L’avvoltoio che s’accanisce sulla sua timida preda con gioia si nutre delle sue membra insanguinate; tutto sembra andar bene, per lui, ma presto il suo turno arriva, e un’aquila, dal becco tagliente, l’avvoltoio divora; l’uomo uccide con un piombo mortale quest’aquila altera: e quello stesso uomo, steso nella polvere dei campi di Marte, coperto di sangue, crivellato di colpi, sopra un cumulo di moribondi serve da orribile banchetto a quegli insaziabili uccelli.
(Voltaire, Poema sul disastro di Lisbona)
Inizierei dal titolo del nostro convegno. La Grande Guerra: l’inaudita guerra, l’ “inutile strage”, l’iceberg contro cui andò a distruggersi, inabissandosi, quel Titanic che era stata la luccicante Belle Epoque con tutti i suoi balli, orchestre e fuochisti di varia umanità. La guerra preparata dagli ufficiali, uomini dell’’800, che avevano studiato nelle accademie militari le strategie del secolo passato. Nell’estate del ’14 la fanteria e la cavalleria francese andarono al fronte in giacca blu, calzoni rossi e senza elmetto. In una guerra che fu invece combattuta con mitragliatrici, carri armati, lanciafiamme, sottomarini e gas asfissianti. Fu combattuta anche sottoterra, soldati come “carne da cannone” ma anche come talpe, per mesi e mesi e per centinaia di chilometri in gallerie sotterranee a più livelli, con esplosioni di bombe per far saltare le trincee da sotto terra. 160.000 soldati italiani che morirono di fame e di freddo nei campi di prigionia per il mancato arrivo dei pacchi spediti dalle famiglie e ritrovati dopo la guerra intatti in grandi depositi. Ma non per la spietatezza del nemico, quanto per la negligenza degli alti uffici politici e militari italiani che reputavano quei soldati poco meritevoli, vigliacchi e troppo arrendevoli, dopo Caporetto, se non disertori. Vi furono almeno cinque guerre: quella franco-tedesca per la supremazia in Europa, quella anglo-tedesca per dominare gli oceani, quella austro-russa per il controllo sui Balcani, quella italo-austriaca per la supremazia nell’Adriatico e quella russo-turca per il controllo degli Stretti. Causarono il crollo simultaneo di quattro Imperi e la marginalizzazione del Mediterraneo a vantaggio dell’Atlantico.
E poi, quella macroscopica produzione di occhi di vetro e maschere per i grandi mutilati e gli sfigurati dalle nuove terrificanti armi. 20 milioni tra feriti gravi e mutilati, 9 milioni di morti.
Dai campi di battaglia, scriveva Benjamin nel 1933, «la gente tornava ammutolita… Una generazione, che era andata a scuola col tram a cavalli, stava in piedi sotto il cielo in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato tranne le nuvole e, al centro, in un campo di forza di correnti distruttive e esplosioni, il fragile, minuscolo corpo umano». Gli Stati nazionali aumentarono da 19 a 28, le frontiere passarono da 6000 a 12000 chilometri, la pace produsse una sorta di balcanizzazione dell’Europa, sul modello di quel territorio in cui la guerra era scoppiata. Il secolo breve si sarebbe concluso a Sarajevo, con un assedio durante la guerra nella ex Jugoslavia, proprio lì dove il secolo era nato con un attentato. Nell’Europa uscita da Versailles la guerra sarebbe ripresa nel ’39 con modalità assai simili. Alcuni storici parleranno di un unico conflitto mondiale, iniziato nel ‘14 e finito nel ‘45. Insomma, una vera e propria seconda Guerra dei Trent’anni in pieno Novecento. E poi, i Campi, le “fabbriche di cadaveri”, la Bomba, la terza guerra mondiale, ossia la guerra fredda combattuta attraverso numerosi conflitti apparsi minori in tutto il pianeta (Cuba, Corea, Vietnam, Cambogia, Africa…). Tutte guerre ormai antiche, come lontanissime dovettero sembrare, agli strateghi della Grande Guerra le guerre napoleoniche, la Montagna Bianca, l’inutile strage di Crecy nella guerra dei Cento Anni che con gli arcieri inglesi conobbe la guerra fatta da lontano e il passaggio dal Medioevo all’età moderna. Le guerre oggi per lo più sono non dichiarate, come per la Siria spesso assimilata alla Germania della Guerra dei Trent’Anni, lacerata da conflitti etnici e religiosi, tra interventi armati di potenze straniere che restano impantanati in lotte senza fine e atrocità commesse da milizie sui civili. Sono guerre senza frontiere, seguite attraverso i monitor degli aerei come nella prima guerra del Golfo o in diretta televisiva, come per l’attacco alle Torri gemelle. Un attacco, come ebbe a scrivere Derrida, che rende la guerra simile a quelle malattie in cui è lo stesso organismo a produrre, al suo interno, gli agenti patogeni da cui l’organismo viene attaccato. Una guerra, insomma, in cui il nemico è tra noi, è anzi dentro di noi. A questo pensavo, nel negozio di un rigattiere a Praga, l’estate scorsa, mentre tenevo nella mano aperta due occhi di vetro. Erano gli occhi, mi spiegò il rigattiere, che servivano ai reduci dell’esercito austriaco della Grande Guerra. I nemici degli italiani, lui mi disse, e io gli ricordai il buon soldato Svejk. Ma fu anche il momento in cui mi ricordai del Libro Primo delle Leggi di Platone.
In quelle pagine di Platone ritorna l’antica verità di Eraclito. Dice il Cretese Clinia: «Quella che la maggior parte degli uomini chiamano pace non è altro che un nome, ma nella realtà delle cose, per forza di natura, c’è sempre una guerra». La realtà, insomma, è il pòlemos. L’Ospite Ateniese replica: «Allora un individuo, anche rispetto a se stesso, sarà nemico». E il Cretese risponde: «Tutti gli uomini sono, sia nel privato che in pubblico, nemici di tutti gli altri».
La guerra non è improvvisa irrazionalità, belluina appunto, che irrompe a sostituirsi a una condizione razionale e civilizzata dei rapporti tra gli individui. E non ci sarà autore o filone speculativo della tradizione di pensiero occidentale che non riconosca il carattere necessario e imprescindibile della guerra nella soluzione delle controversie e del conflitto nel rapporto tra gli individui e addirittura nel rapporto che ciascun individuo ha con se stesso.
Cìo emerge in modo specifico nella riflessione filosofica europea del Novecento, sviluppatasi proprio nei decenni tra le due Guerre con Husserl, Heidegger, Valéry, Jaspers intorno all’origine dell’idea e della realtà di Europa.
Il Polemos è innervato fin dalle origini nel tessuto d’Europa. Fin da un suo evento fondativo: la guerra di Troia, che ha origine da un rapimento e da una fuga, da un trafugamento. Così come nel mito: Europa è rappresentata come una fanciulla bellissima e di stirpe reale che gioca sulla spiaggia con delle amiche in riva al mare. Di lei, di Europa che gioca su una spiaggia di quella che Asia non è ancora ma che oggi riconosceremmo geograficamente come Asia, si innamora Zeus, il quale, allo scopo di possederla, si fa bestia nelle sembianze di un bianco e docile toro. La fanciulla, attratta dalla bellezza e dall’aspetto mansueto dell’animale, gli sale in groppa. Il toro, a quel punto, spicca un balzo e attraversa il mediterraneo. Giunto sulla terra che fronteggia l’Asia, riprende le sembianze di Zeus e possiede Europa, portata tanto lontano dalla sua terra d’origine.
Anche nella più antica opera teatrale pervenutaci, I Persiani di Eschilo (472 a. C.), la regina Atossa, madre di Serse re di Persia, in attesa del figlio di ritorno dalla battaglia di Salamina sogna una lotta in cui si affrontano due sorelle: una ha un nome, Asia, l’altra è senza nome. Vince la sorella senza nome, ma per regnare deve andarsene via, lontano dalla reggia.
Ma il Polemos che segna l’identità più propria dell’Europa è quel conflitto che non è solo distruttivo; è il Polemos dei frammenti 53 e 80 di Eraclito: il conflitto “padre” e “re” di tutte le cose. Polemos che è anche Logos: la ragione delle cose implica che l’unità sia dia solo nella molteplicità e che l’identità viva della differenza. Il conflitto è generativo delle differenze, che esso mette in opposizione e che tuttavia rispetta mettendole, appunto, in movimento.
Il conflitto come differenza e come differenziazione, anche paradossalmente come pacificazione – se questa non è omologazione e identificazione, o peggio, omogeneizzazione e indifferenza bensì una negoziazione permanente: convivenza delle differenze, alternanza del potere, controllo e rispetto reciproci.
La realtà dei frammenti eraclitei è contraddittoria, molteplice e conflittuale. Senza conflitto non c’è nulla e nulla diviene. La lotta degli opposti è quella che dà senso alle cose, perché permette di distinguerle secondo i due volti di Eris, la Contesa. Eris può essere buona e cattiva: può condurre alla rovina (e genera come figli la Fatica, l’Oblìo, la Fame e il Dolore, ma può spingere a coltivare e a produrre. La necessità della Contesa e la sua necessaria dualità ci dicono che all’origine delle cose non c’è la necessità di un piano prestabilito ma l’indeterminazione delle differenze.
Insomma proprio chi, come noi, si oppone alla guerra, alla prepotenza, alla prevaricazione, alla distruzione e allo spargimento di sangue, può assumere in se stesso il compito di pensare altrimenti la guerra, cioè pensare ai conflitti recuperandone una visione positiva, e al tempo stesso testimoniare di quella conflittualità del pensiero che è portare il polemos all’interno di se stessi lottando contro le stesse proprie convinzioni.