cosa misteriosa, difficilmente puoi indovinare il suo punto vulnerabile.

Di nuovo si ergeva di fronte a me e sentivo la sua potenza. Lo capivo dal modo in cui la gente – me compreso – gli si avvicinava. Lentamente, con attenzione e reverenza. Come per adorarlo. Tutt’intorno, lo filmavano e fotografavano, felici di poter imprigionare l’aura di una indomata grandezza. Gli riconoscevano una forza misteriosa. E infatti. Devo ammetterlo. Una potenza dirompente emanava da lui.

Quel giorno me ne andai di nuovo senza aver combinato nulla. Inebriato dalla sua vista. Scendevo i gradini lasciandolo dietro di me e le luci della città avevano un’aria quasi incantevole. Sentivo la sua presenza gravarmi sulla schiena e i fari arancione erano così intensi che indoravano i tetti delle case intorno. Allora all’improvviso ebbi la rivelazione. Lo vidi impresso sulla maglietta di un bambino. Più giù, il suo nome sulla targa di una via, sull’insegna di non so più quale palazzo di vetro, e scritto in caratteri latini su un accendino. La sua immagine su una carta stropicciata buttata per strada. Si trovava ovunque. Non ci appartiene per niente e così lo abbiamo incollato dappertutto.

La nostra città è povera e noi siamo gente strana. Vogliamo essere unici. Il nostro Paese sembra circondato da specchi deformanti che ci restituiscono un’immagine improbabile di noi stessi. Siamo così da anni. Senza eredi per scelta. E abbiamo lui come simbolo. Voglio capire in che modo funziona. Ciò che lui simbolizza si articola in un sistema binario di opposizioni. Non solo fra privato e pubblico, ma anche fra città e abitanti, eccezione e regola, comandare e governare.

Sicuro ormai di aver capito, risalii i gradini levigati dal passaggio dei turisti. Mi piantai davanti a lui senza parlare. Questa volta stava davanti a me fiammante, avvolto dal fascio arancione dei fari. Aveva come alleato il consenso unanime: «Silenzio! Lui ci rappresenta! Lasciatelo in pace».

«Menzogne!» gridai. «Menzogne! Chi è lui, che voi volete adottare? Lo conoscete? Sapete chi è?».

Ciò che non conosciamo ci spaventa. Cerchiamo un riparo, trincerati dietro ciò che ci è familiare. Abbracciamo teneramente chi ci somiglia e guardiamo con sospetto chi è diverso. E mentre gli altri restano in disparte, noi ci limitiamo a guardarli con diffidenza, di nascosto. Sempre di nascosto, in modo discreto, noi non siamo barbari… Sempre di nascosto, ma tenendo il pugno chiuso in tasca.

In questa città abitiamo solo fra di noi, perché da tempo siamo riusciti a spaventare tutti gli stranieri. Di visitatori non abbiamo più bisogno, e chi arriva da lontano, lo teniamo alla larga. E così, anche quando siamo nella sventura, bastiamo a noi stessi. Evitiamo la gente e non vogliamo sentir parlare di cose nuove. Non abbiamo desideri superflui. Sappiamo cosa ci è necessario e rifiutiamo le cosiddette novità. Chi vuole distinguersi sugli altri non è tollerato – la nostra città non perdona iniziative di questo tipo. Sarà schernito. Sarà spogliato e obbligato a indossare il suo abito di prima.

Ciascuno di noi qui ha il posto che gli compete. E la nostra vita è tutto quello che facciamo in pubblico. Per lo più, azioni che seguono delle regole ma che svolgiamo ormai senza pensarci: stare in piedi, passeggiare, consumare, parlare, sedersi, muoversi, scrivere. In questa catena (immobilità o movimento, obbedienza o trasgressione) si registrano gesti automatici, ma anche azioni coscienti: cantiamo per strada, scriviamo su un muro, rompiamo un oggetto, inciampiamo, accendiamo un fuoco, facciamo teatro, o anche rubacchiamo, siamo inseguiti, ci pigliamo a botte, sporchiamo, balliamo… In altre parole: viviamo fuori, per strada, in uno spazio dilatato che dividiamo con gli altri, ma ciascuno resta solo. La strada allora diventa un luogo familiare – o meglio, noi lo abbiamo reso tale – come la nostra camera. Lì sentiamo di poter accampare qualche diritto. In questo modo, ogni accadimento si muta in azione. È qualcosa che “qualcuno fa”. La vita non si svolge più “dentro la città”, ma “nella città stessa”, sul corpo della città. La città non è più un contenitore (al suo interno viviamo e sogniamo) ma un oggetto-gioco (viviamo nella città e la usiamo, la modifichiamo, giochiamo con lei). Detto altrimenti: la nostra città e ciò che facciamo in lei (con lei), diventano ormai un modo di vivere – non più solo un luogo. E poiché “coabitare” non è semplicemente condividere uno spazio comune, ma conformarsi a un certo modo di vivere insieme, allora noi dobbiamo considerare i sogni come nostri “coinquilini”. Anche per questo la mancanza di sogni ci spinge a una ricerca trepidante, senza sbocco, e alla disperazione. In una situazione in cui “non succede nulla”, di fronte a una “pagina bianca”, molto presto viene a galla l’angoscia di un vuoto insopportabile e ci affrettiamo a creare alcuni fatti, che però restano insignificanti. Ci sforziamo di collegare fra loro i diversi aspetti della vita, ma riusciamo solo a mettere insieme i pezzi di un’immagine che resta frammentata.

Se una marea di orrendi delitti ci può lasciare indifferenti perché ci crogioliamo nella comodità del “ciascuno bada ai fatti suoi”, basta un evento inatteso, uno solo, per sconvolgere la tranquillità di una vita regolata dalle leggi dell’entropia: e allora scopriremo la stranezza dell’organismo-città in cui abbiamo vissuto come parassiti, e ci sbarazzeremo di ciò che ci domina.

Ciò che accade costituisce di per sé un sistema impietoso e fuori da ogni controllo. Alcune cose sembrano succedere in modo spontaneo o perfino, talvolta, come se avessero autonomia propria.

Si ferma per alcuni secondi. Fruscio di pagine sfogliate.

Il giorno dopo decisi di salire di nuovo i gradini che portano al punto più alto della città. È l’ultimo rifugio. Se per un attimo un dubbio ci assale, se brutti pensieri ci passano per la testa, se la città attraversa un periodo difficile, se abbiamo bisogno di lui per qualsiasi motivo, dobbiamo avere la possibilità di salirgli accanto, subito, senza intralci, senza indugio. Perché senza di lui non c’è speranza.

Per l’ennesima volta percorsi la larga strada in salita che porta a lui.

Era sera e intorno alle luci arancione ronzavano nugoli di moscerini impazziti. Mi sedetti sulla solita pietra ed evitai di guardarlo direttamente, perché sapevo che alla prima occhiata lo avrei steso. Poi levai gli occhi d’un colpo e lo fissai. Lo vidi barcollare, sorpreso. Si mosse. Inciampò quasi davanti a me, ma non cadde. Cercai di immaginare la sua caduta, ma non riuscii. La mia fantasia non arrivava a tanto.

Svalutato, decrepito, ma ancora saldo. Mi alzai esausto, quasi sconfitto. Scesi i gradini scivolosi, accecato dalla delusione. Mi chiusi in casa. Ma perfino dai muri, dietro le imposte chiuse, da sopra il soffitto, attraverso lo spessore del cemento, la sua presenza mi assediava. Dove dunque avevano sepolto la sua cellula vitale? Dove si trovava il suo cuore?

La nostra città è “un luogo in cui tutto può succedere”, infatti ha la forza di rendere attuabile ogni tipo di evento, anche dappertutto: è “luogo in cui tutto può succedere ovunque”. Perciò la nostra geografia urbana ormai non si distingue perché ha un punto privilegiato dell’accadere (“là dove tutto avviene”), ma si caratterizza per una dispersione senza precedenti verso ogni direzione, dal centro all’angolo più marginale (“tutto sembra divenire una cosa sola”). E tuttavia il mio gesto appariva ancora inconcepibile.

Quella sera, mentre me ne stavo nella mia camera, le griglie socchiuse e la luce arancione della strada che filtrava dalle tende, tutto si delineò chiaro, senza intoppi e con estrema naturalezza, come fosse pronto già da tempo.

Nella nostra città lo invochiamo continuamente, non passa attimo senza che qualcuno non faccia riferimento a lui. Si potrebbe pensare che tutti viviamo aggrappati al suo passato di grandezza. Quando ci sentiamo piccoli e deboli, cosa che succede spesso, o quando capiamo di essere rimasti un popolo povero, lo invochiamo con reverenza. Ci basta questo. E così siamo a posto. Perché non amiamo avere pensieri. L’unica cosa che ci piace è dire: «Guarda lassù, guarda in cima alla città. Guardalo!». Non ci interessa nient’altro.

In questa città non ci appartiene più nulla. Qui non ci sono novità e non ci sono sorprese. E nemmeno emozioni inattese. In questa città tutto sembra effimero. E se ce lo chiedono, mormoriamo fra di noi che le cose non potrebbero andare meglio. E infatti ripetiamo: «Guarda lassù, guarda in cima alla città». E ci sentiamo sia nani che giganti. E quando siamo nani, ci facciamo coraggio dicendo che gli altri ci temono per lui. E quando siamo giganti, di nuovo leviamo lassù gli sguardi pieni di speranza.

In questa città diventa difficile credere alle tue fantasie. Ero a letto, disteso fra i miei libri. Sognavo a occhi aperti. Ho cercato di immaginare il mio gesto, di pensare che mi apparteneva. (In questa città infatti il nostro sogno è di possedere qualcosa di ideale.) Cosa succederà per prima cosa? La sorpresa. Le reazioni.

Nessuno ci crede. Tutti bisbigliano, in preda al panico. Nessuno vuole crederci. E allora, per assicurarsi che sia vero, corrono a vedere con i propri occhi. È successo davvero? I loro sensi, gli occhi, si ingannano? Nulla è certo, nulla è ancora definitivo. Cosa è rimasto? Solo una roccia devastata. Il basamento ferito dal fuoco. Una sottile colonna di fumo si leva fra i pilastri di ferro contorti e i fari arancione. Alcune luci sono ancora accese. È il crepuscolo. L’ora in cui il cielo sopra la città prende un colore azzurro cupo. Nelle strade i lampioni si accendono uno a uno e l’aria si rinfresca del respiro della terra. Nel cielo prende vita una splendida tavolozza di colori, in cui si srotolano fiamme lunghe e sottili, intrecciate come nastri: si levano dalla cima della città, poi subito si spargono in fuga, fino a perdersi in ogni direzione. Un velo sottile, come di fumo, si stende sulla tela del firmamento. Ma dura pochi secondi.

Allora per la prima volta diventerò signore e padrone del mio gesto straordinario. Tutti correranno come pazzi a salvare ciò che pensano si possa salvare. Gli elicotteri accerchieranno il colle e le strade saranno solcate dalle sirene che chiedono spazio tra la folla accalcata. Dilagherà il rombo della città angosciata, i veicoli, la gente, le sirene… E quanti non sono fuori in strada, staranno incollati agli schermi della tivù a seguire le riprese effettuate dagli elicotteri, e pregheranno che accada qualcosa, che il tempo torni indietro.

Ma il tempo non può tornare indietro, anzi ha subìto uno sconvolgimento radicale. Il passato non è più quello che era prima, e invece il presente dobbiamo ormai esprimerlo con il passato prossimo. Il nostro futuro era racchiuso nel Passato. Le nostre ambizioni dimoravano nella memoria. I sogni erano ricordi nostalgici. E ora per prima volta non abbiamo più un’origine e forse per questo saremo in grado di scegliere una meta. È la fine delle piste battute e delle narrazioni rispondenti alla realtà. Tutto è andato in pezzi per un gesto che nessun altro può rivendicare. E nulla lo può sminuire. Questo gesto che appartiene solo a me: l’abbattimento del simbolo.

Non ho nient’altro da aggiungere. Nient’altro da immaginare. I dettagli non hanno importanza perché non li viviamo. Solo il gesto finale e irreparabile è mio per sempre.

Non volevo passare per un criminale. Né per un pazzo. È molto importante per me non essere frainteso riguardo alle mie intenzioni. Non intendevo fare del male. Non volevo distruggere. Il mio scopo non era privare la città del suo tesoro più prezioso. Cercavo solamente di liberarla da ciò che tutti consideravano come la perfezione assoluta. Io mi vedevo così, uno che offre un dono, indica una via d’uscita, lancia una sfida.

Aprii la finestra e lo vidi splendere, avvolto nel suo velo elettrico, arancione. Avevo ragione. Doveva cadere, a qualsiasi costo…

La registrazione si interrompe bruscamente.

Nota: Sono circolate molte versioni diverse di questo testo. Nessuna di esse però è stata confermata come autentica.

5. Reperti

 Si trascrive qui di seguito fedelmente il documento (Manifesto, fotocopiato da un libro) rinvenuto durante la perquisizione nell’appartamento del soggetto Ch.K., autore del crimine.

Facciamo saltare in aria l’Acropoli!

ASSOCIAZIONE DEI SABOTATORI ESTETICI DI ANTICHITA’. MANIFESTO n° 1

Noi, uniti da una comune estetica e visione del mondo, per cui la distruzione e la mortalità delle forme rientrano nel naturale compimento della vita;

Avendo fissato come nostro scopo supremo la distruzione del Partenone, per consegnarlo all’eternità essenziale, la quale non è altro se non il fluire incosciente di una forma standardisée, e la trasmigrazione spontanea, ricca di potenzialità, della materia, che a torto chiamiamo perdita;

Considerato che l’essere umano non è altro che un automatismo indiretto e una manifestazione versatile della natura, riconoscendo però soprattutto che l’opera d’arte è qualcosa di inaudito ed estraneo alla vita, ma nutrendo profonda ostilità alla sua conservazione nel tempo e nella storia;

Consapevoli che il bisogno di eternità è una premessa basilare per la vita e di conseguenza anche per l’arte, poiché l’arte non è altro se non una forma di applicazione stravolta degli istinti primari della vita, ma consapevoli al contempo che solo questo bisogno di eterno è indispensabile nel momento della creazione;

Noi approviamo Salvador Dalì, che ha avuto il coraggio di comporre un’opera d’arte fatta di carne cruda e ortaggi (e non importa se nella sua mente la pensava per l’eternità, per Dio o per se stesso – parole che hanno identico significato da un punto di vista umano, ma sono fraintese nella loro vera essenza). Anzi, mettiamo Dalì sullo stesso piano di Fidia, che ha dato vita alla sua opera inserendola nel tempo della storia, ma non ha fatto nulla di più per garantirle esistenza nell’eternità (infatti l’eternità non ammette misure o durata, per lei un secondo vale quanto tre miliardi di secoli, grazie alle proprietà di energia e dinamismo che si riscontrano solo a livello degli atomi, e a nessuno importa certo conoscere il loro numero);

Considerando che questa conservazione nel tempo e storia è quanto di più estraneo e ingannevole esista per l’umanità, e inoltre avendo in odio il Turismo Nazionale e la relativa stampa da incubo à propos!

Persuasi di compiere un gesto sublime quanto a spirito e arte, un atto di orgoglio estetico e vitale, nell’instaurare questo tipo di nichilismo – essendo d’altra parte sicuri che tutta questa ridicola e illusoria “sopravvivenza” non può nemmeno lontanamente paragonarsi con un unico minuto di azione energica e appagante; e inoltre è anche dannosa da un punto di vista artistico, in quanto spiana il campo solo a periegeti dilettanti, a castrati e onanisti contemporanei che si definiscono poeti e pittori; insomma, questa “sopravvivenza” di cui stiamo parlando non appartiene nemmeno al ciclo storico della nostra estetica;

Alla luce di quanto esposto,

DECIDIAMO

1.Di fissare in modo assolutamente chiaro come nostro scopo la distruzione dei monumenti antichi, la propaganda contro le antichità e contro ogni oggetto che non ci piace.

  1. Come prima cosa, si è deciso di far saltare in aria e radere al suolo il Partenone, che ci ha letteralmente soffocato.

[Mancano i punti dal 3 al 9]

10. La finalità di questo Manifesto è principalmente di dare un’idea dei nostri scopi. È un proiettile che noi spariamo con poche probabilità di fare centro sulla massa, ma d’altra parte per agire sono sufficienti pochissimi esecutori.

«Ne basta uno solo». [Annotazione vergata a mano a margine]

G.V.M., Presidente Fondatore della A.S.E.A.

 

6. A proposito del Manifesto di Ghiorgos V. Makrìs

 Riguardo al Manifesto del poeta Ghiorgos V. Makrìs (G.V.M.), trovato nell’appartamento di Ch.K., fotocopiato da un libro e con appunti a margine di sua mano, è stato possibile chiarire quanto segue:

 Testimonianza dello scrittore Leonidas Christakis (1928-2009)[1]

«Ghiorgos Makrìs, quando capitava, era solito raccontare storielle che gli altri prendevano per idee estremiste e poi le ricordavano come tali. Fra i discorsi che faceva nei caffè e in casa di amici, in quel periodo c’era anche il tema del culto per l’Antico, che egli riteneva responsabile della decadenza intellettuale e ideologica della Grecia; a seconda di chi c’era nella compagnia, concludeva con l’esortazione: “Distruggiamo l’Acropoli!”. Questa idea fu messa per iscritto in un “Manifesto”, fatto circolare il 18 novembre 1944[2]. Possiamo farne risalire le influenze al poeta surrealista conosciuto soprattutto come Nikitas Randos (si tratta di Nikos Kalogheròpoulous, che firmava anche con gli pseudonimi di Nikolaos Kalas o N.Spieros). Infatti già nel 1935 Randos sosteneva con fervore fra i suoi amici: «Facciamo saltare in aria il Partenone! La sua sola presenza è una piaga per la filosofia». E questo lo diceva non in quanto pensatore nichilista, ma al contrario, perché, sulla scia del dadaismo che arrivò in Grecia con ritardo, voleva rivitalizzare e rinnovare gli orientamenti filosofici del tempo. Penso sia inutile commentare le buone intenzioni di entrambi i poeti, visto che loro non ci sono più, mentre il Partenone continua a essere presente fra noi. Ma occorre qui sottolineare che tutti questi proclami relativi alla distruzione dell’Acropoli sono enunciati molti anni prima della Rivoluzione Culturale di Mao Zedong. […] Ghiorgos Makrìs ha scritto il “Manifesto n.1” quando aveva ventun anni. Se si considera il momento storico in Grecia (liberazione dai tedeschi occupanti, fine della seconda guerra mondiale, diffusione dell’ideologia comunista che porterà alla lacerazione del Paese), allora il contenuto nuovo –e rivoluzionario– di questo Manifesto utopico è del tutto comprensibile. Anzi profetico, se si pensa al successivo sviluppo ipertrofico dell’industria turistica e alla pochezza ideologica intorno al turismo e ai viaggi. In ogni caso, a causa dei drammatici eventi che seguirono (i Moti del Dicembre 1944 nella zona di Atene con gli scontri armati sanguinosi fra la destra e i comunisti, e poi l’inizio della guerra civile), la realizzazione del progetto di far saltare in aria il Partenone naturalmente andò a farsi benedire… L’idea rimase però nei discorsi di Makrìs, che la tirava fuori nelle discussioni ateniesi –quando se ne presentava l’occasione– fino al 1960.»

Seconda Testimonianza di Leonidas Christakis

«Ghiorgos Makrìs nasce ad Atene nel 1923, figlio unico di genitori autoritari. Suo padre era un magistrato inflessibile e comandava anche a casa sua. A causa di un incidente stradale, all’età di sei anni Ghiorgos rimane zoppo e camminerà per sempre con difficoltà. Si iscrive alla facoltà di giurisprudenza di Atene, ma non frequenta. Da autodidatta impara il francese, il tedesco, l’inglese e legge avidamente i libri dei più importanti scrittori del tempo. Dal 1948 vive abbastanza solo. Non ha interessi particolari e vaga tra caffè, osterie, taverne, spendendo i soldi di sua madre e restando poi al verde per settimane. Parla poco e ha uno spiccato sense of humour. Sempre con un libro o una rivista sottobraccio, passa il tempo a leggere sprofondato nelle poltrone di pasticcerie o caffè di piazza Kolonaki. A volte ci rimane ventiquattr’ore di fila. Oppure si seppellisce nella sua camera. Scrive, traduce e manda lettere ad amici e conoscenti. Le poesie (infatti scriveva soprattutto poesie) sono per lo più lo specchio delle sue condizioni psichiche e sentimentali; le traduzioni riflettono invece il suo orizzonte filosofico, incentrato sull’esistenzialismo: riesce a portarne a termine tre, da Aldous Huxley, Octavio Paz e Jean Mirò [sic]. Nel 1965 si manifestano le prime tendenze al suicidio e se consideriamo anche alcuni strani incidenti con la sua auto, che alla fine andò distrutta, i tentativi arrivano a sette. Nel 1968, verso la fine di gennaio, si presenta a casa mia a mezzogiorno. È pallido e smagrito. Pranziamo insieme e poi mi dice: “Mi vergogno di non riuscire a farla finita con questa vita”. E se ne va. Lo chiamo al telefono in continuazione. Non risponde. Il 31 di quello stesso mese, a notte fonda, ricevo una telefonata: mi dicono che è caduto dalla terrazza di casa sua. Pare che a una domanda postagli dal portiere, abbia risposto: “Scendo subito”».

Testimonianza di Ghiannis Rigòpoulos[3]

«[…] Ma all’improvviso Makrìs cambia. Diventa diffidente. Parla di una congiura ordita contro di lui. Si incupisce. Si trascura. Nel 1966 tenta due volte il suicidio e poi ancora nel marzo 1967. Lo ricoverano in una clinica psichiatrica. Esce nel maggio, la salute sembra migliorata, ma la sua lucidità è sconvolta. È completamente smarrito. […] Alla fine di novembre di nuovo tenta di suicidarsi. Si trova in uno stato “psicopatico di tipo paranoico, caratterizzato da delirio di relazione e manie di persecuzione”.

Ha l’impressione che tutti gli siano ostili, gli facciano delle ingiustizie e credano ad accuse mossegli ingiustamente. Un altro ricovero in clinica ma, per l’intervento di uno zio, esce in dicembre».

Testimonianza di Takis Mavros

«Nell’autunno 1943, catturato dai nazisti, fu rinchiuso in un campo di concentramento a Tripoli, dove rimase per molto tempo, riuscendo a sfuggire solo per un pelo all’esecuzione. Ogni mattina un tedesco entrava nello stanzone dei prigionieri e con l’aiuto di Ghiorgos, che conosceva la lingua, chiamava per nome quello che doveva essere giustiziato quel giorno. Parecchi anni dopo un medico di Argo[4] che aveva perso il figlio ammazzato dai tedeschi, fece circolare un quaderno di memorie. In una pagina il ragazzo faceva un vago riferimento a Makrìs, chiamandolo traditore, ma senza spiegare oltre. Solo perché parlava il tedesco e i nemici lo usavano come interprete. […] Makrìs si attaccò a questa accusa infondata in modo ossessivo, direi patologico. Ogni volta le discussioni con lui terminavano allo stesso modo: perché veniva considerato un traditore? […] Rimase ossessionato da questa psicosi fino alla fine.»

Testimonianza di Anghelos Karakalos

«Andai a trovarlo nel suo appartamento di via Semitelou numero 4. Regnava lì un disordine e caos assoluto. […] Gli proposi di sottoporsi a un esame che avevo fissato con un medico in Francia. Rifiutò, con la giustificazione che non aveva passaporto. […] Dopo alcuni giorni, la sera del 31 gennaio, si lasciò cadere dalla terrazza della sua casa, all’angolo fra via Michalakopoulou e Semitelou. Fu riconosciuto grazie al passaporto ritrovato in tasca.»

Terza testimonianza di Leonidas Christakis

«A.S.E.A. è l’acronimo di Associazione di Sabotatori Estetici di Antichità e il “Manifesto n°1” riporta la data del 18 novembre 1944 (un po’ prima dei Moti del dicembre 1944). Le iniziali GVM stanno per Ghiorgos Vassiliou Makrìs: egli ha voluto specificare anche il nome paterno[5], perché non ci fosse alcun dubbio sull’identità del Makrìs Presidente Fondatore. Il Manifesto fu pubblicato nell’unico volume che raccoglie i testi di Ghiorgos Makrìs (Scritti di Ghiorgos V.Makrìs, Estia 1986, a cura di Epaminondas Ch. Gonatàs). Purtroppo risulta in parte tagliato (forse dal curatore?): mancano infatti i punti dal 3 al 9, che si riferiscono alla parte organizzativa di tutta l’impresa. Si presume che l’edizione sia stata censurata per timore che l’editore o il curatore del libro fossero accusati di essere i responsabili morali di ogni possibile distruzione futura di tesori archeologici e monumenti storici.»

 

7. Lista delle persone menzionate dal soggetto Ch.K. durante interrogatorio

Ghiorgos Makrìs

 

8. Prove a carico del soggetto: oggetti messi agli Atti

Protocollo n°: …

Data: …

Cartella della causa n°: …

Imputato: …

Luogo di ritrovamento: …

Descrizione: Dossier Ghiorgos Makrìs

Manifesto n°1 A.S.E.A.

Pianta dell’Acropoli

Carta di Atene

Scritti di Ghiorgos B.Makrìs, a cura di Epaminondas Ch.Gonatàs, Estia, Atene 1986

Fotografia in bianco e nero di persona ignota.

 

9. La fotografia]*

[*] Dettaglio di fotografia, in cui appare anche lo scrittore Kostas Tachtsìs (Salonicco 1927 – Atene 1988). Dopo l’esordio letterario con alcune raccolte di versi, nel 1962 pubblicò a sue spese il romanzo Il terzo anello (trad. italiana P.M.Minucci, Aletheia, Firenze 1992), che lo consacrò fra i maggiori prosatori del dopoguerra. Costruito nella forma del monologo interiore, il romanzo alterna le voci delle protagoniste Nina ed Ekavi: dietro le loro piccole storie individuali (amori, matrimoni, separazioni, lutti, crolli finanziari) si disegna il dramma della Storia, la Grecia degli anni 1910-1950 fra guerre, orrori, povertà. Nel 1969 fu tra i diciotto scrittori firmatari di una dichiarazione contro il regime autoritario dei colonnelli. Nel 1988 fu assassinato in circostanze mai chiarite. [N.d.T.]

 

10. «…Trasparente, come carta di riso giapponese»

– Posso parlarti?

Non riconosco immediatamente la sua voce al telefono, ma capisco subito che qualcosa non va.

– Sei tu? Cosa c’è?

– Questa volta ci siamo… Accendi la televisione… Apri la finestra…

– Aspetta un attimo. Calmati. Cosa succede?

Corro subito alla finestra. Riesco a distinguere solo una sottile linea di fumo sullo sfondo del cielo al tramonto. Accendo la televisione. Il tempo sembra essersi fermato, mentre le immagini emergono troppo lentamente dallo schermo nero, dove ho piantato gli occhi.

Leggo in fretta i sottotitoli pensando all’imminente isteria. Non mi ero mai immaginata nulla del genere. Era davvero una cosa inaudita. Guardavo e non credevo ai miei occhi.

Poi riprese il collegamento in diretta e il flusso del tempo tornò a scorrere, confermando la realtà di quanto stava accadendo. Solo che l’immagine ricordava un disegno senza vita e piatto, come quello dei pittori orientali che fanno i loro paesaggi a due dimensioni, senza prospettiva. La grandezza, la profondità, l’ombra e l’angolo di visuale non sono importanti nelle loro opere. Anzi, lasciano volutamente spazi privi di disegno, che potrebbero essere continuati ad esempio con le nuvole nel cielo, o l’acqua di un lago o di un fiume: ciò stimola chi guarda a usare la propria fantasia per riempire quei vuoti. Ma in questo caso il vuoto non poteva più essere completato con la fantasia. Era impossibile ricostituire l’immagine con la mente. Anche se ciò che mancava era così vicino e familiare. Chiaro e netto come una figura geometrica.

Non riuscivo ad ascoltare le parole del cronista. Nulla poteva attraversare il silenzio di quegli attimi. La realtà sembrava sottile e fragile, trasparente, come carta di riso giapponese.

 

11. Condanna e pena

 Buio. Dopo alcuni secondi comincia la registrazione. Un giovane siede comodamente su una poltrona bianca da giardino, in ferro battuto. Esterno. Dietro di lui, alcune piante. La prima immagine si apre sul verde intorno. Tiene un bicchiere d’acqua in mano. Comincia a parlare guardando l’interlocutore a sinistra dello schermo, invisibile allo spettatore. Inquadratura a mezzo busto, come nelle interviste televisive.

 Ero una recluta. C’è da dire che non ero proprio a mio agio nella vita militare. Arruolato solo alcuni mesi prima, ero ancora pieno di paura. Non riuscivo ad abituarmi a tenere il fucile, avevo difficoltà a marciare con gli anfibi e tutto per me era nuovo. Correvo smarrito a destra e a sinistra appena sentivo il mio nome. Ero sempre in tensione, i nervi pronti a spezzarsi, ed era tanto se riuscivo a dormire tre o quattro ore.

Beve un po’ d’acqua.

Così anche quella volta. Era appena suonato il silenzio. Mi ero rannicchiato nella brandina cercando di tenere gli occhi chiusi. Dovevo alzarmi a mezzanotte per la guardia. Intorno tutti parlavano, alcuni canticchiavano tornando a torso nudo dalle docce. Io cercavo di rilassarmi.

È una vera tortura il turno di guardia di notte. Non è che ti manca il sonno. Questo è il meno. Né dover stare in piedi ti stanca, o il buio. Ma è questa calma insopportabile, la luce del riflettore ai tuoi piedi. E poi il fucile carico: ne avevo sempre paura e lo guardavo con una certa diffidenza. Io e le armi cariche non siamo mai andati d’accordo. E quando durante l’addestramento abbiamo sparato i primi colpi al poligono di tiro, ho chiuso gli occhi per la paura. Non ho mai sparato con gli occhi aperti.

Zoom all’indietro. Campo medio.

Quella sera mi ero sdraiato per dormire, ma non riuscivo a sfuggire all’incubo che mi perseguitava spietato fin dai primi giorni del servizio militare. Era un sogno strano, senza vie di fuga, e cambiava ogni volta, a seconda della situazione. No, non era un sogno, ma una tortura della mente. La mia immaginazione mi condannava a vivere tutto due volte. Non costringendomi a ripetere avvenimenti del passato conservati nella memoria, ma al contrario: mi metteva nella testa cose che mi attendevano nel futuro. E poiché la vita nell’esercito era spiacevole e prevedibile, non era difficile immaginare con la fantasia ciò che sapevi sarebbe successo.

Era un tormento insopportabile che cominciò in quegli anni, e da allora non mi ha mai abbandonato. All’inizio pensavo che fosse semplicemente una reazione nervosa alle difficoltà del servizio militare. Non ho voluto dare troppo peso a quelle visioni e quindi, anche se ne ero terribilmente angosciato, tacevo e portavo pazienza. Anche quando ero in licenza, non mi riusciva di sfuggire. Poco prima di svegliarmi, l’ultimo sogno della notte mi presentava i primi attimi della nuova giornata.

Breve pausa.

Aprivo piano gli occhi, muovevo intorno lo sguardo ancora velato dal sonno e facevo un profondo respiro. Poi mi alzavo lentamente e i piedi mi si gelavano, quando li appoggiavo nudi sulle mattonelle del pavimento.

Ripresa più ravvicinata.

Poi mi svegliavo sul serio e vivevo tutto da principio. Aprivo lentamente gli occhi ancora velati dal sonno e dopo aver dato un’occhiata intorno, mi alzavo con un sospiro e i piedi mi si gelavano, posati sul pavimento. Allora il sogno mi tornava alla memoria e capivo di aver già vissuto quello stesso risveglio. E tutta la giornata continuava allo stesso modo. Perché, mentre bevevo il caffè, come in un lampo mi veniva alla mente il portone che si apriva e la luce abbagliante che mi stordiva. La polvere della strada mi feriva le narici e il viso si accalorava sotto il sole rovente. Era solo un pensiero. Ma quando più tardi quella stessa mattina aprivo il portone, il sole mi accecava e la polvere della strada mi feriva davvero le narici. E allora capivo che oltrepassavo la soglia per la seconda volta.

Così era la mia vita. E sempre, quei piccoli dettagli prevedibili della quotidianità mi si presentavano per due volte. Non è che io sono un profeta, perché non so prevedere proprio un bel niente. So solo quelle piccole cose che accadono in modo sistematico, ed è questo che mi dà il tormento. E non è una tortura da poco, perché è difficile distinguere il reale dall’immaginario. Il tempo si confonde. Non esiste un presente chiaro. Ad esempio, quando vai a spasso, non sei sicuro se stai salendo i gradini di una strada in quel momento, o se invece ti trovi da qualche altra parte ed è nel sogno che fai quelle scale. Lo capirai certo più tardi, atterrando di nuovo nella realtà, ma in quel preciso istante muovi i passi nel vuoto, stando sospeso nel tempo, pieno di dubbi. E poi di nuovo ti perdi. Come puoi sapere dunque se cammini davvero, nella realtà, o se ancora una volta è la tua immaginazione a precorrere gli eventi? Non è facile vivere con questi giochetti della mente.

Ritorno all’inquadratura iniziale. Beve ancora un sorso.

Così anche quel giorno: chiusi gli occhi e vidi davanti a me ciò che sarebbe successo a mezzanotte. Il caporale, mezzo addormentato, striscia fino alla mia branda e mi sveglia con uno scossone. Senza una parola. Tirandomi via la coperta. Mi alzo a tentoni, rabbrividendo, prendo il fucile, l’elmetto, l’equipaggiamento e lo seguo muto. Camminiamo nella notte. È buio pesto e noi evitiamo i riflettori per non essere abbagliati. Arriviamo. Guardo negli occhi il soldato che sta finendo il turno e mi prendo il suo caricatore. Conto. Dieci pallottole. Ci scambiamo le parole d’ordine e il caporale mi fa un cenno con la testa. Si allontanano a passi veloci. I miei occhi si sono abituati alla luce forte del riflettore. Cammino in un cerchio stretto intorno alla guardiola, trascinando l’arma dietro di me, per terra. Il calcio del fucile, passando sulla ghiaia, scava un solco leggero, un confine entro cui rimango isolato per due ore intere, che mi impedisce di allontanarmi dall’area della guardiola, anche solo con il pensiero.

Ma era ancora uno degli scherzi della mia mente. Dormivo nella camerata e, aspettando che il caporale mi tirasse giù dal letto per metterci in marcia, io già camminavo intorno alla guardiola, ma solo nella mia immaginazione.

All’improvviso sentii delle voci, che mi strapparono dal sogno. «È arrivato», pensai e aprii gli occhi. Ma invece del caporale, c’era un giovane ufficiale che girava tra le brande e faceva alzare i soldati. «Tutti in piedi! Sveglia! Preparatevi in fretta!». Tutti si vestivano intimoriti, imprecando o pestando con rabbia i piedi sul pavimento. L’ufficiale gridava e gridava, e l’atmosfera era elettrica, per la sorpresa e il malcontento. Presi l’elmetto e tutto il resto, e i movimenti mi fecero venire alla mente gesti che avevo già fatto, o forse li avevo sognati.

Ci siamo messi tutti in riga, nel corridoio. Lo conoscevo molto bene quel corridoio, illuminato da una cruda luce elettrica e i muri appena intonacati di giallo. Un corridoio lungo e vuoto dove i passi rimbombavano. L’ufficiale ci passò lentamente in rivista. Una cartucciera slacciata. Un elmetto con il cinturino allentato. Una giubba sbottonata. Lanciò a tutti un’ultima rapida occhiata e urlò: «Fuori!»

Cambio di piano. Il narratore ora guarda di fronte a sé.

Ci riversammo terrorizzati nel cortile. Un camion aspettava con il motore acceso. Salii in fretta dietro e appoggiai la schiena alla lamiera gelida. Ricordo ancora le barre di ferro contro la colonna vertebrale. Il rumore degli anfibi era coperto dal ruggito del motore. Il gas di scarico soffocava ogni voglia di parlare. Tutti stavano in silenzio. Non ci avevano detto dove andavamo. Nessuno ci dava spiegazioni. Sembravamo animali impauriti. Il telone cerato era legato stretto: impossibile guardare fuori. Si partì con uno scossone. Cominciarono le congetture e le paure. Dove ci portavano? Perché? Ma non volevo ascoltare. Mi appoggiai contro la canna del fucile e mi addormentai.

Con la mano destra afferrai stretta la fune e appoggiai il piede sulla predella. Intanto il fucile mi scivolò sulla schiena. «E sbrigati, su!», ringhiò il soldato dietro di me. Mi trovai per un attimo sospeso per aria, e subito dopo ero atterrato goffamente sull’asfalto. Ci eravamo fermati veramente? Quanti minuti erano passati, dieci, venti? Ero saltato davvero giù dal camion o anche questo era uno scherzo della mia immaginazione? Forse ero ancora addormentato sul mio fucile? O magari stavo marciando intorno alla guardiola? No, impossibile. Chi poteva dirmelo con sicurezza? E se invece non mi ero ancora alzato dalla branda in camerata?

Inquadratura a mezzo busto. Si ferma per alcuni istanti e si passa il palmo della mano sulla fronte. Beve un po’ d’acqua.

Obbedii agli ordini quasi come un automa. Mi posizionai subito in riga con gli altri: eravamo quindici e ci avevano disposti in colonna. Stavamo immobili nell’oscurità. Alla luce dei fari del camion si poteva distinguere il nostro respiro nell’aria gelida. Nessuno parlava. Quanti minuti passarono così? Cinque, dieci? L’ufficiale diede l’ordine e cominciammo a marciare meccanicamente, senza pensare, d’altra parte bastava seguire quello che ti precedeva. Non serve sapere la meta. Gli anfibi battevano l’asfalto a ritmo regolare. Poi tutto accadde veloce e in modo militaresco, eseguivamo gli ordini in totale sincronia.

«Alt!»

Ci fermiamo.

«Fianco sinist- sinist!»

Formiamo una linea dritta, come ci avevano insegnato.

Il camion si mosse a marcia indietro, illuminando con i fari la parte di un muro. Intorno era buio assoluto e solo il fascio dei fari formava due piccoli cerchi luminosi. Il muro era lungo e si stendeva fin dove i nostri occhi potevano penetrare nella notte. Sembrava che la luna si fosse nascosta di proposito in quel momento.

Il giovane ufficiale ci raggiunse con passo veloce e lasciò a ognuno una pallottola. Il mio sguardo interrogativo rimase senza risposta. Conoscevo quella sensazione fredda e metallica. Era come se la pallottola volesse trapassare vorace la pelle, divorando il palmo della mano.

L’ufficiale ha ripetuto per quattordici volte: «In canna». Una pallottola nella canna del fucile. Obbedisco intorpidito, senza pensare. Quattordici fucili scattano insieme al mio, mentre inghiottono il proiettile nelle loro viscere. Quindici pallottole. Tutte pronte. Al minimo sfiorare del grilletto…

Tutto accadde in un istante. Quasi in modo automatico. Una serie orchestrata di movimenti rapidi. E poi la totale confusione della coscienza. Due agenti escono all’improvviso dall’oscurità trascinando un giovane in condizioni pietose. Lo sistemano nella zona illuminata e se ne vanno. L’autista preme sull’acceleratore, e il motore risponde con un rombo. Le luci ora sono più forti. Non penso a nulla. Poi una serie di comandi, uno dietro l’altro.

«Togliere la sicura».

Tolgo la sicura sentendo il clic metallico sotto le dita.

«Caricare… Puntare».

Alzo il mirino e porto il calcio del fucile alla spalla. Mi posiziono e appoggio la guancia al metallo, gelido per l’umidità notturna. L’ufficiale cammina silenzioso dietro di noi e si china all’orecchio di ognuno sussurrando poche parole incomprensibili. La sua voce tremava tanto che non riuscii a capire… Penso che ci disse: «Al cuore».

Guardai nel mirino. Il giovane somigliava a un pupazzo, un manichino. Stava immobile, le braccia penzoloni e gli occhi bendati con un pezzo di stoffa militare color cachi, forse una federa.

«Pronti!».

Sposto il dito sul grilletto e resto in attesa. Inspiro profondamente e trattengo il respiro. Alzo la canna di alcuni millimetri. Il centro del mirino è sul cuore. La stessa paura, lo stesso tremito. La stessa incertezza della realtà.

Non ho mai potuto abituarmi a un’arma carica. Ho sempre serrato gli occhi e sparavo alla cieca.

«Fuoco!»

Per un attimo esito, ma mi calmo subito, pensando che nella vita reale abbasserei il fucile e mi rifiuterei di eseguire l’ordine. Un attimo dopo sento il colpo secco di ritorno, contro la spalla. Il metallo in un attimo mi brucia la guancia. L’odore della polvere da sparo mi ferisce le narici. Conoscevo queste sensazioni. Apro gli occhi e il giovane era crollato a terra in modo scomposto.

Come appresi più tardi, quattordici pallottole lo avevano colpito al cuore. La quindicesima aveva trapassato il cranio proprio sopra il sopracciglio sinistro.

Beve l’acqua rimasta nel bicchiere.

Mi ritrovai di nuovo al turno di sorveglianza, girando intorno alla guardiola, trascinando l’arma dietro di me. Il calcio del fucile tracciava un solco nella ghiaia. Tornai, feci ritorno, o forse non ero mai partito?

Mi chiedevo con angoscia se avevo davvero sparato a quel ragazzo o se era uno scherzo della mia mente e da qualche parte nel futuro continua a aspettarmi la notte in cui premerò il grilletto. Da allora questo dubbio mi tormenta il sonno. Temo di essere svegliato bruscamente una notte (ma davvero questa volta?) dagli ordini del giovane ufficiale che radunerà il plotone.

Si appoggia allo schienale e resta in silenzio per cinque secondi. Quindi volge lo sguardo a destra e poi a sinistra, guardando per un attimo dritto nella cinepresa. Buio.

 

EPILOGO

Il Partenone è esploso venerdì 17 del corrente mese, alle ore 20 : 13.

Ch.K. è stato giustiziato martedì 21 del corrente mese, alle 00 : 45. La sua morte è dovuta a una sconsiderata iniziativa delle autorità incaricate della sua detenzione. Sulla questione la magistratura aprirà un’inchiesta.

Una sorta di apologia del suo atto, scritta da lui stesso, era conservata in una cassetta segreta che, dopo la sua uccisione, è stata bruciata, sigillata com’era. Non esiste nessuna copia ufficiale. Da allora a più riprese sono apparsi numerosi testi che pretendono di essere confessioni “autentiche”.

Si è dato inizio ai lavori per la costruzione del “Nuovo Partenone”, nel sito del monumento perduto.

La conclusione del cantiere è prevista entro quindici mesi.

[1] Leonidas Christakis ha scritto su Ghiorgos Makrìs in varie occasioni: interviste, periodici e testi vari. Cfr. soprattutto: Ghiorgos Makrìs – Siamo i Messaggeri del caos, ed.Chaos&cultura ; I nostri santi, ed.Chaos&cultura 1999; La storia del vagabondaggio, ed.Gordios 2003; Il quartiere di Exarchia non esiste nella storia, sulla carta e nella vita, ed.Tyflomyga 2008 [N.d.A.].

[2] La data più probabile è il giorno prima, 17 novembre 1944 [N.d.A.].

[3] Gli amici di Makrìs (Ghiannis Rigòpoulos, Takis Mavros e Anghelos Karakalos) hanno reso queste testimonianze in occasione del convegno Ghiorgos Makrìs 1923-1968 (Atene 8.11.2002 e Nauplia 9.11.2002), che si possono leggere nel volumetto di 32 pagine Un precursore, Biblioteca Centrale di Nauplia ‘Palamede’, Nauplia 2002 [N.d.A.].

[4] Di nome Boukouras. [N.d.A.]

[5] Vassilis; Vassiliou significa: figlio di Vassilis. [N.d.T.]

Traduzione e cura di Gilda Tentorio