Utopia Distopia. Mappe dell’immaginario e scenari dell’(im)possibile

Il XXI secolo, che doveva conoscere la conclusione della storia in un mondo di magnifiche sorti e progressive, sembra aver invece definitivamente seppellito l’idea di progresso, presentando una storpiatura distopica degli eventi che si stanno succedendo sul proscenio delle vicende umane. Aldo Meccariello si interroga sul rapporto tra utopia e distopia presentando una lettura intelligente e non banale, che fa della distopia un momento che sollecita le coscienze a interrogarsi in particolare sull’evento pandemico. Se l’idea di progresso si è sempre collocata nel cuore di utopia e delle sue mitologie, la distopia ha colonizzato l’utopia, portandone alla luce gli aspetti malati.

Attraversando una ricca mole di riferimenti filosofici, letterari, cinematografici, Meccariello vuole dimostrare «che la pandemia, accelerando un processo in atto, ha spinto la distopia nel cuore malato dell’utopia a riprova che, nel presente, l’unica forma possibile di utopia è una “distopia utopizzata” o una “utopia distopizzata”» (p. 7). Non si tratta di rimpiangere le utopie, con il loro corteggio di lutti di cui il Novecento è stato exemplum, quanto di attraversare la distopia per aprire a nuove prospettive; infatti, «per fuoriuscire dalle crepe dell’utopia occorre ricostruire distonicamente l’utopia moderna e pensare fino in fondo i suoi fallimenti per guadagnare un orizzonte di disincanto» (p. 10). La città ideale è un paradigma in cielo che non è più declinabile sulla terra e si tratta di interrogarsi se ciò sia dovuto a carenza di utopia o piuttosto a un suo eccesso; se cioè senza utopia la realtà rimanga scarica delle sue potenzialità di rinnovamento e l’uomo, privato della prospettiva del nuovo, si reifichi, come vuole Mannheim, oppure se l’utopia non comporti già in sé una deriva totalitaria intrinseca al suo progetto di reinventare l’uomo a sua immagine e somiglianza, come vuole Popper. Le due diverse posizioni «possono così costituire i due poli logici per una grammatica dell’utopia e della sua costitutiva incompiutezza perché convergono in un unico punto: il pensiero umano è inesorabilmente (e marxianamente) ideologico sia nella sua versione conservatrice sia in quella utopica» (p. 22). L’uomo è quindi sostanzialmente altro da quello che è, continuamente nell’orizzonte del cambiamento, immaginato o realizzato spesso a costo di immani disastri. In quest’orizzonte, l’ipotesi avanzata dall’autore è che solo «implodendo, l’utopia può sopravvivere nella forma della sua messa in crisi e del suo fallimento ossia nel suo rovesciarsi in distopia. Forse è più utile esplorare la distopia per ritornare a interrogare l’utopia e a farle ancora delle domande perché la lente distopica deforma per modificare, monitorare e/o prevenire futuri disastri» (p. 24). Questo perché, l’utopia riveste di belle forme il progetto totalitario, mentre la distopia ne mostra le piaghe. La distopia toglie la maschera rassicurante all’utopia e allerta sull’inferno che si nasconde nei paradisi artificiali che rifiutano la realtà umana in nome di una perfezione che non è nella disponibilità dell’umano. Tanto l’utopia quanto la distopia hanno in comune la sottomissione dell’uomo a un potere che vuole colonizzare persino l’immaginario, ma l’utopia lo nasconde descrivendo un paesaggio di felicità e benessere, mentre la distopia denuncia chiaramente il progetto e così consente di mettere in guardia dal rischio di precipitare dal sogno dell’impossibile pienezza nella prigione del vuoto assoluto. In altre parole, la distopia avverte del male nascosto nell’antica tentazione: eritis sicut deus, in cui l’utopia, nuovo tentatore in panni d’angelo e non più di serpente, invita invece a cadere.

Ma non è più tempo di avvertimenti. In una realtà devastata da nuove forme di controllo, la distopia «regna sovrana e paradossalmente ridesta la coscienza alle nuove sfide globali» (p. 37), perché frantuma il sogno di un mondo altro ed è contemporaneamente cura di quel sogno. Distopia è termine urticante, carico di valenze negative fin dall’etimo; a differenza della parola utopia che invece è familiare ed evoca futuri radiosi e felici: «Per questo motivo, i conti con la distopia non sono mai stati fatti fino in fondo» (p. 38). La pandemia non ha fatto altro che rendere trasparente questo processo, costituendo «la più dirompente linea di demarcazione tra ciò che è stato prima e ciò che sarà dopo. Ne esce trasfigurata la stessa nozione di futuro» (p. 40). Le giovani generazioni, forse per la prima volta nella storia dell’umanità, hanno pressoché la certezza di vivere in un mondo peggiore di quello ricevuto in eredità, mentre, nello stesso tempo, ereditano l’incertezza di cosa appresta per loro il futuro. Al limite, si prospetta la stessa «possibile liquidazione dell’uomo e della civiltà, il definitivo sprofondamento della realtà nella rete digitale, ossia nella scomparsa della fisicità» (p. 43). È la continua, diuturna rivoluzione tecnico-scientifica ad aver ormai connesso utopia e distopia, presentando il cambiamento come un sempre ulteriore passo verso il dis-umano se non proprio verso l’anti-umano. Sembra essere venuta definitivamente meno la possibilità di concepire la fine come un nuovo inizio, anche perché i terremoti, le guerre e le varie catastrofi consentivano di pensare/sperare in un ritorno, sia pure ellittico, dell’uomo; mentre la nuova tecnoscienza avverte l’uomo come un intralcio, un inutile relitto del passato.

Meccariello termina, socraticamente, con una serie di domande che incalzano il lettore: se la distopia non si limiti ad essere il contrario dell’utopia e non ne costituisca piuttosto la compagna nascosta; se a essere distopica non sia piuttosto la stessa storia od ogni aspetto della realtà e ogni panorama futuro; se la stessa storia umana sia un pluriverso, «un movimento contorto, involuto che acquista la sua luce filtrata dalla nebbia degli abissi». E se la distopia è la notte dell’utopia, «allora si può guardare alla storia dal punto di vista della notte e dell’oscurità per trovare un altro senso e un altro cammino» (p. 60).

Conclude il saggio un contributo di Giovanni Chimirri, il quale si concentra soprattutto sulla reciproca implicanza di utopia e ideologia, entrambe «modi di costruirsi una “visione del mondo”, un “sistema di vita”, un’ “impalcatura” che soddisfi in qualche modo l’ansia, gli enigmi e le finalità dell’esistere umano. Esse monopolizzano la storia universale e si pongono come conclusione della storia stessa» (p. 64). L’utopia ideologica o l’ideologia utopica sono infatti progetti di sottrazione della storia al suo divenire, per costringerla dentro una struttura metafisica. La storia viene de-storicizzata in nome di un giudizio valutativo, metafisico e, in quanto tale, a-storico; il che spiega molto delle pericolose derive della “cultura” contemporanea. Non solo l’utopia/ideologia esprime l’esigenza di predeterminare l’avvenire per attenuare le inquietudini del presente con la fede in tempi migliori, come scrive Chimirri, ma avverte anche l’esigenza di riscrivere il passato per adeguarlo all’aspettativa di quel futuro. «Il pensiero utopico ritiene di conoscere in assoluto quale sia il male da combattere per sconfiggerlo definitivamente e instaurare la “Città Ideale”» (p. 69). L’uomo si assolutizza e si pone al posto di Dio: per accorgersi ben presto di aver sbagliato mestiere.

Il saggio costituisce, in definitiva, non solo un’interessante lettura dei diversi contributi che nei tempi sia la filosofia che le arti più diverse hanno portato alla costruzione del pensiero utopico – a cui si sarebbero potuto aggiungere persino le arti figurative – ma soprattutto rappresenta un’immersione nel nostro sempre più distopico presente, dominato da quel lessico pandemico al quale Meccariello sta dedicando parte della sua riflessione filosofica. Non solo, però, per una descrizione puramente fenomenologica che, pur utile, non farebbe altro che aggiungere evidenza a evidenza, quanto per fornire alla coscienza smarrita una mappatura di senso e con ciò, forse, una speranza.

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