Premessa, 1. Logos e Polemos, 2. Le vie della guerra e della pace, 3. Le nuove guerre, 4. Guerra costituente e onnicentrismo, 5. I soggetti e lo strumentario di guerra, 6. La paura e la guerra.

 

Premessa

 

Teoria e filosofia nel corso dei secoli, ma soprattutto con la nascita dello stato moderno, hanno delineato un’immagine della guerra che, pur nella evoluzione dei tempi e nella varietà delle posizioni e dei giudizi, ha resistito nelle sue caratteristiche fondamentali, ma che oggi va approfondita e arricchita, con lo sguardo rivolto all’attualità, come sembrano avviarsi a fare gli studiosi[1].

Occorre distinguere tra quelli che sono, e sono stati, i giudizi su pace e guerra e la realtà storica di un fenomeno che possiamo considerare ineludibile, ma decisamente sempre in evoluzione.

Aspirazione alla pace e desiderio di guerra sono, senza voler entrare in un giudizio di valore o disvalore, troppo toccati dall’emotività e, quindi, non immuni da ambiguità, contraddizioni e astrattezze. Sotto la spinta dell’emozione, ma anche del bisogno di riflettere su questi temi, coloro che ripudiano la guerra hanno generalmente affidato la soluzione della questione della pace – basti ricordare Kant – all’elaborazione pragmatico-politica di progetti concreti, oppure al fascinoso appello degli ideali o di una speranza dichiaratamente utopica e tuttavia suscitatrice di larga adesione emotiva. E la pace è intesa di solito «come ordine, misura, concordia, armonia e simili; la guerra invece come disordine, dismisura, discordia dissonanza»[2], ma anche come momento necessario nella storia umana.

1. Logos e Polemos

Una prima considerazione riguarda un problema di logica dei tempi attuali nei quali ordine e disordine invertono la loro valenza[3].

La seconda constatazione riguarda, anche con riferimento a questo mutato rapporto ordine disordine, la perplessità che si possa riconoscere nella pace la «condizione fondamentale della coesistenza umana» sulla base dell’assunto che in principio era il Logos[4]. Forse, data anche l’ineludibilità della guerra, si deve tener conto della convinzione, presente fin dalle prime riflessioni, che fa della guerra il signore di tutte le cose, di tutte le cose il re. Diceva Eraclito: «La guerra è madre di tutte le cose e di tutte la regina: gli uni destinò ad essere Dei, gli altri uomini, gli uni fece liberi, gli altri schiavi»[5]. Logos contro Polemos significa utopia contro realtà, ma ci costringe anche a vedere i due aspetti nella loro correlazione. E ci fa anche dubitare che Logos equivalga necessariamente a pace dal momento che il conflitto può essere guardato sia con riferimento alla ragione universale sia nella sua logica interna. Si tratta di momenti correlati e se, sotto il primo punto di vista, il conflitto ha dentro di sé i germi della sua composizione, visto nella sua logica interna, ha anche la possibilità del suo eterno risorgere.

Le discussioni su questi aspetti non potranno mai cessare. Ma la realtà, che la filosofia non può sottovalutare, si presenta complessa. La filosofia deve innanzitutto comprenderla, quindi farla divenire problema e, solo a questo punto, indirizzarla verso un progetto che non sia mai avulso dalla realtà. Il prevalere del Logos nel suo aspetto di principio razionale universale resta, indubbiamente, un riferimento fondamentale, ma può non trovarsi in linea con la logica interna del conflitto.

Si può ancora vedere nella pax, agostinianamente, il telos di ogni attività dell’universo, razionale o irrazionale, un principio e un fine della nostra vita. Ma è di tutta evidenza che pace e guerra si definiscono l’una in relazione all’altra[6] e che nella dicotomia ordine disordine, pace e guerra il primo termine sembra funzionale all’altro che acquista quasi una sua primazia.

Se il disordine acquista una sua primazia, e quasi un suo statuto autonomo con una sua logica interna nella quale l’ordine è solo propedeutico al disordine, si modifica anche quel rapporto tra l’ordine, che è pace, e il disordine, che è guerra. E la visione realistica, che pure ogni filosofia deve avere nel momento in cui si pone a conoscere la realtà, non può assolutizzare il fondamentale contributo della coscienza alla causa della pace, non può attestarsi su questa sicurezza se non vuole correre il rischio di non vedere che il disarmo delle coscienze è anche più difficile del disarmo reale, anch’esso troppo spesso legato a motivi di opportunità e calcolo, anche al di là delle coscienze stesse.

2. Le vie della guerra e della pace

L’ideologia entra come componente essenziale che non può essere disconosciuta, sia l’ideologia del pacifismo che quella della guerra. La Peace Research è elemento importante come lo è la war foundation: pace e guerra si definiscono l’una in relazione all’altra. Ma quello che è sintomatico è che il bisogno di pace, che si rafforza di fronte alla capacità distruttiva della guerra dei nostri giorni, si coniuga, oggi, col risorgere ed esprimersi in maniera ben più pregnante che nel passato dell’ideologia dei diritti umani[7].

Sulla contraddittorietà dell’utilizzo della difesa dei diritti umani ai fini della pace non occorre soffermarsi. Piuttosto occorre tener presente che questo favore per la pace più che dal riferimento ai diritti umani collega pace e guerra a un sentimento fondamentale quale la paura e, ciò facendo, la riporta alla sua componente emotiva, peraltro essenziale. E’ la tesi hobbesiana che vede nella paura la possibilità per instaurare la pace, definita in negativo, quale assenza di guerra, vale a dire quale assenza del timore della guerra.

Ora, lungi dal soggiacere al bisogno, che nasce su base emotiva, di trovare le vie della pace o di criticare o esaltare le vie della guerra, occorre tentare di comprenderle nelle caratteristiche che esse hanno assunto e assumono nei tempi in cui viviamo. Si tratta di un’opera di comprensione che può e deve essere propedeutica all’eventuale indicazione delle vie della pace e della guerra intese come vie che portano alla guerra e alla pace e non come vie che sono percorse da viandanti di vario genere. E non si può guardare alle vie che portano alla guerra e alla pace senza prima aver guardato ai viandanti che percorrono queste vie, cioè ai soggetti che rilevano ai fini della pace e della guerra e agli strumenti di cui essi dispongono e che realizzano nuovi rapporti di forza.

Chi sono oggi i viandanti che percorrono le vie della pace e della guerra? Innanzitutto le vie che i viandanti percorrono non sono rettilinei isolati dal resto del panorama geografico, ma, ad ogni piè sospinto, incrociano vie laterali, percorse da altri viandanti che si immettono nella strada centrale. Nella scena dei rapporti internazionali appaiono soggetti e forme aggregative inediti che modificano i rapporti di forza e moltiplicano le coordinate attraverso cui devono essere studiati la guerra e la pace. E a modificare le coordinate tradizionali, nella scena dei rapporti internazionali interviene anche lo strumentario a disposizione dei viandanti.

3. Le nuove guerre

Teoria e filosofia devono confrontarsi, dunque, con la coesistenza, accanto al tradizionale soggetto stato, di una società civile globale, di natura trasversale e internazionale, nella quale si danno nuove forme di organizzazione identitaria, non necessariamente inserite in un rapporto con un territorio specifico, e mosse, oltre che da passioni di potere nel senso tradizionale del termine, anche dal bisogno di essere riconosciute nella loro unicità e identità. Forme organizzative ancorate a un potere non facilmente localizzabile. Il che impone di riflettere sulla pluridimensionalità dello stesso concetto di potere e del suo collegamento con i rapporti di forza.

In questo contesto la stessa guerra tende ad assumere aspetti che vanno al di là della tradizionale guerra armata fra stati e guerra interna agli stati, caratterizzata sia da forme di intervento armato tradizionale che di nuovo genere. Si delinea sempre più massiccia la possibilità della guerra trasversale, che vede contrapposti soggetti diversi – tra i quali gli stati sono solo una parte – ciascuno dotato del suo bagaglio di armi reali o virtuali. Si delinea una forma di guerra che usa armi nuove che talvolta realizzano violenza di nuovo tipo, ma che è espressione sempre della volontà di potenza e della supremazia di chi detiene quella particolare forza che deriva dalla possibilità di utilizzare uno strumentario di forza a sua disposizione.

Si tratte di guerre ‘nuove’, dove ‘nuove’ sta a indicare

la loro natura politica anche se questo nuovo tipo di violenza rende sempre meno chiare le tradizionali distinzioni tra guerra ( di solito definita come violenza tra stati o tra gruppi politici organizzati, per motivi politici), crimine organizzato ( la violenza di gruppi privati organizzati a scopi privati, in genere di natura economica) e violazione su larga scala di diritti umani ( la violenza di stati o di gruppi politici organizzati contro gli individui)[8].

Si tratta di guerre che accompagnano o sostituiscono alle contrapposizioni ideologiche e territoriali del passato contrapposizioni di natura diversa, tra inclusione ed esclusione, tra universalismo e localismo, tra identità dell’umanità e identità particolari, tra economia e cultura. Si tratta di guerre ‘nuove’ tra la logica del dominio che è «immanente al codice genetico della modernità, al dispiegarsi compiuto del suo progetto di dominio razionale sulla natura e degli uomini», e la logica dell’individualità che non vuole farsi dominare[9].

E questo può darci indicazioni sia sulla profonda trasformazione della guerra sia sulla sua ineludibilità.

Nei confronti del tema della guerra la filosofia deve tener conto della stretta interdipendenza

tra l’oggetto teorico di una determinata produzione discorsiva e la realtà che ispira questa produzione e ne è a sua volta condizionata. Modelli e schemi interpretativi e realtà si rincorrono ma troppo spesso i primi non si modificano con la stessa rapidità della seconda, per cui, in tempi di un dinamismo incontrollabile, il rapporto tra modelli e realtà entra in corto circuito. Occorre privilegiare lo sguardo sulla realtà e sulla trasformazioni dei nessi sociali e politici che si realizzano facendo emergere nuovi elementi che devono contribuire a modificare il modello aggiornandolo e arricchendo gli schemi interpretativi attraverso argomentazioni più aderenti alla realtà e in virtù di nuove metafore.

Innanzitutto alcuni fatti inediti, ma tra loro non estranei, sono intervenuti negli ultimi decenni: il processo di globalizzazione, realizzatosi anche per l’intervento della comunicazione virtuale, che ha comportato l’annullamento delle barriere spazio-temporali; la fine del bipolarismo, che, se ha spinto a sopravvalutare la posizione monopolare, ha anche posto in discussione la logica degli equilibri e, nel tentativo di giustificare la persistenza degli interventi in casa altrui, ha obbligato a trovare, operando passaggi contraddittori, nuove fonti di legittimazione al monopolio della forza legalmente – contrattualmente – riconosciuta. Ha obbligato a far ricorso a temi giustificativi nuovi quali, ad es., la difesa dei diritti umani, ideologia che, a sua volta, risente, e fortemente, della visione e della logica occidentale moderna e stato centrica. Logica che non si modifica solo facendo dei diritti umani un nuovo ethos mondiale, fonte di legittimazione degli stati, un principio giuridico universale e metaculturale, perché occorre chiedere come vadano intesi questi diritti umani e se effettivamente essi possano essere intesi come «il moderno tentativo di introdurre la ragione nella storia»[10].

4. Guerra costituente e onnicentrismo

Si tratta della ragione occidentale e questo costituisce la sua grande contraddizione, e non basta ricollegarla con un più ampio concetto di umanità[11], concetto che fa anch’esso parte del patrimonio culturale occidentale. Ciò posto, il tema del conflitto ci pone dinanzi a problemi nuovi che non possono essere affrontati solo con i tradizionali strumenti concettuali, che pure non possono e non devono essere sottovalutati. Le categorie del passato non possono esaurire una riflessione sui fenomeni storici, anche se fanno parte degli stessi fenomeni.

Se pure non esistono, allo stato attuale, ‘strumenti teorico-concettuali’ che possano farci comprendere le ‘nuove’ guerre, la logica che presiede agli atti attuali di guerra resta sempre quella della volontà di potenza. Questa guerra, da un lato, rimane guerra statocentrica, dal cui punto di vista le guerre che sono state chiamate di globalizzazione «mirano alla stabilizzazione politica e al controllo di regioni particolarmente ‘instabili’ secondo la valutazione e l’interesse strategico in quelle regioni dei paesi che guidano lo sviluppo»[12].

Ma, dall’altro lato, gli stati hanno difficoltà a combattere la guerra che può essere scatenata da ogni dove, e non solo sul piano terroristico o sul piano finanziario, e per la quale non c’è appello che tenga alla visione occidentale dei diritti umani.

E’ proprio la globalizzazione, per i nessi d’interdipendenza che realizza, o dai quali è realizzata, a obbligare a tener conto del pluralismo della complessità che non consente il ricorso all’idea tradizionale di ordine.

Si è parlato di guerra costituente, ma la logica della guerra costituente, cioè di quella guerra che tende a «strutturare non solo nuovi equilibri ma anche un nuovo universo simbolico», diventa, contraddizione in termini, a causa della sua potenza annientatrice, guerra contro l’umanità e guerra contro «la democrazia, le sue forme, i suoi istituti, come sono regolati e garantiti nei nostri ordinamenti giuridici nazionali e internazionali»[13], soprattutto come sono teorizzati sulla base di una coerenza interna del principio che non consente l’imposizione di visioni e condizioni di vita in nome della difesa dei diritti e richiamando ideologicamente lo ius in bello scaturito da una logica di equilibri statuali lontana dalla logica che presiede il conflitto con armi distruttive oltre che dalla logica che presiede al riconoscimento dei diritti umani.

Su un piano generale, si tratta di realizzare un approdo a concezioni che, facendo leva su una comune appartenenza all’umanità[14], non dimentichi la specificità dei contesti culturali che dettano i principi costitutivi di ogni ordinamento giuridico. Si tratta di contesti culturali che vanno riconosciuti e interpretati nella loro realtà storica, perché è evidente la contraddizione insita nel voler imporre una visione basata sull’idea di libertà e autodecisione. Proprio questa intima contraddizione legittima i nuovi gruppi che chiedono il riconoscimento della loro stessa soggettività costituente al di fuori del tradizionale ordine internazionale, – per il suo stesso nome legato alle nazioni – , nuovi soggetti che traggono la loro forza proprio nel non avere alle spalle una tradizione statuale ma una molteplicità di tradizioni in cui si giustappongono e si intrecciano etnie, tribalismo e nomadismo.

Si realizza oggi un onnicentrismo contro cui combatte la logica monopolare di potenza, un onnicentrismo in funzione del quale sia l’ordine interno che quello internazionale e transnazionale si presentano come ordini giuridici aperti in cui entrano sia nuovi soggetti sia inedite modalità di presenza e di partecipazione politica che modificano i rapporti di forza e di potere, modificando e complicando anche le coordinate della guerra[15].

Per riprendere la metafora dei viandanti, l’intervento continuo di nuovi soggetti rende difficile ogni strategia di difesa e rende anche sovrabbondante ogni strategia di offesa, dal momento che i soggetti possono venire da ogni dove e disporre di strumenti imprevedibili. Ne discende che il problema non è più quello di un attacco massimo, che pure continua ad esistere e che anzi si realizza su larga scala, ma di una molteplicità di colpi e interventi che possono venire da ogni dove, ma che sono anche assolutamente imprevedibili sia nei tempi che nei mezzi e negli obiettivi.

La trasformazione che ha toccato l’eterno fenomeno della guerra negli ultimi anni non può che modificare, arricchendola di nuovi aspetti, l’immagine varia ma, per certi aspetti, consolidata della guerra, spingendo ad articolarla in relazione al costituirsi di nuovi rapporti di forza e di nuovi strumenti su cui la forza può contare.

Indubbiamente modelli e definizioni devono seguire la trasformazione storica cui la loro realtà di riferimento va incontro, ma incidono anche fortemente sulla loro realtà di riferimento rendendo l’immagine creata troppo spesso determinante, almeno fino a quando la frattura tra immagine e realtà non diventa macroscopica.

5. I soggetti e lo strumentario di guerra

Ciò posto occorre fare alcune osservazioni. Innanzitutto sui nuovi soggetti che intervengono nei rapporti nazionali e internazionali che si affiancano a uno stato che continua a ritenersi legittimo detentore del monopolio della forza. Secondariamente occorre riflettere su un concetto di forza legato a uno strumentario di guerra complesso che modifica il rapporto di forze toccando in maniera del tutto nuovo la territorialità e l’immaterialità.

La natura intrinseca della guerra sembrerebbe sfuggire a quello che nel mondo occidentale moderno era stato il suo luogo elettivo, vale a dire il rapporto tra stati e sembrerebbe che non si possano più considerare gli stati come i soli soggetti operanti nella dinamica della guerra e della pace, oltre che nella dinamica dei rapporti internazionali in relazione a quelle decisioni che riguardano tutta l’umanità. E nel momento in cui si presentano sulla scena della guerra soggetti ed entità diversi dagli stati, siano essi quelle unità minime che possiamo considerare le persone[16], o soggetti collettivi più ampi, si perdono però anche alcune conquiste della modernità.

Nel progetto della modernità questo monopolio legale della guerra, riconosciuto allo stato, aveva reso possibile un tentativo, per quanto imperfetto, di una sua regolamentazione, che in qualche modo ha retto fino alla seconda guerra mondiale, cioè fino al potenziamento e mutamento degli strumenti bellici che hanno richiesto una pausa di riflessione, un periodo intermedio nel quale la paura reciproca ha giocato, anche se prevalentemente nelle grandi aree dell’Occidente, un ruolo pacificatore.

La forza dipende dallo strumentario a disposizione dei soggetti politici. L’analisi del contemporaneo ci spinge a riflettere proprio su questo punto, su questo strumentario che i viandanti sulla via della guerra e della pace possiedono e che è tale da renderli tutti in grado di annientare l’altro o, comunque, di sferrare colpi mortali all’altro, sia esso singolo o carovana (cioè stato o insieme di stati, o anche aggregazioni trasversali). Oggi le affermazioni hobbesiane sull’eguaglianza tornano utili proprio in relazione ai rapporti di forza e alla possibilità che i viandanti sulla strada della guerra, anche quelli apparentemente più deboli, hanno di primeggiare grazie agli strumenti di cui possono dotarsi.

Il conflitto e la guerra non hanno possibilità di essere regolamentati e generano nuove forme di violenza e ribellione e, quindi, nuove forme rivoluzionarie che è difficile schematizzare.

6. La paura e la guerra

Riprenderei a questo punto alcune suggestioni che provengono dalla storia della riflessione sulla guerra per calarle nella realtà odierna. Le guerre del nostro mondo contemporaneo sono, dunque, guerre di nuovo tipo, guerre post-moderne, è stato detto, intendendo per ‘guerra post-moderna’

l’insieme degli avvenimenti bellici in senso lato (guerre mondiali, guerre a scacchiere limitato, guerre civili, conflitti etnici ed interetnici, guerriglia, etc.) che hanno caratterizzato il XX secolo. Avvenimenti che mutano radicalmente gli scenari umani, strategici e tecnologici in cui veniva agita la guerra ‘moderna’[17].

Il progetto della modernità continua in qualche modo ad agire in una duplice direzione che rimane, tuttavia, di approfondimento della linea moderna statalista. Ma, contemporaneamente, e in opposizione a questa linea, si è realizzato un processo dal basso che tende a modificare il progetto della modernità. Certamente soccorrono le riflessioni hobbesiane che nostrano ancora una loro attualità e esprimono una saggezza politica che andrebbe riconsiderata con attenzione alle situazioni attuali. E’ ancora valida la tesi che individua nella paura il motivo della instaurazione della pace definita in modo negativo quale assenza di guerra ossia quale assenza “del timore della guerra”. Ma, come diceva Platone, pace è nome la realtà delle cose è la guerra. Eppure il nome ha una sua forza simbolica e una sua valenza che, soprattutto in era di civiltà dell’immagine, acquista una sua consistenza imprevista.

Diceva Bobbio

Se anche tutti i contadini del mondo si riunissero per far piovere, la pioggia, qualora cadesse non dipenderebbe dalle loro invocazioni. Non ho dubbi, invece, che, se tutti i cittadini del mondo partecipassero a una marcia della pace, la guerra sarebbe destinata a scomparire dalla faccia della terra [18].

Metteva in evidenza l’importanza della comunicazione, tema che oggi si approfondisce con l’intervento della comunicazione virtuale, che ha annullato le barriere spaziali e temporali, e se ha dato visibilità ai sostenitori della pace ha anche dato forza e strumenti ai sostenitori della guerra.

Hobbes, Kelsen, Hayek, Bobbio, per citarne solo alcuni, concordano tutti sul tema della paura che è strettamente collegato allo strumentario bellico che si possiede e che si confronta con altri strumentari per cui la paura della guerra potrebbe non essere più foriera di pace, se si pensa che lo strumentario di guerra rende tutti potenzialmente uguali e che lo stesso istinto di conservazione (conatus sese conservandi) non sembra essere principio universalizzabile.

Come accennato, l’analogia con la situazione studiata da Hobbes è accattivante anche per quella notazione che tocca il tema dell’eguaglianza. Oggi le affermazioni hobbesiane tornano utili proprio in relazione ai rapporti di forza e alla possibilità che i viandanti sulla strada della guerra, anche quelli apparentemente più deboli, hanno di primeggiare grazie agli strumenti di cui possono dotarsi.

Inoltre, se facciamo riferimento al modello hobbesiano dobbiamo chiederci quale sia il ruolo della sopravvivenza nelle decisioni dei singoli e dell’individuo stato. Proprio quelle espressioni hobbesiane, fondate sull’egoismo beninteso, denunciano una logica e una psicologia che viene messa in discussione dal confronto con altre logiche e psicologie – diciamo ideologie? – che questo rispetto per la vita, propria, degli altri e delle istituzioni stesse, non hanno. Si tratta di due aspetti che modificano la ricaduta della stessa paura sulla definizione della guerra.

Le due alternative su cui si discuteva negli anni novanta relative alla possibilità che si realizzasse un impero o che prendesse vita un pluralismo geopolitico sottratto alla logica statocentrica hanno oggi mostrato i loro limiti. Piuttosto occorre riflettere sull’onnicentrismo e quindi sulla necessità, ma anche difficoltà, di coniugare organizzazione e libertà. Eterno problema su cui si è retta la logica del dominio e quindi della guerra e su cui ha sempre fatto leva l’astuzia del potere che ha retto il vecchio ordine. La globalizzazione obbliga a tener conto del pluralismo e della complessità che non consentono il ricorso a un’idea tradizionale di ordine imposto secondo uno schema universale. I processi della storia sono lunghi e sono anche determinati dalle forme di comunicazione e dagli strumenti di cui dispongono i soggetti che entrano nel gioco delle forze e dei poteri. Almeno due gli aspetti da non trascurare, l’eterno rapporto tra conflitto, quindi guerra, e tecnica, e il rapporto di entrambi con le forme comunicative. Soprattutto quest’ultimo, stante la trasformazione delle forme dialogiche, contribuisce a ridimensionare la convinzione che là dove cessa il dialogo comincia la guerra.

 

NOTE

[1] Rimando anche G. Prestipino (a cura di), Guerra e pace, La Città del sole, Napoli, 2004. In particolare vedi D. Zolo, Dalla guerra moderna alla guerra ‘globale’, ivi, p. 41 ss.

[2] S. Cotta, Dalla guerra alla pace. Un itinerario filosofico, Rusconi, Milano, 1989, p.107.

[3] Se per la modernità si era chiarito come il disordine fosse funzionale all’ordine e la crisi dovesse essere un momento di passaggio da un punto di equilibrio all’altro, alla fine della modernità, e come suo esito, questo rapporto sembra essersi invertito e la crisi, da momento di passaggio, sembra essere diventata permanente.

[4] S. Cotta, Dalla guerra alla pace, cit., p. 8: «in principio era il Logos e … il Logos (e non la guerra eraclitea) è la guida a discernere la verità della condizione umana, comprovata dall’esperienza reale al di là della sua fenomenica parvenza contraddittoria».

[5] Eraclito, Diels, FVS, 22B 53.

[6] N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 121: «Circa la definizione della ‘pace’, la prima considerazione da fare è che non può essere definitiva, se non in relazione e in stretta connessione con la definizione di ‘guerra’». Ma vedi F. Viola, La teoria della guerra giusta e i diritti umani, in S. Semplici (a cura di), Pace sicurezza e diritti umani, Messaggero, Padova, 2005: «In effetti il termine ‘pace’ è di per sé vuoto, indicando piuttosto una condizione generale della vita associata che si ritiene desiderabile, o in senso assoluto o in senso relativo».

[7] Su questo punto vedi sempre F. Viola, La teoria della guerra giusta, cit.

[8] M. Kaldor, La violenza organizzata nell’età globale, tr. it., Carocci, Roma, 1990, p.11.

[9] P. Barcellona, Una guerra contro la democrazia, in I. D. Mortellaro (a cura di), Interpretazioni della guerra, politiche per la pace, in Quaderni dell’Istituto Gramsci Marche, genn. giu. 2000, p. 144.

[10] Per A. Cassese, I diritti umani nel mondo contemporaneo, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 7, i diritti vanno intesi «come un nuovo ethos, come una importantissima precettistica umanitaria laica, priva di miti anche se ispirata dalle grandi idee delle religioni tradizionali ( dell’Occidente e dell’Oriente) e rafforzata dai gagliardi apporti del pensiero filosofico occidentale. I diritti umani costituiscono il moderno tentativo di introdurre la ragione nella storia del mondo».

[11] Penso a quanto ricorda Huntington, ad esempio, il quale, con riferimento allo scontro di civiltà tra Occidente e Islam, dice: «I conflitti tra Occidente e Islam, dunque, non toccano tanto i problemi territoriali, quanto più ampi temi di confronto tra civiltà come ad esempio la proliferazione delle armi, i diritti umani, democrazia, migrazione, terrorismo islamista e interventismo occidentale». S. P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale. Il futuro geopolitico del pianeta, tr. it. Garzanti, Milano, 2000, p. 310. Su questo punto cfr. C. Corradetti (a cura di), Philosophical Dimensions of Human Rights. Social Contemporary Views, London-New York, 2012, che raccoglie una serie di saggi che realizzano una svolta epocale sul modo di intendere i diritti umani.

[12] G. Cotturri, Guerre di globalizzazione, in G. Cotturri (a cura di), Guerra e individuo, Franco Angeli, Milano, 1999, p. 20.

[13] P. Barcellona, Una guerra contro la democrazia, cit, pp.141-149.

[14] G. Cotturri, Guerre di globalizzazione, cit., p. 25.

[15] Questo onnicentrismo trova riscontro nelle nuove forme di logica che hanno affiancato alla certezza della razionalità occidentale la categoria della possibilità imponendo di procedere con un’intelligenza che non si fermi a logiche parziali barattate per universali. Cito solo la logica fluttuante, quella modale, la logica epistemica, quella non monotona. Si tratta di logiche anch’esse parziali che tendono a evidenziare la complessità spingendo a superare ogni visione unilaterale e a riflettere sulla penetrabilità reciproca tra culture diverse e tra mondi diversi. Ridimensionano generalmente il rapporto di causalità e accentuano il momento dinamico su quello statico. Tutto è differente e unico contemporaneamente.

[16] L. Bonanate, La guerra, Laterza, Roma-Bari, 1991, p. 84.

[17] C. Bonvecchio, Il simbolico e la guerra post-moderna, in Id. (a cura di), Il nuovo volto di Ares o il simbolico nella guerra post moderna. Profili di simbolica politico-giuridica, Cedam, Padova, 1999, p. 62. Il termine di guerra post-moderna è usato da molti autori. Ricordo M. Duffield, Postmodern Conflict: Warlords Postadjustement States and Private Protection, in Journal of Civil Wars, aprile 1998; M. Ignatieff, The Warrior’s Honor Ethnic War and the Modern Conscience, Penguin, Londra, 1998; Ch. Hables Gray, Post-Modern War. The New Politics of Conflicts, Londra, 1997, il quale parla anche delle guerre virtuali.

[18] N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, cit., p. XVI.