La cura della terra tramite il lavoro agricolo è il più importante presidio della “trama della vita”. Questa consapevolezza – radicata ancora oggi nelle culture indigene e contadine – è stata brutalmente offuscata dal sistema alimentare industrializzato che oggi punta al business del food-tech, la creazione nei laboratori di ingegneria genetica di nuove materie prime per produrre “falsi vegetali” e cibo artificiale. Nel suo ultimo straordinario libro, Dall’avidità alla cura, Vandana Shiva spiega come gli esseri umani sono “la nuova materia prima” da cui estrarre dati e geni per condizionarne i comportamenti. Uno scenario distopico, violento e transumano, le cui origini affondano nell’illusione della superiorità dell’uomo sulla natura, dell’intelletto sul corpo, del maschio sulla donna, degli europei su tutte le altre popolazioni. Tuttavia il pensiero di Shiva è tutt’altro che apocalittico: il suo messaggio è che “possiamo scegliere” tra la vera e la falsa conoscenza, tra la competizione e la cooperazione, tra la l’eterodirezione e l’autodeterminazione. Si tratta, prima di tutto, di imparare a guardare il mondo dal basso, da raso terra, lì dove la vita prende origine.

 

Per Vandana Shiva “seminare semi di un altro futuro” non è una metafora. Così come “coltivare giardini di speranza” e “intrecciare ghirlande d’amore” non sono attività ludiche, ma chiamate all’impegno comune per una “democrazia della Terra”, come spiega in Dall’avidità alla cura. L’economia necessaria per un’economia sostenibile (emi, 2022, pp. 215, euro 16).

La sua vita di scienziata e di attivista, da trentacinque anni, dalla fondazione del centro di ricerca e di formazione Nadvanya in India, è stata dedicata a dimostrare che la strada per cambiare il mondo inizia dalle pratiche agricole. Sono le foglie verdi delle piante che raccolgono le “benedizioni del sole”, catturano la anidride carbonica in eccesso dall’atmosfera e permettono di trasformare l’acqua e le altre sostanze del terreno assorbite dalle radici in carboidrati e proteine, restituendo al terreno “carbonio vivo”. Vale a dire: “Siamo vivi grazie alle piante” [p.155]. Le piante donano tutto il nutrimento primario necessario alla vita animale. La cura della terra tramite il lavoro agricolo è quindi il primo e più importante presidio della “trama della vita”. Ogni essere vivente è interconnesso e interdipendente. Siamo parte della natura e “membri di una unica famiglia”. Siamo vivi e sani fino a che la natura è viva, ricca di biodiversità, capace di auto-organizzarsi e di rigenerarsi. “La salute del pianeta e la nostra salute non sono separabili” [p.7].

Questa consapevolezza – ben radicata ancora oggi nelle culture indigene e contadine – è stata brutalmente offuscata dall’avvento di “un sistema alimentare industrializzato, militarizzato e globalizzato guidato dall’avidità” [p.147] che ha violato i limiti e l’integrità degli ecosistemi, interrompendo i cicli ecologici e nutrizionali della vita. Le riprove sono evidenti e non serve più nemmeno ricordarle: perdita di biodiversità e di fertilità dei suoli, estinzione delle specie animali, inquinamenti di ogni genere, malattie croniche e pandemie, surriscaldamento dei mari e dell’atmosfera, crisi idriche. Secondo le stime ritenute corrette da Vandana Shiva le emissioni di gas serra prodotte dal sistema agricolo e alimentare raggiungono il 50 per cento del totale.

Rifondare su basi totalmente diverse – agroecologiche – il sistema agricolo e alimentare è quindi una priorità assoluta per salvaguardare l’abitabilità del pianeta. I saperi, le tecniche, le esperienze necessarie per una conversione ecologica dell’agricoltura ci sarebbero già tutti e la loro efficacia è ampiamente dimostrata dal lavoro di un’infinità di fattorie ecologiche in ogni continente. La produzione alimentare misurata in capacità nutrizionale di un ettaro di terreno coltivato condotto seguendo i principi della agricoltura biologica, con coltivazioni miste, a piccola scala e ad altra occupazione, può essere maggiore fino a cinquecento volte rispetto alle monoculture industrializzate [p.190]. Per non parlare dei minori impatti ambientali, delle migliori condizioni di lavoro, della sovranità alimentare delle comunità locali, dell’eliminazione degli squilibri di potere che si creano nelle “ragioni di scambio” tra paesi esportatori e importatori di derrate alimentari.

Il “fallimento della rivoluzione verde” (cioè dell’introduzione massiva della chimica in agricoltura) è oramai chiaro anche alle grandi corporation del “cartello dei veleni” (IG Farber, Monsanto, Dupont, Union Cardibe, Standard Oil e poche altre) che dalla produzione di gas ed esplosivi a uso militare sono passate ai fertilizzanti e ai pesticidi. Ma la risposta che viene ora dal “grande capitale” costituito da “una manciata di miliardari” arricchitisi con le tecnologie digitali è ancora peggiore: il nuovo business si chiama food-tech. Ossia, la creazione nei laboratori di ingegneria genetica di nuove materie prime per produrre “falsi vegetali” e cibo artificiale. La Bill & Melinda Gates Agricultural Innovation, ad esempio, ha fondato l’impresa Impossible Burger [p.120]. Altri colossi della bioingegneria hanno lanciato Beyond Meat, Ginkgo Biowarks, Pivot Bio Food e altri marchi ancora. Ovviamente, promettono di sfamare il mondo con cibi a basso prezzo. In realtà lo affameranno ancora di più e, attraverso l’“agricoltura di precisione” programmata dagli algoritmi e controllata a distanza da droni e satelliti, renderanno i lavoratori agricoli ancora meno autonomi e più poveri, appendici delle macchine e pagati secondo le leggi del mercato. Ma non solo loro. Per Vandana Shiva l’idea che accomuna la fusione del grande capitale Big Ag, Big Tech, Big-Data, Big-Pharma e Big Finance è considerare “le nostre menti e i nostri corpi come la colonia finale. Siamo la miniera e la fogna. Siamo la materia prima e la discarica” [72]. Sono gli esseri umani “la nuova materia prima” da cui estrarre dati e geni (data e genetic mining) per condizionarne i comportamenti. Siamo entrati in una “nuova economia tecno-feudale” [184], scrive Vandana Shiva che non si discosta molto dalla definizione di “paleotecnica” che già Lewis Munford dette alla “megamacchina” termoindustriale delle prime rivoluzioni tecnologiche.

Uno scenario distopico e apocalittico, violento e transumano, le cui origini – indagate in alcuni tra i più interessanti capitoli del libro – vengono da lontano. Per Vandana Shiva la nostra civiltà occidentale è ancora prigioniera del paradigma baconiano-cartesiano del “dominio dell’uomo sull’universo” [p.59] e del “pregiudizio antropocentrico”. Vale a dire: l’illusione della superiorità dell’uomo sulla natura, dell’intelletto sul corpo, del maschio sulla donna, degli europei su tutte le altre popolazioni della terra. “Un progetto patriarcale violento che voleva schiavizzare la natura” [p.60], che ha accompagnato l’hibris di conquista dei colonizzatori e giustificato una economia politica basata su estrattivismo e crescita senza fine, trasformando la società in una “macchina da soldi”. Qui vanno ricercate le cause profonde del collasso ecologico e delle ingiustizie sociali, poiché: “In un mondo interconnesso dal punto di vista ecologico la negazione dei diritti della natura si traduce nella negazione di diritti umani” [p.12].

Ma il pensiero di Shiva è tutt’altro che apocalittico. Il suo messaggio è che “possiamo scegliere” [p.153] tra la vera e la falsa conoscenza, tra la competizione e la cooperazione, tra la l’eterodirezione e l’autodeterminazione, tra l’oikonomia e la crematistica, per tornare ad Aristotele. Possiamo scegliere di organizzare la cooperazione sociale attorno ad “economie vive”, capaci di cura, compassione e accudimento, rigenerative, circolari, plurali… una “vera green economy”. Per riuscirci, però, è necessario cambiare la visione delle cose, scendere dalla presunzione di essere al vertice della piramide evolutiva, ricomporre le divisioni che ci hanno separato gli uni dagli altri e dalla natura. Shiva dice: “Le piante possono insegnarci visioni del mondo e valori che ci aiutano a vivere in armonia con la natura, le altre specie e noi” [p.156]. Lo chiama “pensiero vegetale” e ricorda il filosofo Michael Marder: “Solo rifiutandoci di riconoscere l’intelligenza con un’eccezione nell’ordine della vita e nel processo evolutivo, potremmo addentrarci nel terreno inesplorato del pensiero vegetale” [176]. Ad esempio, pensiamo all’intelligenza dei fungi micorrizici che ricercano e forniscono ciò di cui le piante hanno bisogno. Insomma, dovremmo imparare a riconoscere quella intelligenza ecologica superiore, emotiva, compassionevole e premurosa che tiene assieme la rete della vita.

Con questo libro Vandana Shiva ci offre un affresco completo nella sua lunga ricerca e ci sprona a guardare il mondo dal basso, da raso terra, lì dove la vita prende origine.