Parlare degli intellettuali e del loro ruolo o come si diceva una volta, del loro mandato sociale non è sempre facile. Il dilemma è sempre lo stesso: anime belle o corpi sporchi e imbrattati sulle barricate? Vili o coraggiosi? Indipendenti o engagés? La pandemia prima, la guerra poi, ha mostrato la pigrizia degli intellettuali a capire e a rendere intellegibili questi arendtiani anni bui. Se questi nostri anni coincidono con una cesura netta tra parola e prassi, tra impegno e abbandono della sfera pubblica, allora forse è tempo che vada condotto un serio esame della condizione dell’intellettuale moderno. Un utile e stimolante contributo alla discussione di questi temi è il documentatissimo lavoro di Rosaria Catanoso, L’intellettuale nel tramonto della politica (presentazione di Teresa Serra, con un denso e istruttivo saggio introduttivo di Alberto Aghemo), edito dalla Fondazione Giacomo Matteotti, Roma 2021). L’autrice sviluppa la sua articolata riflessione in più direzioni peraltro esplicitate nelle prime pagine del volume: una prima direzione si muove lungo la ricostruzione storica della figura dell’intellettuale negli ultimi tre secoli; una seconda mira ad indagare il complesso legame tra il lavoro dello spirito e la prassi politica; la terza diagnostica il tramonto e la fine del mandato sociale dell’intellettuale. Sono molte le cruciali e delicate questioni affrontate: in primis, quella della responsabilità che è l’habitus della vita dell’intellettuale cioè la possibilità di fare qualcosa, di spendersi per la collettività oppure di esercitare un’azione vigile o di pungolo nei confronti del potere, o spiegare come stanno le cose. Non sembra che in questo biennio drammatico (2020-2022) sia emersa una volontà specifica da parte degli intellettuali di scendere in campo come ai tempi dell’affaire Dreyfus quando Émile Zola pubblicava nel 1897 il celebre J’accuse sfidando il potere e proclamandosi uno scrittore libero che non ha paura di dire la verità. Tra l’altro, il celebre linguista americano Noam Chomsky in un suo celebre saggio sulla responsabilità degli intellettuali opportunamente richiamato dall’autrice afferma che la responsabilità significa fare scelte difficili, significa posizionarsi in luoghi per nulla rassicuranti e sovraesposti al rischio.
In tal senso, appare eloquente la conclusione del fondamentale saggio del 1945 a firma di Dwight Macdonald, il direttore della rivista politics dal titolo The Responsibility of Intellectuals con queste semplici parole: «È una gran cosa essere capaci di vedere ciò che si trova sotto il proprio naso». Gli intellettuali oggi, soprattutto nell’epoca multimediale non riescono più ad esprimere o a produrre una controcultura cioè ad aprire varchi per la riflessione e la critica. Davvero preoccupante questo scenario, segno tangibile di decadenza e abulia del lavoro intellettuale. Non si può non sottoscrivere la denuncia vibrante dell’autrice quando fa notare con vis polemica che «nel nostro tempo, è necessario un pensiero filosofico capace di scompaginare, a tutti i livelli, i prepotenti disegni di omologazione, lottando contro ogni dogmatica certezza integralista» (p.44).
Nella sua ricostruzione/esplorazione storico-critica dell’intellettuale moderno, Rosaria Catanoso con una mole abbondante di fonti storiche, filosofiche, sociologiche e antropologiche supportata da un’aggiornatissima letteratura saggistica coglie la peculiarità dello status dell’intellettuale occidentale nella figura della duplicità cioè in quell’alternarsi schizofrenico tra impegno e abbandono, tra delirio di onnipotenza e senso di un’estrema vulnerabilità, tra distorsioni teoriche e cambi improvvisi di rotta. E se fosse proprio questa doppiezza, questa polarità, tra rinuncia e impegno, tra viltà e coraggio, tra sapere e potere a restituire al lavoro dell’intellettuale un margine fluido di manovra perché ritorni ad occuparsi del mondo e della vita offesa, una volta che è stato defraudato del suo ruolo di guida? Qui a mio avviso sta il nodo, la chiave del dibattito e forse del libro. All’autrice che è di solida formazione filosofica appare suggestiva l’idea «di far subentrare il filosofo-intellettuale al posto dell’intellettuale-sacerdote» (p.43), una specie di ospite ingrato, di apolide, che non ha paura di affermare verità brucianti e domande imbarazzanti per il potere. In altri termini, come ben sa l’autrice che è una raffinata studiosa di Hannah Arendt, la filosofia non è attività consolatoria ma attività negativa e pericolosa che scuote, sovverte, come il vento, ogni cosa. Il nome che viene subito in mente è Pasolini che «esprime l’amara constatazione che in Italia è inconciliabile il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica» (p.50), una Cassandra urlante, non muta che sa i nomi dei responsabili delle stragi fasciste nell’Italia degli anni ’70 ma non ha prove e nemmeno indizi perché è «un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero». L’intellettuale è un parresiasta che si espone all’abisso, proprio in virtù della sua disposizione a pensare, che può ridisegnare e rivitalizzare il nesso tra lavoro dello spirito e agire politico. Catanoso diagnostica e certifica la fine della stagione novecentesca dell’intellettuale moderno in tutte le sue varie declinazioni (gli intellettuali organici, i pifferai della rivoluzione, i postmodernisti di maniera, i maîtres à pensée da salotti televisivi dei nostri tempi, i catastrofisti dai toni malinconici). Non pare esserci più spazio per la dissidenza, per la disputa come auspica in premessa l’autrice. «Mai come ora abbiamo bisogno di un pensiero destituente. Urgono figure pubbliche critiche, capaci di scalfire e porre in discussione il sistema e il potere» (p.38). Certamente il pensiero destituente e la destituzione politica della politica rappresentano potenti e provocatorie sfide concettuali che ne dà Giorgio Agamben ma rischiano di essere sterili e poco produttive se si limitano ad evocare, in esclusive cerchie accademiche, pratiche radicali di liberazione e di riscatto sottratte alle lacerazioni dell’invasiva macchina biopolitica dell’Occidente invece che mordere gli eventi nel loro farsi e la vita pubblica nel suo svolgersi. Forse conviene privilegiare un obiettivo più modesto di cui l’autrice è consapevole. «All’analisi di questo presente si deve volgere lo sguardo, pensare possibili orizzonti storici, per immaginare ipotetiche figure che orientino l’azione con il pensiero» (p.175). Proprio questo è il punto problematico, il vero rompicapo della riflessione di Rosaria Catanoso che amalgama e seleziona autori e materiali con intelligenza critica e perizia filologica schizzando un tempo senza epoca di difficile decifrazione, sfuggente, mobile, che ha desertificato la politica e inaridito il lavoro dello spirito. Chissà che non convenga riattraversare il deserto per rimettere in moto il pensiero.
Il volume, di 246 pagine, è in vendita on line al prezzo di copertina di € 20,00. A chi ne farà richiesta direttamente alla Fondazione Giacomo Matteotti – ETS (info@fondazionematteottiroma.org) verrà inviato al prezzo speciale di € 15,00 comprensivo della spedizione postale.