Le guerre di Simone Weil

Si tratta sicuramente di una pura utopia. Ma il descrivere anche sommariamente uno stato di cose che sarebbe migliore di quello esistente significa sempre costruire un’utopia; tuttavia nulla è più necessario alla vita di simili descrizioni, purché siano sempre dettate dalla ragione.

(S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione)

 

Il titolo probabilmente più adatto per il mio intervento è “Le guerre di Simone Weil”, perché, effettivamente, se ripercorriamo anche solo velocemente la vita di Simone Weil, possiamo vedere quante guerre abbiamo interrotto la sua vita quotidiana, ma soprattutto quanta attenzione ci sia stata nei loro riguardi da parte della filosofa francese che ha sempre saputo affrontarle e farne materiale di ispirazione per l’interrogazione filosofica.

Nata nel 1909, Simone Weil è molto piccola durante la prima guerra mondiale, tuttavia questo non le impedisce di partecipare in maniera molto spontanea alle sventure dei molti feriti al fronte, organizzando anche delle raccolte di denaro per questi ultimi. Il suo spirito compassionevole la porta a voler stare spontaneamente dalla parte degli ultimi, cercando di condividere, per quanto possibile, la propria fortuna con chi ha meno di lei[1].

Se, da bambina, però, Simone Weil aveva provato simpatia per i soldati al fronte, soprattutto della loro precarietà e miseria, negli anni dell’adolescenza, inizia a maturare un’idea più articolata rispetto alla guerra e i suoi protagonisti, iniziando a ritenere che non possa mai essere uno strumento giustificato e che il pacifismo sia l’unica opzione possibile.

Durante gli anni del liceo, in preparazione per l’École Normale, troverà una spalla in molti compagni di corso che, come lei, si ritrovano su posizioni pacifiste e disprezzano soprattutto l’involuzione reazionaria e patriottarda della III Repubblica. Quello che era stato un movimento spontaneo di sostegno ai propri concittadini al fronte, dopo la fine della guerra viene trasformato in un’arma retorica e politica volta a consolidare lo Stato. La celebrazione dei morti, la costruzione di cippi funerari, tutto diventa strumento di propaganda politica.

Si tratta di una posizione abbastanza diffusa nel contesto in cui Simone Weil si trova a vivere, quello di giovani della borghesia parigina, di una piccola élite che sente la necessità di un cambiamento, di una “rivoluzione”, ma spesso in termini eccessivamente astratti per essere significativi ed efficaci.

Come ha ricordato a questo proposito Domenico Canciani, si tratta di una “generazione contro”[2], in cui la parola d’ordine è engagement. Sicuramente esistono personalità diverse e significative per la storia e la cultura francese, ma in questo momento le posizioni politiche non sono così delineate prevale, piuttosto, una necessità di rottura nei confronti del passato, che contribuisce a confondere le posizioni.

In questo contesto, tuttavia, inizia a delinearsi nel caso di Simone Weil una posizione chiara, stimolata anche dalla collaborazione con la rivista “Libres Propos” del suo maestro Alain, ma soprattutto grazie alla frequentazione del gruppo pacifista “Volonté de Paix”, che diventa occasione di approfondimento delle motivazioni che sostengono il suo pacifismo.

Alain costituisce un punto imprescindibile della maturazione politica e filosofica di Weil. Come ricorda Pétrement: «é nella classe di Alain […] che comincia la filosofia di Simone»[3]. Qui impara la necessità di un pensiero rigoroso e di una scrittura che lo rifletta, l’abitudine allo scritto come palestra di chiarezza, la necessità di non disarmare lo spirito critico come antidoto alla prepotenza del potere[4].

L’interesse per la politica, condiviso con alcuni compagni di classe, la porta molto presto ad occuparsene in prima persona, attraverso collaborazioni di vario tipo.

Un primo elemento sicuro deriva proprio da questo periodo di formazione del pensiero di Simone Weil, che aveva pienamente recepito l’invito che il suo maestro ripeteva senza sosta, «esercitatevi a percepire il mondo per essere giusti». Solo il costante confronto con la realtà ci permette, infatti, di non cadere preda delle nostre debolezze o dei «mercanti di sonno», che vogliono solo che noi continuiamo a dormire, ossia a non pensare.

 

Cosa significa, dunque, dormire? È un modo di pensare: dormire è pensare poco, pensare il meno possibile. Pensare significa pesare; dormire vuol dire non pesare più le testimonianze, ma prendere come vero, senza alcun esame, ogni mormorio dei sensi, e ogni mormorio del mondo. Dormire è accettare che le cose siano assurde, ammettere che le cose nascano e muoiano ad ogni momento; significa non trovare strano che le distanze siano soppresse, che ciò che è pesante non pesi più e che ciò che è leggero sia pesante, che il mondo intero cambi spesso come una quinta teatrale; che le foreste, le roccaforti e i campanili e la montagna improvvisamente si inclinino come al soffio del vento, prima di essere inghiottiti dalla scena. […]

Ecco, svegliarsi è proprio decidere di far questo: svegliarsi significa rifiutarsi di credere senza capire, senza esaminare, ma cercare qualcosa d’altro oltre a ciò che si mostra; svegliarsi vuol dire mettere in dubbio quello che ci si presenta, stendere le mani per provare a toccare ciò che si vede, aprire gli occhi per cercare di vedere ciò che si tocca; significa confrontare le testimonianze e accettare solo le immagini che resistono al confronto; significa confrontare il reale con il possibile per cercare di raggiungere il vero; significa dire alla prima apparenza, tu non esisti. Svegliarsi significa mettersi alla ricerca del mondo[5].

 

La necessità di confronto con la realtà — sicuramente uno dei tratti dominanti del carattere della filosofa — viene fortemente incoraggiata dalla personalità del suo maestro, che sostiene l’indipendenza del pensiero come unica “arma” possibile per il cittadino attento, soprattutto in ambito politico. Il radicalismo di Alain diviene una buona pratica politica di controllo del Governo, attraverso una diffidenza sistematica nei confronti dei partiti e alla pratica del dubbio come garanzia.

Nel giugno del 1931, alla conclusione della sua agrégation in filosofia, ottiene un posto in un liceo femminile di Le Puy, nella provincia francese. La scelta deliberata di insegnare in provincia, ma soprattutto in una zona ad alta concentrazione di operai è dovuta alla volontà di essere più vicina alla realtà del lavoro, problematica che costituisce in questo periodo il fulcro della sua speculazione. Il lavoro può essere uno strumento fondamentale per l’uomo, perché costituisce la dimensione di contatto più diretto con la materia, ne esplicita la sua libertà reale, ma solo se riuscisse a diventare anche occasione di pensiero, potrebbe portare l’uomo alla vera libertà.

L’avvicinamento ai gruppi e alle riviste del sindacalismo rivoluzionario le danno l’occasione di approfondire questa dimensione “dall’interno”, rendendosi conto ben presto dello scacco in cui cade il pensiero, incapace di agire ed incidere realmente[6].

L’estate del 1932 è fondamentale perché Simone Weil si reca in Germania per un lungo viaggio. La Germania, in quel momento storico, è il paese dove sembra essere imminente la rivoluzione del proletariato, i tempi sembrano maturi, le organizzazioni comuniste attive e presenti, benché domini anche il nazionalsocialismo tutto però sembra ancora possibile. Ciò che la filosofa troverà, però, non corrisponde a questa previsione; infatti si tratta di un paese in bilico tra rivoluzione e involuzione, dove le forze di sinistra sembrano non riuscire a rispondere alle reali esigenze del proletariato, rimanendo sul terreno dell’astrazione, mentre, purtroppo, il nazionalsocialismo riesce a cogliere il disagio e a sfruttarlo per la propria affermazione[7]. La previsione non tarda ad avverarsi, con l’affermazione totale del nazismo nell’arco di pochi mesi.

L’anno successivo è dedicato alla composizione di un saggio straordinariamente ricco, che segna anche l’abbandono di un certo tipo di impegno politico, Riflessioni sulle cause dell’oppressione e della libertà (1934), sicuramente un testo capitale nella produzione weiliana, dove molti elementi di critica alle contraddizioni interne al movimento rivoluzionario prendono una forma radicale.

Le prime osservazioni sistematiche sulla questione della guerra confluiscono in un articolo pubblicato su La Critique sociale, Riflessioni sulla guerra. Hitler è ormai al potere e non è più possibile pensare di non confrontarsi con una presenza che sta diventando ogni giorno più minacciosa. Simone Weil è tuttavia ancora pacifista, per motivazioni che nascono dalla considerazione delle condizioni in cui verrebbero a trovarsi i cittadini, in caso di conflitto.

 

La guerra, ai giorni nostri, si definisce attraverso la subordinazione dei combattenti ai mezzi di combattimento; e gli armamenti, autentici eroi della guerra moderna, sono, come gli uomini votati al loro servizio, diretti da coloro che non combattono. Poiché questo apparato direttivo non ha altro mezzo per sconfiggere il nemico che quello di mandare a morire i propri soldati con la forza, la guerra di uno Stato contro un altro Stato si trasforma immediatamente in una guerra dell’apparato statale e militare contro il proprio esercito. E la guerra rivela d’essere in ultima analisi una guerra condotta dall’insieme degli apparati di Stato e degli Stati maggiori contro l’insieme degli uomini validi, in età da portare le armi[8].

 

La guerra non è mai uno strumento accettabile per risolvere il conflitto, prima di tutto perché mette in atto una militarizzazione dello Stato, che non fa che aggravare la posizione di inferiorità dei propri cittadini. Con queste considerazioni la filosofa che, da subito, lega la riflessione sulla guerra alle dinamiche economiche e statuali, evidenzia – in maniera netta e precoce – il controsenso che sorregge l’organizzazione dello stato in guerra dove, per vincere il nemico che rischia di portare la schiavitù, si rendono schiavi i propri cittadini.

 

Non si tratta qui di considerazioni sentimentali o di un rispetto superstizioso della vita umana. Si tratta di una considerazione assai semplice: il massacro è la forma più radicale dell’oppressione; i soldati non si espongono alla morte, sono mandati al massacro. Poiché un apparato repressivo, una volta costituito, rimane tale finché non viene spezzato, ogni guerra che imponga un apparato […] su masse costrette a servire come masse di manovra, deve essere considerata, anche se condotta da rivoluzionari, come un fattore reazionario[9].

 

Per questi motivi, non è assolutamente condivisibile l’idea della guerra rivoluzionaria, che diventa irrimediabilmente «la tomba della rivoluzione»; se vogliamo sperare in una vera e propria rivoluzione, questa deve partire dai mezzi di produzione e dalle condizioni di lavoro, ossia dal basso, da quella che Marx avrebbe chiamato la struttura.

Vi sono alcuni elementi che è necessario sottolineare in questa posizione weiliana: primo tra tutti, il fatto che il suo pacifismo si basa sulla valutazione reale dei risultati del conflitto e sulla necessità di non perdere il pensiero sostituendolo con discorsi di propaganda, fosse anche quella rivoluzionaria.

Pensare sempre alla realtà, non cadere quindi nella trappola, tipica della propaganda, che ci trasporta in una dimensione immaginativa, fittizia, irreale. Iniziano a delinearsi alcuni tratti che saranno poi tipici dell’analisi della violenza associata alla forza, come emergerà in saggi famosi, come Iliade, il poema della forza o in Non ricominciamo la guerra di Troia[10] (1937), oltre a numerosi frammenti contenuti nei Quaderni.

Prima di giungere a questa chiarezza, però, sarà necessario un ulteriore passaggio, quello della guerra di Spagna. Come sappiamo, Simone Weil parte volontaria per la guerra, dopo aver passato alcuni mesi come operaia alla Alsthom e alla Renault. Da agosto a settembre 1936 partecipa, nelle fila dell’anarchico Durruti, al conflitto civile.

Perché partecipare al conflitto? Cosa differenzia questa guerra dalle altre? Per rispondere a queste domande possiamo rivolgerci la lettera che Weil scrisse a Georges Bernanos, qualche tempo dopo il suo ritorno.

 

Nel luglio 1936 ero a Parigi. Non mi piace la guerra; ma, nella guerra, ciò che mi ha sempre fatto più orrore è la condizione di chi si trova nella retrovia. Quando mi sono resa conto che, malgrado i miei sforzi, non potevo impedirmi di partecipare moralmente a questa guerra, e cioè di desiderare ogni giorno, ogni ora, la vittoria degli uni, la sconfitta degli altri, mi sono detta che Parigi era per me la retrovia, e ho preso il treno per Barcellona con l’intenzione di arruolarmi[11].

 

La differenza rispetto ad altri conflitti, ciò che la spinge a partire è probabilmente l’origine del movimento di liberazione del popolo spagnolo, che nasce come resistenza di fronte ad un sopruso, promuovendo l’esigenza di intervenire direttamente in aiuto del popolo spagnolo, non dello Stato in quanto tale. La filosofa non vuole partire per una bandiera, o un’idea disincarnata, ma per le persone. Dopo aver criticato l’attendismo e il disimpegno della politica di Blum, Weil non vuole sentire anche su di sé la responsabilità e la connivenza nei confronti del nemico.

Ciò che trova, tuttavia, è drammaticamente diverso dalle aspettative. L’esperienza di quei pochi giorni la cambierà profondamente, e contribuirà alla formulazione di alcune delle idee fondamentale riguardanti la nozione di forza[12]. I soprusi e le violenze a cui assiste, o di cui viene a conoscenza, demoliscono definitivamente l’illusione di trovarsi «dalla parte dei buoni». Scrive a Bernanos: «Si parte come volontari, con idee di sacrificio, e si va a finire in una guerra che somiglia a una guerra di mercenari, con molta più crudeltà e un minor senso del rispetto dovuto al nemico». Le posizioni non sono più nette, il male contagia chiunque lo tocchi; l’esercizio della misura diventa un miracolo, quasi impossibile da compiere. L’atmosfera che si respira in quel contesto di guerra è simile ad un sogno, in cui si è smarrita la capacità di sentire la realtà: non ci si confronta più con l’altro, e quando si uccide, non si vede l’uomo che si ha di fronte, ma un’idea, un nemico ideale.

 

Personalmente, ho avuto la sensazione che quando le autorità temporali e spirituali hanno separato una categoria di esseri umani da coloro per i quali la vita umana ha un prezzo, non c’è niente di più naturale per l’uomo che uccidere. Quando si sa che è possibile uccidere senza rischiare né castigo né biasimo, si uccide […] C’è in questo caso una fascinazione, un’ebbrezza cui è impossibile resistere, senza una forza d’animo che devo proprio ritenere eccezionale[13].

 

Impossibile non pensare alle parole che ricorrono nei Quaderni, dove esplicito è il richiamo all’atmosfera del sogno, o alle parole dell’Iliade o della Venezia salva, dove lo scopo dei vincitori è proprio quello di far vivere ai vinti il proprio sogno, sradicandoli dalla realtà per porli in una situazione da incubo. «Crimini di Spagna. Piatti come sogni da ambedue le parti, quella del carnefice e quella della vittima. Cosa di più orribile che morire in un incubo»?[14]

É proprio in questi anni che Weil inizia a lavorare su questi testi, che accompagnano perciò l’elaborazione degli scritti più esplicitamente politici, ma ne costituiscono il necessario contrappunto, rivelando molto delle questioni che stanno a cuore alla nostra e, soprattutto, ci parlano della fonte greca della sua ispirazione. É nella Grecia antica, infatti, che Weil ritrova elementi senza tempo di questo meccanismo umano, la pesanteur, così come esempi di perfetta giustizia.

Nel 1937, nel saggio Non ricominciamo la guerra di Troia[15], l’accento è completamente spostato sul carattere illusorio della guerra, che tende a sostituire con ideali e concetti le motivazioni reali del conflitto, e a nasconderne spesso la mancanza totale di un vero obiettivo. In questo senso, il conflitto che in quel tempo veniva a prepararsi, rischiava di essere come la guerra di Troia, combattuta per una donna, Elena, che forse neppure partì mai per quel paese, come ci insegna Gorgia. Se una guerra non ha un reale obiettivo, se si combatte solo per l’affermazione di vuote parole, dice Weil, «non c’è più equilibrio, proporzione, confronto possibile»[16]. Tutto scivola nel mondo immaginario della forza, dove non esistono situazioni ambigue, ma solo “buoni” e “cattivi”, proprio come vorrebbero i mercanti del sonno di cui parlava Alain.

In questa situazione, il richiamo alla necessità di pensare, di chiarire, di analizzare il linguaggio per non perdere di vista la realtà, diventa la chiave per uscire dalla crisi.

 

É la nube delle entità vuote che impedisce non solo di scorgere i dati del problema, ma persino di capire che vi è un problema da risolvere e non una fatalità da subire. Esse instupidiscono le menti; non soltanto causano morte, ma, cosa infinitamente più grave, fanno dimenticare il valore della vita. […] Un’elevazione generale del livello intellettuale favorirebbe in modo particolare ogni sforzo di chiarificazione per sgonfiare le cause immaginarie di conflitto. […] Non si tratta di immobilizzare artificialmente rapporti di forza essenzialmente variabili […] si tratta di distinguere l’immaginario dal reale per diminuire i rischi di guerra senza rinunciare alla lotta, che Eraclito riteneva fosse la condizione della vita.[17]

 

Gli eventi iniziano a precipitare e, come molti altri, anche Simone Weil è costretta ad abbandonare l’idea di poter ricomporre pacificamente la situazione, sia pure con enormi concessioni alla politica hitleriana (cosa che susciterà non poche polemiche tra i suoi lettori)[18]. Il punto di svolta è l’inizio della seconda guerra mondiale, quando ormai nessuno può più illudersi che Hitler si accontenterà di qualche conquista.

D’altra parte, Simone Weil aveva ampiamente analizzato la dinamica dello stato totalitario tedesco in un magnifico saggio del 1939, Riflessioni sulle origini dell’hitlerismo[19], dove metteva in continuità lo stato tedesco con i suoi predecessori illustri, ossia lo stato romano e le forme di Stato che avevano contrassegnato la storia occidentale. Si tratta delle stesse modalità e delle stesse velleità assolutiste, senza possibilità di sfuggire a quella identificazione tra la figura del capo carismatico e lo Stato, dove ogni cittadino è totalmente asservito alla conservazione dello stesso.

La guerra incombe, il pacifismo radicale a questo punto sembra essere una posizione di “retrovia”, un tentativo di non agire in un tempo di necessità. Già nel saggio, non pubblicato, Riflessioni in vista di un bilancio (1939), Simone Weil aveva cominciato a mettere in discussione il proprio pacifismo. Dopo la conquista di Praga da parte di Hitler, scrive nei Quaderni a questo proposito: «Meccanismo indiretto di un crimine. Il mio errore pacifista prima del 1939 sugli ambienti pacifisti e la loro azione è stato la conseguenza dell’incapacità dovuta per tanti anni alla prostrazione per il dolore fisico»[20].

D’ora in poi, il pacifismo ad oltranza non è più un’opzione valida. Non possiamo parlare, però, di una svolta guerrafondaia nel suo pensiero, si tratta piuttosto dell’agire di Arjuna, l’eroe della Bhagavadgita, che, obbedendo a Krsna, adempie al proprio compito di morte. Bisogna non sottrarsi alla necessità, agire senza provare piacere, senza indulgere all’immaginario appagamento della violenza.

 

Se sono pronta a uccidere i Tedeschi in caso di necessità strategica, non è perché ho sofferto a causa loro. Non è perché essi odiano Dio e il Cristo. É perché sono i nemici di tutte le nazioni della terra, compresa la mia patria e disgraziatamente, con vivo dolore, con mio estremo rimpianto, non si può impedire loro di fare il male senza ucciderne un certo numero[21].

 

La dimensione interiore, che traspare dai Quaderni, è quella di una modalità che non abbandona assolutamente le motivazioni che prima sostenevano il suo pacifismo, ma si adatta, ancora una volta in nome della realtà che sta vivendo, alla soluzione più efficace.

Sappiamo che le pagine più intense e penetranti rispetto a questo momento storico, quello della guerra e dell’impegno, sono scritte a Londra negli ultimi mesi della sua breve vita. Si tratta di testi importanti, densi di concetti nuovi ormai giunti a maturazione, ma evidentemente non ci sarebbe modo di darne una lettura sufficientemente chiara in questa mia breve riflessione[22]. Ho scelto per questo motivo di richiamarne solo uno, per mettere in evidenza alcuni elementi strutturali nella modalità di intervento che Weil elabora.

Si tratta di un testo già ricordato, proposto al comitato di France Libre, sull’intervento delle infermiere di prima linea, Progetto per la formazione di un corpo di infermiere di prima linea, testo che ci offre la straordinaria possibilità di vedere quanto attuale sia la lettura della filosofa, ma soprattutto la modalità proposta.

 

Presenti sui luoghi di maggior pericolo, accompagnando i soldati in battaglia, cosa che barellieri, infermieri e infermiere ordinari non fanno, esse salverebbero in molti casi la vita ai soldati prestando ai caduti cure sommarie, ma immediate[23].

 

Per comprendere pienamente il tipo di conforto e l’importanza che potrebbero avere queste formazioni, per Weil, bisogna tener conto della particolare caratteristica dell’offensiva del nemico, che da sempre è basata sull’immaginazione, sulla capacità di manipolare l’immaginario della gente, che siano amici o nemici.

 

Hitler non ha mai perso di vista la necessità essenziale di colpire l’immaginazione di tutti; dei suoi, dei soldati nemici e degli innumerevoli spettatori del confitto. […] Uno dei migliori strumenti a tal fine sono le formazioni speciali, quali le S.S., i gruppi di paracadutisti che per primi sono penetrati a Creta, e altri ancora[24].

 

É l’obbedienza religiosa al comando a rendere le truppe di Hitler estremamente potenti, proprio perché annullando ogni difficoltà, in nome di un bene superiore, permette di distogliere l’attenzione dall’altro, dal nemico che si ha di fronte. In questo senso, l’identificazione della controparte come nemico, diavolo, animale etc., permette di non guardare l’uomo che abbiamo di fronte «Lui tutto intero. Le braccia, gli occhi, i pensieri, tutto»[25].

Comprendere questa caratteristica nuova del conflitto è fondamentale per combattere veramente il pericolo hitleriano. Sicuramente, dice Weil, non possiamo e non vogliamo copiarne i metodi, perché questo significherebbe «ricominciare la guerra di Troia», ma è necessario proporre un’azione simbolica in grado di imporsi in modo altrettanto chiaro e netto.

 

Un piccolo gruppo di donne che esercitasse giorno dopo giorno un coraggio di questo genere sarebbe uno spettacolo talmente nuovo, talmente importante e carico di un significato talmente chiaro da colpire l’immaginazione più di quanto non abbiano fatto fin qui i diversi procedimenti inventati da Hitler. Soltanto Hitler ha finora colpito l’immaginazione delle masse. Ora bisognerebbe colpire più forte di lui. Questo corpo femminile costituirebbe senza dubbio un mezzo in grado di riuscirci. […] Questo corpo da una parte e le S.S. dall’altra creerebbero con la loro contrapposizione un’immagine da preferire a qualsiasi slogan. Sarebbe la rappresentazione più clamorosa possibile delle due direzioni tra le quali l’umanità oggi deve scegliere[26].

 

L’alternativa deve essere simbolicamente forte, capace di riportare l’attenzione di tutti alla realtà della sventura del campo di battaglia. L’essere umano, in tutta la sua fragile complessità è il nostro nemico, e io devo vedere questo, perché altrimenti – come ricorda ne La persona e il sacro – una definizione non mi impedirà mai di cavare gli occhi all’altro uomo, se questo mi diverte. Le infermiere di prima linea rappresentano, potremmo dire, un catalizzatore dell’attenzione, in grado di riportare dal mondo immaginario dalla potenza della realtà.

Un altro fattore importante emerge da questo saggio, è il fatto che l’iniziativa più efficace proviene dal singolo o da un piccolo gruppo. Permane una grande diffidenza, da parte di Weil, nei confronti del grande gruppo, dello Stato o del partito, tutto ciò che assomiglia al gros animal di platonica memoria[27]. Conosciamo le sue posizioni a riguardo, grazie a scritti come il Manifesto per la soppressione dei partiti politici, nel quale si riconosce chiaramente che l’origine del male rappresentato dal partito è la sottomissione che esige da parte dei suoi sostenitori. Una sottomissione totale che implica l’abbandono di qualsivoglia pensiero critico, in nome di una coerenza e fedeltà che dovrebbe essere dovuta esclusivamente alla giustizia. In questo modo, «i partiti sono un meraviglioso meccanismo in virtù del quale, in tutta l’estensione di un Paese, non uno spirito dedica la sua attenzione allo sforzo di discernere, negli affari pubblici, il bene, la giustizia, la verità»[28]. Le stesse cose che, insieme alla bellezza, costituiscono il centro della riflessione de La persona e il sacro.

Piccoli gruppi, piccole formazioni, per tentare di fuggire le tentazioni del pensiero unico della collettività, perché il «grosso animale. É un animale. É sensibile alla forza e schiaccia la debolezza. Per lui l’umiltà non è una virtù»[29]. Sono le stesse proposte nel periodo londinese per uscire dalla guerra conservando tuttavia la dimensione etica necessaria per la ricostruzione. Questo è, infatti, l’altro aspetto che spicca anche nel progetto di cui parlavamo poco fa: se la Francia vuole avere un futuro, è necessario che ritrovi in sé un’“altezza” morale diversa rispetto ai nemici. Non solo non ci si deve piegare ai metodi dell’odio e della violenza, che non fanno altro che contagiarci in maniera irrimediabile, ma bisogna tentare – quando è strettamente necessario – di combattere realmente per un obiettivo.

Lo scopo della Francia deve essere quello di ricostruire se stessa attraverso la lotta di liberazione, di tornare così a radicare tutti i cittadini all’interno di un comune tessuto di valori che devono essere le bandiere di questa lotta. Ogni liberazione che venga dall’esterno, non farà che lasciare il popolo francese in una passività mortifera, che lo condannerà alla perdita della propria anima, facendone un popolo di sradicati. É questo il senso di molti inviti che Simone Weil scrive a Londra, richiamando i futuri governanti ad interrogarsi sulla vera legittimità, ma anche ad affrontare le tare della vecchia Repubblica.

Quali valori ha da proporre la Francia? Su questo punto molte sono le critiche di Simone Weil, che non si lascia sfuggire l’occasione di ricordare l’enorme problema del colonialismo che affligge la politica francese, le violenze vergognose che hanno segnato la storia del suo paese in nome di un impero che – da questo punto di vista – non differisce minimamente dallo stato totalitario tedesco o romano[30].

In Riflessioni sulla rivolta (1943), uno degli ultimi testi della filosofa, affronta di petto i problemi fondamentali dello stato a venire:

 

Ciò che schiaccia moralmente la Francia è il fatto di essere uscita dalla guerra quasi prima di esservi entrata. […] Si è trovata nella situazione di un uomo cui è stata spaccata la testa durante il sonno e che si dibatte a lungo in un incubo spaventoso prima del risveglio[31].

 

Per questo motivo, l’uso strategico della rivolta potrebbe servire a ricreare un tessuto comune di valori condivisi, che nel dopoguerra si riveleranno fondamentali per la creazione dell’Europa.

Mi rendo conto di aver presentato moltissimi elementi e di averne omessi forse ancora di più, ma mi sembrava interessante tentare di riportare l’attenzione sulla particolare posizione di Simone Weil nei confronti della guerra. Una posizione che potremmo definire di pacifismo temperato o realista; obbligata a fare i conti con le strette necessità della guerra e con lo sterminio messo in atto metodicamente da Hitler, Simone Weil rivede le proprie posizioni tentando di proporre un’altra via, che non rifiuta l’eventualità della morte, ma tenta di attestarla ad un altro livello. É la proposta del corpo di intervento di infermiere di prima linea, in questo senso, che ci aiuta a capirne la modalità. Lo scontro deve lavorare sul piano simbolico, portando ad agire un altro linguaggio nel mondo, che sia in grado di sconfessare i tentativi del nemico di farci vedere il mondo segnato da un destino ineluttabile. Che ci faccia tornare in contatto con la realtà, fuori dalla gabbia della violenza. Se volessimo azzardare un confronto con i giorni nostri, penso che non sarebbe così lontano dalla realtà paragonare questo tipo di azione a quello delle associazioni non governative, come Medici senza frontiere ad esempio, che ci insegnano che l’unica cosa importante è dare risposta ai bisogni degli esseri umani che soffrono. Questi volontari ci invitano a restare umani, a dimenticare il linguaggio vuoto e mistificante della politica, della ragion di stato, dell’indifferenza diplomatica per andare alla questione essenziale: la sofferenza, la sventura, il grido muto di chi non ha altre parole per chiedere. C’è bisogno di molta attenzione, di silenzio per poter ridare un centro alle nostre prospettive, ma l’azione di questi temerari ci permette di sperare che un cambiamento sia possibile.

Proprio questo mi sembra che oggi il messaggio politico di Simone Weil sia più attuale che mai, la necessità di una concreta utopia, un radicato sogno di rovesciare gli errori del passato grazie all’attenzione ai bisogni dell’uomo, alle sue necessità, come ci ricorda ne La prima radice[32]. Ogni uomo ha bisogni essenziali, prima ancora di diritti; dato che il diritto è una nozione sporca di forza, è a questi che bisogna ritornare a fare attenzione. I bisogni che noi tutti condividiamo sono il primo elemento che ci permette di ricostituire una vera fraternità, al di là e al di sopra di ogni fede o appartenenza.

 

NOTE

[1] Come ricorda Simone Pétrement nella sua biografia, Simone Weil intratteneva una corrispondenza con dei “figliocci di guerra”, giovani soldati al fronte, a cui procurava, oltre al conforto dell’amicizia, beni preziosi come zucchero o cioccolato. Cfr. S. Pétrement, La vita di Simone Weil, Adelphi, Milano, 1994, pp. 21-22.

[2] “I giovani che accedono alle istituzioni scolastiche e universitarie negli anni Venti manifestano una evidente attitudine all’opposizione: sono contro, contro la borghesia, i suoi valori, la sua morale, contro i poteri e la politica della III Repubblica, contro i grandi scandali e le piccole miserie, contro la Francia “patriottarda” dopo la Grande Guerra che onora i suoi eroi e inaugura in ogni villaggio dei monumenti agli eroi” (D. Canciani, Simone Weil. Le courage de penser, Beauchesne, Paris, 2011, pp. 58-59).

[3] S. Pétrement, La vita di …, cit., p. 34.

[4] Ivi, pp. 34-76.

[5] In Alain, Vigiles de lesprit, Gallimard, Paris, 1942, pp. 7-18; tr. it a cura di F. Negri, «Kainós», n° 9, 2009, ISSN 1827 3750. Su Alain: A. Sernin, Alain. Un sage dans la cité, Paris, 1985; J. Chevalier – J. F. Mattéi – G. Pascal – R. Sorel, Alain in Encyclopédie philosophique universelle, vol. II, Paris, 1988, pp. 2200-2204; E. Baglioni, La lotta contro i poteri. Il radicalismo di Alain, Franco Angeli, Milano, 1988.

[6] Cfr. Cabaud, Simone Weil et le syndacalisme révolutionnaire, in Jacquier Ch., Simone Weil. L’experience de la vie et le travail de la pensée, éditions Sulliver, Arles, 1998, pp. 69-106.

[7] Simone Weil racconta l’esito di questo viaggio con alcuni articoli su «La Révolution prolétarienne»: Impressions d’Allemagne (août et septembre). L’Allemagne en attente, «La Révolution prolétarienne», n° 138, 25 octobre 1932, ora in Œuvres Complètes, Gallimard, Paris 1991, t. II, vol. 1, pp. 120-137 (d’ora in poi indicherò l’edizione completa delle opere Gallimard con la sigla Œ C); Perspectives. Allons-nous vers la révolution prolétarienne?, «La Révolution prolétarienne», n° 158, 25 août 1933, ora in Œ C, t. II, vol. 1, pp. 260-280.

[8] L’articolo esce su «La Critique Sociale», n° 10, novembre 1933, ora in Œ C, t. II, vol. 1, pp. 288 – 296; S. Weil, Riflessioni sulla guerra, in S. Weil, Sulla guerra, a cura di D. Zazzi, Pratiche editrice, Milano, 1998, pp. 27-39, p. 32.

[9] Ivi, p. 33.

[10] S. Weil, Sulla guerra, cit., pp. 55-74.

[11] Lettera a Georges Bernanos (1938), in S. Weil, Sulla guerra, cit. p. 50.

[12] Cfr. L. Mercier-Vega, Simone Weil sur le front d’Aragon, in Jacquier, cit., pp. 145-152.

[13] Ivi, p. 53.

[14] S. Weil, Quaderni, II, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano, 1985, p. 53.

[15] Articolo uscito nei Nouveaux Cahiers, I, nn. 2-3, 1-15 aprile 1937, ora in Œ C, II, 3, pp. 49-66; la traduzione italiana in S. Weil, Sulla guerra, cit., pp. 55-74.

[16] Non ricominciamo la guerra di Troia (1937), in S. Weil, Sulla guerra, cit., p. 55.

[17] Ivi, pp. 73-74.

[18] In particolare per lo scritto L’Europa in guerra per la Cecoslovacchia? in S. Weil, Sulla guerra, cit., pp. 75-81.

[19] S. Weil, Riflessioni sull’origine dell’hitlerismo, in S. Weil, Sulla Germania totalitaria, Adelphi, Milano, 1999, pp. 197-279.

[20] Quaderni, IV, cit., p. 377.

[21] Ivi, p. 370.

[22] Mi permetto di rimandare a F. Negri, “Per amore del mondo” La riflessione dell’ultima Weil tra mistica e proposta politica, in M. Durst – L.A. Manfreda – A. Meccariello, Simone Weil tra mistica e politica, Aracne, Roma, 2011, pp. 37-52; Ead., “La persona è sacra?” Oltre la trappola del potere. Critica all’idealità disincarnata, in L. A. Manfreda – F. Negri – A. Meccariello (a cura di), Esistenza e storia in Simone Weil, Asterios, Trieste, 2016, pp. 89-112. I testi del periodo londinese costituiscono una vera miniera d’oro per il pensiero, come ben dimostrano i numerosissimi contributi a riguardo da punti di vista molto diversi, dalla questione mistica alla politica. Tra gli ultimi volumi dedicati a questa parte della produzione weiliana in particolare, segnalo una densa e interessante raccolta: Fulco R. – Greco T. (a cura di), L’Europa di Simone Weil. Filosofia e nuove istituzioni, prefazione di Roberto Esposito, introduzione di Giancarlo Gaeta, Quodlibet Studio, Macerata, 2019.

[23] S.Weil, Progetto di una formazione di infermiere di prima linea, in S. Weil – J. Bousquet, Corrispondenza, a cura di A. Marchetti, SE, Milano 1994, p. 51.

[24] Ivi, p. 52.

[25] S. Weil, La persona è sacra?, in S. Weil, Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, a cura di D. Canciani – M.A. Vito, Castelvecchi, Roma, 2013, p. 189.

[26] S.Weil, Progetto di una formazione di infermiere di prima linea, op. cit., p. 56.

[27] “Dio può diventare un pezzo di pane, una pietra, un albero, un agnello, un uomo. Ma non può diventare un popolo. Nessun popolo può essere un’incarnazione di Dio. Il Diavolo è il collettivo. (É la divinità di Durkheim). É quanto indica chiaramente l’Apocalisse con la bestia, che è evidentemente il Grosso Animale di Platone” (S. Weil, Quaderni, op. cit., pp. 358-359). La diffidenza nei confronti del collettivo come luogo di incarnazione di una qualsiasi verità non si limita all’ambito politico, ma investe anche (e soprattutto) la dimensione della trascendenza, ed è all’origine della diffidenza di Weil nei confronti della Chiesa come istituzione. Cfr. S. Weil, Lettera a un religioso, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1996.

[28] Manifesto per la soppressione dei partiti politici, p. 45.

[29] S. Weil, Quaderni, cit., p. 22.

[30] F. Negri,“Con dolore e vergogna…”. Simone Weil e il problema del colonialismo, in “Azioni Parallele”, ISSN 2420-8310, pubblicato il 9 aprile 2017.

[31] Riflessioni sulla rivolta, in S. Weil, Sulla guerra, cit., p. 133.

[32] “Il movimento francese a Londra ha attualmente, e forse per poco tempo, lo straordinario privilegio che, essendo in larga misura simbolico, gli è concesso di diffondere le ispirazioni più elevate senza screditarle né screditarsi” (S. Weil, La prima radice, a cura di F. Fortini, SE, Milano, 1990, p. 177).