L’illusione di essere liberi e di poter cambiare radicalmente le cose. La convinzione indotta che tutto dipende dalla volontà della singola persona. La moltiplicazione, con il web, dei luoghi di “dibattito”. La nostra idea di democrazia oggi si nutre di questo. Intanto le nostre vite scorrono su un nastro trasportatore su cui non abbiamo alcuna padronanza. Viviamo il tempo – come spiega Marco D’Eramo in un grande libro, Dominio – in cui chi produce cultura non è in grado di difendersi da una sempre più pervasiva ideologia neoliberista. Per questo il concetto di democrazia è da tempo svuotato di senso. Del resto quando Giorgio Gaber parlava di libertà come partecipazione, non intendeva dire che basta partecipare ai dibattiti o alle elezioni ma partecipare ai processi di trasformazione della società, dove la partecipazione si fa ogni giorno in carne e ossa e produce nuovi mondi e nuove relazioni sociali, non la parata grottesca del nostro contributo al chiasso universale sui social.
Senza voler entrare più di tanto nel merito di un argomento complesso, vorrei far notare quanto nel tempo la nostra esperienza di democrazia si sia modificata e quanto oggi definire i nostri paesi, specialmente quelli appartenenti alla Nato ma più in generale quelli connessi in qualche misura con l’influenza statunitense, come democrazie, sia sempre più discutibile. Non si tratta semplicemente di mostrare, come è sempre più evidente, che l’informazione è sempre più controllata ed egemonizzata da cliché di liberalismo e democrazia del tutto obsoleti rispetto a ciò che effettivamente poi una tale informazione offre ma che in generale le nostre, o meglio, in particolare la nostra democrazia liberale sia una pura finzione.
È evidente che, a onta di una moltiplicazione sempre più vasta delle fonti di notizie, che tuttavia a me pare una frantumazione in porzioni sempre più irrilevanti, il cui limite è ovviamente la cosiddetta pagina personale su fb o su twitter (milioni!), in verità quelle che producono un’influenza significativa siano non solo sempre più ristrette ma anche sempre più controllate, tenute al guinzaglio di lobbies economiche estremamente elitarie e in generale spaventosamente inclini a espellere dal novero dei propri rappresentanti (o a non includere), chiunque sia portatore di istanze veramente diverse da quelle rappresentate secondo le linee di controllo stabilite dai vari poteri che le sostengono. Magari ospitano voci contrarie ma ben attenti a selezionarle tra personaggi poco credibili o che vengono facilmente ridicolizzati o demonizzati nei contesti predisposti a questo.
È verissimo che oggi tutti parlano e scrivono ma sortendo solo un rumore diffuso che nessuno sente. La liberalizzazione della rete ha partorito il nulla ed è di fatto del tutto complice del fatto che a parlare veramente restano solo le poche fonti di informazione innocue per il sistema di potere (quello sì, sempre lo stesso nei decenni), i cui rappresentanti sono previamente sottoposti a castrazione sistematica di ogni capacità di critica radicale. Io stesso mentre redigo il mio blog o posto qualcosa sulla mia pagina sono perfettamente consapevole di parlare a un gruppo di persone infinitesimale che mi serve più che altro per non sentirmi solo (come invece di fatto sono) e che quando raramente mi sono proposto in sedi più potenti sono stato sistematicamente rifiutato o censurato. Anni fa una specialista in pubbliche relazioni e consulenza editoriale mi seguì, per amicizia, per circa un mese, per aiutarmi a far pubblicare nelle sedi importanti le cose che scrivevo. Dopo un mese riuscì in effetti a far pubblicare un mio articolo sulla Lettura del Corriere. Il problema è che non era più il mio articolo, ma una riscrittura (fatta da lei) in cui tutti gli elementi radicali del mio discorso erano stati rimossi e rovesciati. Il prezzo da pagare per accedere a una importante fonte informativa o culturale (discorso non molto dissimile può essere fatto per le case editrici, i programmi televisivi ecc.) è, più che la capacità di bucare lo schermo, molto relativa in realtà, l’essere stati castrati della propria carica eversiva e proporre opinioni facilmente condivisibili e indolori per le strutture di potere.
La nostra democrazia funziona così, ce lo hanno spiegato già un secolo fa gli autori della Scuola di Francoforte: ti danno l’illusione di essere libero e di poter cambiare le cose. In realtà non puoi mai cambiare niente se non le tue percezioni. Non sarà un caso che oggi siamo bombardati da una psicologia che mira a convincerci che la salvezza può essere frutto solo di una decisione personale. Se non sei felice è colpa tua, è il suo mantra, per essere felice basta deciderlo. Non sono gli altri ad essere cattivi, non è il sistema, sei tu che non hai ancora preso la decisione di guardare il bicchiere mezzo pieno. I teorici del sistema economico neoliberale del resto lo dicono da tempo: se sei povero è solo perché hai deciso di essere povero, quindi dipende da te migliorare la tua condizione economica.
ISBN: 9788893130394, pagine 96 con 16 pagine a colori, 13,00 €
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Non è il sistema sbagliato, sono io
La fine delle formazioni collettive, unico vero spauracchio per queste false democrazie, la manipolazione del linguaggio, di cui non riusciamo neppure a seguire l’andamento delirante, la colpevolizzazione sottile ma efficace dell’infelicità e dell’insuccesso, la frammentazione della comunicazione, hanno prodotto la loro verità. Non è il sistema sbagliato, sono io.
È incredibile come funzioni bene questo apparato. Se solo pensiamo alla deformazione del linguaggio che ormai utilizziamo da cui sono stati espunti i termini che denunciavano la lotta delle classi, che ha eufemizzato ogni forma di figura di potere nei suoi risvolti di sfruttamento e di violenza, se pensiamo all’immissione spaventosa dell’inglese che ha mascherato ogni trasformazione in slogan di cui non percepiamo più alcun significato (ma che a ben vedere è il calco permanente della razionalità strumentale applicata semplicemente a tutto: in breve, interessati solo di ciò che ti serve per il tuo successo personale, poi buttalo via), l’aumento spropositato delle sigle e delle abbreviazioni, per farci scordare più in fretta di quale materia vile sia fatto il nostro universo simbolico, se solo ci rendessimo conto di tutto questo, forse il nostro giudizio sulla nostra “democrazia” sarebbe un poco meno convinto.
Le nostre vite scorrono su un nastro trasportatore su cui in realtà non abbiamo alcuna padronanza, ad onta di tutto, e il fantasma di quello che ha ben descritto Erik Gandini nel suo documentario sulla Svezia, “La teoria svedese dell’amore”, è sempre più vicino e reale. Viviamo soli, consumiamo soli, scriviamo soli, moriamo soli e ogni tentativo di uscire da questo è semplicemente inibito da servomeccanismi efficientissimi che non appena sgarri ti riconducono automaticamente alla tua condizione di solitudine assoluta e di impossibilità a solidarizzare con altri (tutto è competizione).
Quando Giorgio Gaber, che aveva ben imparato, con Luporini, la lezione della Dialettica dell’illuminismo (o se preferite quella della “religione americana” e del neoliberismo di cui tutti siamo solo i prodotti ormai), parlava di libertà come partecipazione, non intendeva ovviamente dire che basta partecipare ai dibattiti o alle elezioni (in un’altra canzone metteva bene alla berlina il gesto grottesco del voto elettorale) ma partecipare ai processi di trasformazione della società.
Ci rendiamo conto che questo nostro paese, come la maggior parte delle democrazie occidentali, nelle sue strutture profonde, non cambia mai? Altro che gattopardo! Ma possibile che in ormai settant’anni si sia riuscito a mantenere sempre gli stessi gruppi di potere, le stesse famiglie, gli stessi gruppi dirigenti? Ma come mai in questo paese non si è mai riusciti a ottenere di tassare i più ricchi, di aggredire il tema dell’evasione fiscale, della redistribuzione della ricchezza?
Certo, in tempi diversi, quel breve frammento della storia che il nostro sistema informativo contribuisce ogni giorno a maleficare dietro la sigla di “anni di piombo”, anni violenti (la demonizzazione del ’68 è una delle operazioni più schifose che l’intera industria del consenso abbia mai fatto nel nostro paese) e così via, si ottennero diritti per i lavoratori, statuti, liberazione da molte condizioni di oppressione, che ormai oggi sono già stati già tutte ripristinate.
Dominio
Fu proprio quella stagione a indurre i potenti a lavorare alla più grande opera di mistificazione culturale e sociale che mai sia stata compiuta sulle nostre coscienze e sulle strutture della nostra stessa formazione per essere già pronti ad essere consumati sul mercato del lavoro coatto, delle merci e degli spropositati guadagni che esse offrono a una ristretta élite di “porci” unicamente dediti al proprio tornaconto. Si legga al proposito il testo Dominio di Marco D’Eramo, curiosamente un intellettuale che non si sente mai citare nei nostri media e nei nostri giornali, al pari di altri, ovviamente, tenaci nel non mollare certi strumenti di analisi e la consapevolezza che viviamo in un sistema tutt’altro che democratico. In quel testo si mostra come sia stata realizzata una vera e propria campagna di guerra che ha avuto di mira, con successo, la colonizzazione delle università, dei centri di cultura e soprattutto della direzione della ragione economica all’insegna di una pervasiva ideologia neoliberista, in gran parte responsabile del degrado sociale, economico, ambientale e culturale in cui oggi viviamo.
Ma di cosa parliamo quando difendiamo a spada tratta il nostro sistema liberal-democratico? Di quale società migliore possibile? Siamo davvero convinti che sia la migliore possibile o siamo semplicemente assuefatti al messaggio che ci vuole tutti anestetizzati sui disastri che questa società continua a compiere su di noi, sui nostri figli, sull’ambiente, sugli altri popoli, nella sua pretesa di globalizzare le sorti del mondo alla luce della sua fiaccola devastatrice? Quale potere abbiamo di cambiare le cose? Quale potere ci è rimasto? Quello di inveire come faccio io sul mio blog o sulla mia pagina facebook o di scrivere libri come quelli di D’Eramo che quasi nessuno legge e che mai saranno promossi da qualche fonte d’informazione rilevante?
Certo, possiamo fare quasi tutto, purché nulla cambi, come sappiamo bene. Ma il fatto che nulla cambi induce frustrazione, depressione, infelicità. Questa è la nostra reale condizione e tutta l’industria dell’intrattenimento e delle varie dipendenze più o men indotte non può mascherare la spaventosa infelicità che oggi di fatto costituisce la cifra della nostre vite. Non basta cambiare partner, rivista, giornale, luogo di villeggiatura, dieta o partito politico per raggiungere la felicità. La felicità, parafrasando Gaber, è partecipazione. Partecipazione autentica, in carne e ossa, che produce nuovi mondi, non la parata grottesca del nostro contributo al chiasso universale su fb o su twitter.
Ma questo è interdetto, bloccato, in fondo neppure sui nostri canali privilegiati possiamo davvero dire ciò che vogliamo, sempre più strette si fanno le maglie e le censure e i blocchi aumentano quanto più il sistema si sente minacciato.
Si potrebbe analizzar tutto ciò in maniera molto più dotta. Lo lascio a chi ne è esperto. I disastri di questo sistema io li vedo nell’educazione e ne ho già parlato altrove.
Un’ultima cosa però mi preme dire. Qualcosa sul termine libertà, che ultimamente vedo impugnato da tutti come il totem della democrazia.
ISBN: 9788893130639, pagine 64, 10,00 €
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Libertà
Perdonatemi, sono cresciuto in un altro tempo, o forse in un altro interstizio del tempo ma il termine libertà non è così nobile come crediamo. Libertà e giustizia si cerca sempre di coniugarli insieme ma non è affatto ovvio. E neppure libertà e felicità. Forse occorrerebbe anche iniziare un periodo di digiuno dalle richieste di libertà, dei diritti di ogni genere e cominciare a optare per una chiamata alla responsabilità, ai doveri, a una morale, come diceva ancora Gaber alla fine di un suo spettacolo famoso sulla libertà obbligatoria.
Come scriveva un antropologo tanto tempo fa esistono (esistevano sarebbe meglio dire) popoli che vivono nella povertà, nell’indigenza, che non conoscono l’uso dell’elettricità o del gas ma hanno culture incredibilmente complesse, ricche di simboli, di riti, di cerimonie collettive, di feste, di uno spirito non dedito al lavoro e allo sfruttamento. Muoiono giovani ma forse più felici o semplicemente più ingenui.
Poi esistono le grandi civiltà, dove l’immaginario diurno della bonifica, della tecnologia, della razionalità calcolante hanno distrutto ogni traccia di simbolo, di rito, di festa autenticamente sentita. Abbiamo auto incredibilmente confortevoli per i nostri viaggi solitari da casa al lavoro tutti i santi giorni, abbiamo tecnologie potentissime per comunicare con chiunque stando seduti da soli alle nostre scrivanie nelle nostre case igienizzate, riscaldate, dove il fiume di parole e immagini televisivi sono l’espediente per non sentirsi soli, abbiamo mezzi per salvare vite e prolungarle fino a cent’anni, volenti o nolenti, spesso nolenti o solo persuasi che domani troveranno un altro farmaco per tenerci in piedi. Forse conquisteremo l’immortalità. Ma a quale prezzo?