Tempo di domande. Che senso ha mandare armi sempre più potenti ai combattenti dell’Ucraina perché ammazzino, si facciano ammazzare, e facciano ammazzare la popolazione civile, vera vittima di tutte le guerre moderne, e poi pagare a Putin gas, petrolio, carbone, fertilizzanti e altre cose di cui non sappiamo fare a meno, continuando così a finanziare la sua guerra di aggressione? Non è forse la moltiplicazione delle armi, si chiede Guido Viale, a rendere la guerra sempre più estesa e ad avvicinarci al ricorso alle bombe atomiche che aspettano solo, ben sistemate nei loro silos, di essere usate? La guerra è per tutti una scuola di crudeltà, cinismo e menzogne: come negarlo?
L’invio delle armi all’Ucraina? I pro non ci sono. Giorno dopo giorno vediamo sempre meglio come la guerra in Ucraina non sia che distruzione di vite, di famiglie, di ambiente, di socialità, di umanità, di intelligenza. Come tutte le guerre. Ma questa di più. Che senso ha mandare armi sempre più potenti ai combattenti dell’Ucraina perché ammazzino, si facciano ammazzare, e facciano ammazzare la popolazione civile, vera vittima di tutte le guerre moderne, e poi pagare a Putin gas, petrolio, carbone, fertilizzanti e tante altre cose di cui non sappiamo fare a meno, continuando così a finanziare e rafforzare la sua guerra di aggressione? Non è forse la moltiplicazione delle armi in campo a rendere la guerra sempre più intensa, estesa, mortifera, ad avvicinarci al ricorso alle bombe atomiche che aspettano solo, ben sistemate nei loro silos, di essere usate? Tutte le armi sono concepite, costruite, comprate e vendute, prestate (come nel caso dell’Italia) per essere usate. Per questo è sempre più urgente battersi contro le guerre e contro l’industria delle armi che le alimenta, a discapito di ciò che servirebbe, e manca, a sostenere la vita di tutti.
La potenza delle armi moderne, al cui apice ci sono gli ordigni dello sterminio nucleare, ha cambiato radicalmente l’orizzonte dei conflitti armati: “un popolo in armi” può certo intralciare un’occupazione, pagandone un prezzo molto alto; ma che possa tener testa a eserciti dotati di tutti gli armamenti sviluppati dalla tecnica è una favola: può farlo solo delegando il confronto a un esercito professionale dotato di strumenti paragonabili, e soccombere di fronte a entrambi.
Fare a meno delle guerre significa affermare le ragioni della vita contro quelle della morte, mobilitarsi contro la distruzione di tante esistenze, sostenere le possibilità concrete di comporre il contenzioso con rinunce accettabili da entrambe le parti, ma anche promuovere il disfattismo e la disgregazione delle gerarchie che rendono operativi gli eserciti.
La visione delle devastazioni, della morte, del dolore, della disperazione che colpiscono le persone, sia civili che militari, coinvolte in questo assurdo macello, quella che giornali, Tv e social esibiscono quotidianamente, dovrebbe indurci rigettare per sempre l’idea di combattere la guerra con altra guerra, con più guerra. E infatti, sondaggi, pur ampiamente manipolati, continuano a dirci che la maggioranza della popolazione italiana è contraria all’invio di armi e a un coinvolgimento diverso dal sostegno materiale ai profughi e alle persone colpite dall’invasione: vuole proposte di mediazione, di tregua, di accordo, senza venir meno, ma anzi adempiendo, al dovere di solidarietà nei confronti di persone che sentiamo nostri fratelli e sorelle. Quanto più dolore e sofferenza percepiamo in loro, tanto maggiore è la spinta a sentirsi una o uno di loro. Ma appena dalle persone che affrontano con crescente difficoltà la propria vita quotidiana si passa a coloro che hanno responsabilità politiche, governative, imprenditoriali o nel giornalismo, la musica cambia. Per loro non c’è alternativa alla guerra, all’invio di sempre più armi; non condividere questa scelta lo considerano un tradimento di cui vergognarsi, quasi che il dolore e le sofferenze provocate dalla guerra che i media esibiscono ogni giorno non possano trovar rimedio e conforto se non nei campi di battaglia.
In questa logica manichea ci sono solo buoni e cattivi. E poiché Putin, l’aggressore, è sicuramente cattivo, ne consegue che tutti gli ucraini sono buoni; e noi, che li appoggiamo, anche. Ma le cose non stanno così: la guerra è per tutti una scuola di crudeltà, di cinismo, di menzogne che ci coinvolge tutti: combattenti e non. Per chi non pensa che alle armi, invece, la pace può arrivare solo con la vittoria. Ma quale vittoria? E di chi, se più continua la guerra e più cresce il numero delle vittime immediate, ma anche quello delle persone che per gli anni a venire non avranno più la loro famiglia, o qualche suo membro, e una casa, un lavoro, o la vita che avrebbero voluto per sé e i propri figli?
Ma c’è di più: il ricorso ad armi sempre più potenti, con le loro devastazioni, e l’abbandono anche dei più timidi propositi di transizione ecologica, con il ritorno al carbone, al petrolio e con la ricerca spasmodica di altro gas per compensare le per ora irrinunciabili forniture della Russia, non fanno che accelerare la crisi climatica e ambientale. Per cercare di arrestarne il corso e l’esito catastrofico e sempre più vicino occorre abbandonare l’idea stessa della guerra e la fabbricazione di armi: un proposito da inserire tra le premesse
irrinunciabili di ogni progetto di conversione ecologica. La compassione per le vittime di questa guerra, certo condivisa sia dai favorevoli che dai contrari all’invio di armi all’Ucraina, non si estende però alle sofferenze, comprese le migrazioni, a cui la crisi climatica e ambientale già oggi costringe centinaia di milioni di esseri umani. Ma, soprattutto, non si estende all’esistenza invivibile a cui stiamo condannando le prossime generazioni – se non i nostri figli, certamente i nostri nipoti – che poco differirà da quella provocata alle sue vittime da questa guerra. Il futuro che stiamo preparando è lì, davanti ai nostri occhi. Forse la vera differenza tra chi sostiene e chi è contrario all’invio delle armi in Ucraina è proprio la diversità dello sguardo rivolto al futuro.