La guerra non sempre è un peccato[1]. Sur les maisons des morts mon ombre passé/ Qui m’apprivoise à son frêle mouvoir/. L’âme exposée aux torches du solstice/, Je te soutiens, admirable justice/ De la lumière aux armes sans pitié!/Je te tends pure à ta place première/, Regarde-toi !… Mais rendre la lumière/ Suppose d’ombre une morne moitié[2]
Prime pietre a giustificazione delle violenze
In molti presero la via del mare per raggiungere la sede del primo concilio ecumenico (sinonimo di coinvolgente tutte le chiese esistenti ad Oriente e ad Occidente). Si andava a Nicea (oggi Iznik, in Anatolia a 150 km dal Bosforo, vicina alla sede imperiale di allora, che era ancora Nicomedia), dov’era stato indetto, nel 325 d.C., un concilio ecumenico da un imperatore romano, Costantino. Lo scopo era quello di ottenere una chiarificazione circa le tesi teologiche di un diacono del vescovo Alessandro di Alessandria, di nome Ario, il quale insegnava che il Figlio eterno è “simile”, ma non “uguale” al Padre, cioè è la “prima”, seppur la più degna, tra le “creature” del Padre. Di qui il quesito affidato da Costantino, peraltro non ancora battezzato nella fede cristiana, ai vescovi dell’impero (presenti, in gran parte, quelli di lingua e tradizione greca): “Stabilite quale sia la retta fede cristiana, e io la farò osservare”[3].
La formula di fede poi concordata dichiarava il Signore Gesù Cristo omooùsion al Padre; però, la scelta lessicale, senza precedenti scritturistici, non fu presa senza contrasti tra i padri. Contrasti che, presto, si formeranno nell’interpretazione di quel neologismo espresso all’accusativo – omooùsion -, per la prima volta non di provenienza biblica in una delle tante formule di fede. Alla formula nicena seguivano 20 canoni, tra cui anche la norma che optava per la data della Pasqua secondo la prassi di alcune chiese, che la celebravano la prima domenica dopo il plenilunio di primavera; ma l’imperatore la interpretò nella logica – non correttamente sottolineata da alcuni studiosi e prelati nelle celebrazioni costantiniane del 2013 – anti-giudaica, volendo così prendere le distanze da coloro che avevano assassinato nostro Signore e Padre.
Del resto, il luogo comune anti-giudaico si era sedimentato già nell’apologetica del secondo secolo, che inizia a far circolare una certa interpretazione del Sal 58(59),2 (che parla dell’angoscia notturna di Davide e il suo grido a Dio affinché lo liberi dai propri nemici) in chiave anti-giudaica e anti-pagana. Ippolito di Roma vi vede addirittura una profezia pronunciata da Cristo circa la caduta degli empi giudei; Tertulliano applica il versetto ai giudei suoi contemporanei, ritenendo che essi siano destinati a soffrire calamità a motivo di Cristo. Nonostante la posizione più equilibrata di Ilario di Potiers, il luogo comune anti-ebraico prenderà piede in Agostino, a partire dal Contra Faustum manichaeum[4].
È aperta, così, la strada per la giustificazione della violenza e delle azioni belliche, anche da parte dei singoli gruppi locali di cristiani e, poco alla volta, perfino della stessa grande Chiesa, anche allo scopo di frenare e distruggere, ad ogni costo, i non cristiani e gli eretici, per rallentarne la diffusione anche con le armi, per sradicare la zizzania dalla faccia della terra. Forse anche per questo, alla vigilia della grande guerra dei nostri tempi contemporanei, i fautori della belligeranza potranno testualmente parlare, contro chi, obiettando, la considerava invece un gesto atrocissimo e anti-umano, di “guerra… giusta, necessaria, provvidenziale”[5]? Forse per questo non pochi pensatori muovono ancora critiche pertinenti alle giustificazioni contemporanee dei conflitti armati da parte di persone della gerarchia ecclesiastica?[6]
La Chiesa del Vaticano II di fronte ai dilemmi della “guerra giusta”
In ogni caso, i canoni di Nicea avrebbero dovuto permettere all’imperatore – ma egli non ci si riuscì per le tante diverse sottolineature della medesima formula nicena, di tipo ariano, semi-ariano, omoiousiane, omousiane, omee… – di distinguere chiaramente tra niceni e non-niceni. Nel magma delle differenze interpretative aperte da una formula non univoca, non soltanto sarà esiliato Ario, ma lo stesso Atanasio – frattanto succeduto ad Alessandro – dovrà lasciare la sua sede episcopale alessandrina per prendere la via dell’esilio, difeso in Occidente dal solo Ilario di Poitiers, soprannominato l’Atanasio di Occidente (esule, a sua volta, per l’opposizione esercitata dai cosiddetti “vescovi di corte”), ma non dal vescovo di Roma[7]. I concili locali di Sardica, di Seleucia, di Rimini… non riuscirono ad ottenere risultati soddisfacenti nella formulazione della fede, a riprova che nei primi secoli esisteva “un pluralismo di opinioni assai più grande, per fare un paragone, di quelle che nel secolo XVI contrapposero irrimediabilmente cattolici e protestanti”[8]. Spesso, poi, le differenti opinioni esplodevano in violenze e conflitti armati a difesa di questa o quella parte.
Sarà infine Teodosio, nel 380, nell’editto di Tessalonica, indirizzato agli abitanti di Costantinopoli ma diretto ad cunctos populos, a sdoganare davvero il cristianesimo niceno e ad aprire la via ad una futura Chiesa, se non proprio di Stato, almeno chiaramente filo-imperiale, che alcuni autori reputano, però, esiziale dal punto di vista del Vangelo, in quanto si verrà così a creare un intreccio asfissiante tra trono e altare, anche per quanto riguarda la giustificazione dei conflitti armati, promossi dal potere politico e benedetti dall’autorità episcopale. Quell’abbraccio sarebbe proseguito poi per molti secoli, sia pure assai diversamente coniugato nel mondo cristiano, i cui segni problematici si coglierebbero, oltre che nella dottrina del sacerdozio gerarchico, nella dottrina del dovere militare, che si afferma, dopo le remore registrate da un Tertulliano, proprio come guerra giusta a partire dal dopo-Teodosio.
Nell’arco di tempo che va da queste prime teorizzazioni delle giusta guerra, passando per il Medioevo di Tommaso d’Aquino e la modernità di Roberto Bellarmino che, nelle sue Controversiae, riconosce perfino la legittimità della difesa in armi della fede[9], la stessa Chiesa rivendicherà sempre di più il diritto a un proprio, seppur esiguo e non di offesa, esercito, nonché all’esercizio di una propria giurisdizione penale, anche militare, come abbiamo visto negli ultimi arresti e processi ordinati da papa Francesco nel minuscolo Stato del Vaticano. Son questi gli esiti perversi postmoderni della cosiddetta aetas constantiniana della Chiesa?
Tra le possibili interpretazioni di questa aetas, c’è chi propende, con Barth e Chenu, per una stagione da ritenere, se non proprio sciagurata, almeno foriera d’intolleranza verso chi non sarebbe voluto restare fedele a questa linea maggioritaria, ritenuta ortodossa, come mostrerebbe il fatto che nei secoli della piena libertà dei cristiani “si moltiplicarono episodi di violenza contro persone, simboli, libri, biblioteche, templi di altre religioni”[10]. La Chiesa istituzionale, da repressa diverrebbe, insomma, sempre più intollerante, anche facendo leva sul potere politico, dando luogo a quelle che sono a volte tratteggiate, senza mezzi termini, come “scandalose strumentalizzazioni che il potere politico e/o religioso farà, lungo i secoli, della croce e del crocifisso”[11].
Una sorta di “spina nel fianco” accompagnerà, perciò, a lungo la storia del cristianesimo e delle chiese, generando un nodo di problemi etici e politici, ma anche teologici, che, dopo i cenni di Pio XII (che auspicava, nel 1951, il “perfetto ordine cristiano nel mondo” con l’effetto del “dileguarsi fin la possibilità della stessa guerra giusta, che non avrà più alcuna ragione di essere dal momento che sarà garantita l’attività della Società degli Stati come genuino ordinamento di pace”[12]), si ripresenteranno soprattutto nell’epoca del secolo breve”[13], allorché l’auspicio diviene vero e proprio grido cristiano contro la guerra, in un tempo fratturato da ben due guerre mondiali.
Nella situazione di minacce di guerra all’orizzonte dello scacchiere internazionale, iniziava, infatti, la prima sessione conciliare del Vaticano II. L’11 aprile dell’anno successivo, 1963, quasi anticipando o, forse, sottraendo il tema della guerra ai padri conciliari, papa Giovanni XXIII pubblicava l’enciclica Pacem in terris[14]¸ dedicata alla necessità d’instaurare la pace fra tutti i popoli in veritate, iustitia, caritate, libertate. La consapevolezza è ormai che, se chiamiamo Cristo, con le parole del profeta “Principe della pace” (Cf. Is 9,6) abbiamo il dovere di spendere tutte le nostre energie per il rafforzamento di questo bene. Ma la pace rimane solamente un suono di parole, se non è fondata su quell’ordine che il documento ha tracciato con fiduciosa speranza: ordine fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità e posto in atto nella libertà (n. 89).
Superando la teoria morale della cosiddetta “guerra giusta”, ormai divenuta comune dopo la messa a punto effettuata nella Somma di teologia di Tommaso d’Aquino, fino a sostenere la necessità della legittima difesa anche con mezzi violenti, il “papa buono” dichiara l’illogicità di ogni guerra, scrivendo che è un errore ritenere di «poter regolare i rapporti di convivenza tra gli esseri umani e le rispettive comunità politiche» (n. 4) seguendo le forse irrazionali che esistono nell’universo e non, come si dovrebbe, cercandole «là dove Dio le ha scritte, cioè nella natura umana» (n. 4). Quel documento, che prelude all’idea che si maturerà ulteriormente nel corso del Concilio vaticano II, non manca di operare la ricognizione dei cosiddetti “segni dei tempi”. Il 2.12.1965, esaminati tutti i modi dei padri (ben 2247!), nella congregazione generale n. 166, in Concilio viene distribuito il testo con l’ultima revisione. Il cardinale Garrone, nella sua relazione, rileva anzitutto come la maggior parte delle osservazioni dei padri si riferissero all’ateismo, al matrimonio ed alla guerra. Circa la guerra, non si prende posizione sulla moralità dell’obiezione di coscienza, ma neppure si riconosce un diritto al rifiuto di prendere le armi; si afferma soltanto che il caso degli obiettori di coscienza dev’essere regolato con umanità.
In particolare, nell’enciclica Pacem in terris vengono dal papa identificati tre fenomeni, che descrivono bene il quadro socio-culturale dell’epoca, così come percepito dal sommo Pontefice e da quasi tutti i padri conciliari. In primo luogo, l’ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici, in cui i lavoratori domandano di essere trattati sempre come soggetti o persone in tutti i settori della convivenza, e cioè nei settori economico-sociali, in quelli della cultura e in quelli della vita pubblica. In secondo luogo, l’ingresso della donna nella vita pubblica: la donna «sa di non poter permettere di essere considerata e trattata come strumento; esige di essere considerata come persona, tanto nell’ambito della vita domestica che in quello della vita pubblica» (n. 22). Infine, una configurazione sociale-politica profondamente trasformata: non più popoli dominatori e popoli dominati: tutti i popoli si sono costituiti o si stanno costituendo in comunità politiche indipendenti (no esplicito a discriminazioni razziali). Sul piano dei rapporti tra esseri umani e poteri pubblici nelle singole collettività politiche, si afferma il primato della coscienza individuale (n. 30). Lo scopo da perseguire, infatti, è quello dell’attuazione del bene comune, che «consiste nell’insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani lo sviluppo integrale della loro persona» (n. 35), ed i cui elementi sono: le caratteristiche etniche che contraddistinguono i vari gruppi umani; questo è un bene a cui hanno diritto di partecipare tutti i membri di una comunità politica; ha attinenza a tutto l’uomo: tanto ai bisogni del suo corpo che alle esigenze del suo spirito che ha anche un fine soprannaturale; l’attuazione del bene comune trova, nei tempi moderni, la sua indicazione di fondo nei diritti e nei doveri della persona; i poteri pubblici contribuiscano positivamente alla creazione di un ambiente umano nel quale a tutti i membri del corpo sociale sia reso possibile e facilitato l’effettivo esercizio degli accennati diritti, come pure l’adempimento dei rispettivi doveri; comporta il dovere dello sviluppo economico adeguato il progresso sociale: e quindi che siano sviluppati, in proporzione dell’efficienza dei sistemi produttivi, i servizi essenziali, quali: la viabilità, i trasporti, le comunicazioni, l’acqua potabile, l’abitazione, l’assistenza sanitaria, l’istruzione, condizioni idonee per la vita religiosa, i mezzi ricreativi, in ogni caso evitando posizioni di privilegio o, all’estremo opposto, riducendo eccessivamente o rendendone impossibile il genuino esercizio. La V e ultima parte della Pacem in terris si rivolge particolarmente ai credenti, ribadendo il dovere di partecipare «attivamente alla vita pubblica e di contribuire all’attuazione del bene comune della famiglia umana e della propria comunità politica; e di adoprarsi quindi, nella luce della fede e con la forza dell’amore, perché le istituzioni a finalità economiche, sociali, culturali e politiche, siano tali da non creare ostacoli, ma piuttosto facilitare o rendere meno arduo alle persone il loro perfezionamento: tanto nell’ordine naturale che in quello soprannaturale» (n. 76).
Ormai l’azione attiva per la pace e il disgusto verso la guerra diviene una costante del Magistero cattolico dell’ultimo secolo. Esso si muove sempre più in antitesi con la tradizione teologica e giuridica cattolica, di cui erano stati testimoni Agostino e, nel XVI secolo, De Victoria, e che in ultima istanza si rifaceva all’idea agostiniana secondo cui è cosa peggiore della guerra che i cattivi e i violenti dominino e spadroneggino sopra i buoni. Questa nuova opportunità sembra specialmente rilevante nel rapporto della Chiesa con la sovranità degli Stati, vero punctum dolens dell’intera questione, perché la sovranità si esprime anche nel suo vertice più decisivo e tremendo, ovvero nel detenere e impiegare in maniera insindacabile il ‘diritto di guerra’ (jus ad bellum), oppure nel determinare mezzi violenti e bellici per difendersi, per esempio, come accade ai nostri giorni, dal terrorismo o dalla presunta invasione islamica.
In questa scia, papa Benedetto XVI, nel discorso pronunciato alla “Neue Messe” (Nuova Fiera) di Monaco (10 settembre 2006), unificava le sue riflessioni intorno al tema – apparentemente distante dalle questioni politiche e militari -, di “Dio”. Il tema Dio, insisteva il papa, non riguarda soltanto la vita personale, la fede interiore, ma va collegato alla dimensione sociale, quasi a ribadire che quanto si crede deve avere sempre a che fare con la vita: «Con il tema “Dio”, però, è connesso il tema sociale: la nostra responsabilità reciproca, la nostra responsabilità per la supremazia della giustizia e dell’amore nel mondo». Ritorna, in tal modo, un tema centrale del cristianesimo, la sua regola d’oro: amore di Dio che è sempre amore del prossimo, anzi è posta un’equazione esplicita tra amore e giustizia, la cui connessione diviene la “pietra di paragone”, o fattore di verifica, del cristianesimo nella storia. L’Occidente, invece, come osserva criticamente il pontefice, ormai in maniera non riflessa, avrebbe piuttosto deciso per l’eclisse di Dio dall’orizzonte della propria razionalità segnando il pericoloso accadimento del “tramonto di Dio” dal quadrante delle proprie attitudini ed esigenze. Così, «esiste in alcuni l’idea che i progetti sociali siano da promuovere con massima urgenza, mentre le cose che riguardano Dio o addirittura la fede cattolica siano cose piuttosto particolari e di minor importanza». La tolleranza e l’apertura culturale sono dei valori occidentali moderni, che il papa dichiara di condividere, ma essi devono, a suo avviso, includere anche quello che viene descritto come rispetto per ciò che, per altri popoli ed esseri umani, è “cosa sacra”, o anche come “timor di Dio”. Quasi a dire che, in Occidente, dov’è stato teorizzato e coltivato il principio moderno di tolleranza, non si dovrebbe a priori espellere dal numero delle ipotesi il valore del sacro nell’orizzonte della razionalità, pena la perdita delle radici cristiane che comunque andrebbero riconosciute almeno come portato storico.
Dopo la globalizzazione del terrorismo a partire dall’11 settembre del 2000, sia nella crisi e superamento della dottrina della guerra giusta, sia in quella che papa Francesco denomina oggi terza guerra mondiale a pezzi[15], diversi teologi sottolineano i rischi d’intolleranza cristiana verso chi non resti nella linea ortodossa comunque stabilita dalla Chiesa istituzionale, oppure stigmatizzano i tristi episodi di violenza contro persone, simboli, libri, biblioteche, templi di altre religioni.
Una volta ammessa la cittadinanza di Dio nella sfera pubblica, allorché si procedesse a determinarne il vero volto e il genuino profilo, ne conseguirebbero davvero dei conflitti inevitabili nella vera e propria gara tra i monoteismi mediterranei a far prevalere il proprio punto di vista? Ecco, di nuovo, un profilo di domanda di tenore socio-politico, oltre che etico-sociale: come rivendicare un posto anche a Dio nella legittimazione sociale e politica del potere, senza degradare a scandalose strumentalizzazioni della croce e del crocifisso da parte del potere politico e/o religioso che diventasse egemone rispetto ad altre visioni? In particolare, in un’Europa in fase di quasi completa disgregazione politica e incapace di darsi un testo costituzionale unitario, non sarebbe controproducente rivendicare un posto al divino nello spazio pubblico, soprattutto quando esso ritenesse ineliminabile la tolleranza zero verso gruppi umani (si pensi ai migranti), oppure insanabile il ricorso ad armi impiegate allo scopo di una giusta causa? E tuttavia, di fronte alle enormità e ferocie commesse a danno della popolazione bosniaca, Giovanni Paolo II non si esime dall’appoggiare le azioni, anche militari, che fermino la mano degli aggressori. La strada è ormai aperta verso la tesi del disarmo integrale[16]
Cosa avrebbe comportato tale presa di posizione sempre più chiara circa la guerra – fino all’affermazione che occorre “costruire un mondo di pace e superare il criterio barbaro e disumano del ricorso alla guerra come mezzo per dirimere le controversie. È tempo ormai di affermare con forza: “Basta con la guerra”! Guerra giusta e doverosa è fare guerra alle guerre”[17] – è facile riscontrare il progressivo affermarsi dell’intento de-militarizzante della Chiesa e dalle polemiche periodiche che accompagneranno periodicamente, in Italia, il mantenimento dell’Ordinariato militare per l’Italia[18]. Si ricordi la Costituzione apostolica di Giovanni Paolo II, Spirituali militum cura (24.4.1986), nella quale si giustifica la cura pastorale dei militari, però all’interno del quadro dell’edificazione e della promozione della pace in tutto il mondo, in quanto essi non sono più reclutati per la guerra, bensì come ministri della sicurezza e della libertà dei popoli[19]. Anche all’interno del Ministero italiano della difesa, si ricorda che, pur aderendo a tanti protocolli internazionali applicabili anche al diritto della guerra, la Chiesa lo fa per ri-affermare che la guerra è inumana e necessita salvaguardare, anche in guerra, i diritti dell’uomo[20]. Si ricordi, inoltre, che nel 2016, il Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace insieme al movimento cattolico globale per la pace, Pax Christi Internazionale, promossero una Conferenza internazionale, chiedendo esplicitamente di cancellare qualunque riferimento alla dottrina della guerra giusta
Cosa, invece, ciò comporti rispetto alla teorizzazione tommasiana circa la liceità della guerra, è bene vederlo direttamente sui testi, anche grazie alla recente edizione della Somma di teologia, pubblicata con una mia ampia Introduzione generale, da Città Nuova[21]. Però, non senza notare che Tommaso non affrontava il problema della guerra nella discussione sulla legge naturale (il cui stato, essendo trascrizione antropologica e sociale di una legge eterna, non avrebbe mai potuto implicare un bellum omnium contra omnes), né in quella riguardante la giustizia, ma, significativamente, ne parla a proposito della virtù della carità. Egli non si chiedeva, infatti, quando una guerra è morale, o coerente con le esigenze della legge di natura e di giustizia, ma se sia sempre peccaminoso fare una guerra, cioè si domandava quando l’uccisione di un altro essere umano, implicata da ogni atto bellico violento, non sia contraria all’amore del prossimo.
Le indicazioni della Somma di teologia di fra’Tommaso dei conti d’Aquino
Una delle direttrici di marcia per interpretare il personale cammino di fra’ Tommaso in questo scritto enciclopedico della sua maturità, chiede di soppesare l’incidenza nella Summa theologiae della pressoché onnipresente tradizione di tenore agostiniano, oppure della tradizione filosofica aristotelica mediata dalla tradizione musulmana. In merito, si osserverà che mentre il giovanile Commento alle Sentenze sembrava ancora rivelare, nelle sue parti più strettamente filosofiche, una forte accentuazione dell’elemento agostiniano ed anche un maggiore influsso di Avicenna, nella Summa theologiae[22] appare invece evidente una maggiore libertà nel procedere rispetto a entrambe queste tradizioni. A loro volta, i rilevanti concetti di ordine teologico-morale, di filosofia politica e sociale, presentissimi nelle due parti della Parte seconda della Somma di teologia, arricchiscono il quadro circa il ripensamento tomano degli apporti aristotelici, prospettando ulteriori precisazioni e sviluppi, particolarmente se si proceda, ad esempio, alla comparazione col De regno ad regem Cypri (detto anche De regimine principum), databile all’incirca verso il 1267. Per non dire delle informazioni che si potrebbero ricavare dal confronto istituibile con i ben nove commenti biblici, prodotti da fra’ Tommaso.
Un monumento nella varietà delle sue parti, la Summa theologiae, insomma; ma anche un cantiere in continua manutenzione, grazie al ripensamento delle varie tradizioni culturali che abbiamo inventariato. È stato perciò ben osservato, in merito a quest’aspetto di evoluzione e maturazione delle soluzioni su specifici punti – che sembra oggi fare il paio con quanto nei nostri tempi il Vaticano II ha voluto chiamare aggiornamento. Tommaso, dal canto suo, decide di aprirsi decisamente agli apporti della speculazione, anche filosofica (che, dalla fine del Duecento, restava comunque una meditazione intellettuale, svolta da una mente ristabilita nella grazia divina dalla redenzione e, quindi, capace di spiegare in termini razionali l’esperienza di Dio). E lo fa non soltanto per approfondire le indicazioni bibliche, ma anche per mostrare la coerenza interna degli enunciati della dottrina sacra, nonché la compossibilità con le istanze della ragione argomentata. Mentre qualcuno, nel corso di quegli anni, utilizzava l’escatologia (alla maniera dei seguaci di Gioacchino da Fiore) come possibile antidoto all’aristotelismo, Tommaso preferisce inverare, invece, anche il “nuovo” armamentario filosofico dello Stagirita e dei suoi commentatori all’interno della teologia, non senza raggiungere forti aspetti di novità, i cui esiti si vedranno anche nelle profonde trasformazioni che, con raddoppiato ardimento, egli ha fatto subire alla filosofia di Aristotele. Il tutto, però, viene da lui compiuto in modo tale da restare altrettanto fedele ad Agostino e al suo insegnamento autorevole e diffuso, tanto che è stato affermato che «l’agostinismo di san Tommaso è più conseguente di quello di san Bonaventura.
Procede in tal modo, dunque, Tommaso anche per quanto riguarda la giustificazione della guerra? Bisogna, in primo luogo, ricordare che il modello ideale di riferimento resta per Tommaso quello dell’armonia e dell’amore, che nessuno deve spezzare. E ciò al punto che se un tiranno stia sovvertendo l’ordine, il popolo può ricorrere alla ribellione, che non è più neppure tale, bensì si configura come il ripristino dell’ordine costituito contro un sedizioso e un ribelle[23].
Se nella prima Parte della Somma di teologia lo stesso termine “guerra” è pressoché assente, nelle due parti morali dell’opera esso comincia a comparire nell’esame delle virtù umane (per esempio, della virtù della fortezza), per poi essere affrontato formalmente nella Secunda secundae, laddove un’intera questione viene dedicata alla teoria della guerra giusta.
La Parte seconda della Seconda parte ha, come si ricorderà, come “soggetto” l’atto umano, ovvero l’atto dell’essere umano, che fu fatto a immagine di Dio (immagine come essere intellettuale, dotato di libero arbitrio, in grado di agire per se stesso). Si tratta qui soprattutto della creatura umana, piuttosto che dell’angelo (a cui era stata dedicata discreta attenzione nella Parte prima), ovvero del suo ritorno verso Dio, dopo l’allontanamento a motivo del peccato (cfr. 1-2, prol., 6, 9-10). Di qui la possibile divisione in due direzioni: prima, il fine ultimo dell’essere umano; seconda, ciò mediante cui egli tocca o devia da questo fine ultimo. L’approfondimento della carità (virtù e vizi opposti) si legge partire dalla q. 22 fino alla 48, laddove saranno sviluppate tre tappe in ordine a ciò che si presenta in ragione di bene: atto d’amore; atto di desiderio; gioia o piacere; a cui seguono tre tappe in ordine a ciò che si presenta in ragione di male: movimento di ripudio; atto di fuga; sofferenza (una specie di stato affettivo che si chiamerà col nome generale di sofferenza, opposto al piacere).
Poiché il bene e il male non si presentano allo stato puro, ma in concreto, al punto che la loro duplice influenza sull’appetito sembra controbilanciarsi, bisognerà studiare i dinamismi misti anche dell’appetito (si parla di audacia e di disperazione e precisamente di 11 possibili movimenti, che si possono produrre nella facoltà affettiva). In dettaglio, le qq. 23-46 studiano la terza virtù teologale, o carità: in se stessa (amore di amicizia degli uomini verso Dio, a cui corrisponde la benevolenza reciproca di Dio verso noi); nella sua sede psichica, che è la volontà, in quanto oggetto della carità è il bene supremo-felicità somma, cioè Dio; nel suo essere virtù infusa, ma con dei gradi (principianti, proficienti, perfetti); nel suo oggetto, che non è solo Dio, in quanto la carità si estende al prossimo, in quanto in esso noi troviamo sempre Dio. Viene insegnato che il principale atto della carità è amare, piuttosto che essere amati, a cui seguono diversi effetti interni (gioia, pace, misericordia) ed esterni (beneficenza, di cui fa parte l’elemosina, e correzione fraterna, che è un tipo peculiare di elemosina); i diversi modi di elemosina sono le opere di misericordia corporale e spirituale. A loro volta, i vizi opposti alla carità, che c’interessano da vicino, sono: odio (che è contrario all’amore), pigrizia e invidia (opposti alla gioia e alla carità), discordia, contese, scisma, guerra, lotta, sedizione (tutti vizi contrari alla pace); scandalo (che si contrappone alla carità e alla beneficenza).
La guerra viene dunque inventariata, da Tommaso d’Aquino nella parte morale della Somma di teologia, inserita tra i vizi e i peccati che si oppongono alla pace, insieme con lo scisma, con la rissa (una specie di guerra privata secondo 2-2,41,1, inoltre 3) e con la sedizione, ovvero con un tumulto che conduce allo scontro (2-2,39, prol.). E tuttavia, non solo ci possono essere dei casi in cui è giusto intraprendere una guerra, ovviamente in vista del perseguimento di un bene maggiore, quello della pace, che anzi, in una guerra giusta, di fatto s’impedisce agli aggressori di nuocere, per esempio s’impediscono le uccisioni di molte altre persone, nonché innumerevoli mali temporali e spirituali, al punto che, nel corso di una giusta guerra non ci si può neppure, secondo l’Angelico, rifiutare di combattere in giorno festivo (2-2,40,4,r.).
Di più: si possono addirittura istituire degli Ordini religiosi finalizzati alla milizia cristiana (ovvero finalizzati al soccorso del prossimo, non solo relativamente alle persone private, ma anche relativamente alla difesa di tutto lo Stato, ovvero per la difesa del culto divino e per la salute pubblica o anche per la salute dei poveri e degli oppressi )[24]. Certo, il religioso consacrato non potrà mai combattere di propria iniziativa, ma solo in virtù dell’autorità dei prìncipi o della Chiesa. E tuttavia, sia l’antica che la nuova Legge prevedono che, a determinate condizioni, la guerra possa essere giusta. Così, la legge antica, che insegna comunque dei precetti adeguati, “per primo stabilì che si facesse la guerra in modo giusto”[25].
In 2-2,5,5, Tommaso, all’interno della discussione sull’atto interiore di fede (Prol. Alla q. 2), si domanda se sia necessario alla salvezza credere esplicitamente alcune cose e risponde: “I precetti della legge, che l’uomo deve ad osservare, sono dati per riguardo agli atti delle virtù, che sono la via per giungere alla salvezza”. Così, se all’oggetto della virtù della fortezza appartiene di sopportare i pericoli di morte e di aggredire pericolosamente i nemici in vista della difesa di un bene comune; tuttavia a che l’uomo si armi o che colpisca con la spada in una guerra giusta, o che faccia qualche altra cosa simile, si riduce certo all’oggetto della fortezza, ma solo accidentalmente. Ora, la determinazione dell’atto virtuoso a quelle cose che si rapportano accidentalmente, o secondariamente, all’oggetto proprio e di per sé della virtù, non ricade necessariamente nel precetto se non in certi luoghi e in certi tempi.
Nella 2-2,10,8, si discute della guerra condotta dai cristiani contro i non credenti (si allude all’Islàm). Essi non la indicono per costringere alla fede i non credenti, ma solamente per il seguente motivo: “Ed è proprio per questo che spesso i cristiani muovono guerra contro i non credenti, non per costringerli a credere (poiché, anche se dovessero vincerli e li facessero prigionieri, li lascerebbero liberi di credere e di non credere), ma allo scopo di costringerli a non essere d’ostacolo alla fede” (r.). La costrizione alla fede viene, infatti, ammessa solamente nei confronti degli eretici (dissonanti nella dottrina) e degli apostati (rinnegati rispetto alla fede accettata), per cui “costoro vanno costretti anche nel corpo, affinché adempiano quanto promisero e affinché credano in ciò che un tempo accettarono” (r.).
Ma la discussione formale della Summa intorno alla guerra, avviene nella q. 40, il cui prologo distingue quattro approfondimenti possibili: “Primo: Se qualche guerra sia lecita. Secondo: Se ai chierici sia lecito combattere. Terzo: Se a coloro che combattono sia lecito tendere insidie. Quarto: Se sia lecito combattere nei giorni di festa”. Di essi, solamente il primo approfondimento è, ai nostri fini, più rilevante, anche se non mancano sfumature nelle altre questioni di ordine morale proposte nella questione.
Il principale testo evangelico di riferimento è Mt, 26, 52: «Chi impugnerà una spada, perirà di spada», anche se non ne mancano altri che configurano come peccato il non lasciar fare alla giustizia divina. In definitiva, il nodo sta nel seguente ragionamento: se la guerra è contraria alla pace, non è un atto di virtù, bensì un peccato, compiere un atto di guerra è un peccato (2-2,40,1,3 inoltre). Con tale ragionamento non sembra coerente la tradizione proveniente da Agostino (epistola Al figlio del centurione), che osserva come il Signore non comandi ai militari di gettare le armi e sottrarsi ad ogni obbligo militare e ne conclude che la dottrina cristiana non condanna del tutto la guerra (2-2,40,1, in contr.). La risposta tommasiana, invece, teorizza non soltanto che sono lecite le esercitazioni militari, ovvero arti militari in caso di guerra[26] (condotte, però, in maniera che non ne derivino uccisioni e rapine), ma che possa esistere una guerra giusta, anzi ne fissa le tre condizioni:
- “Per primo, l’autorità del principe, dietro il cui ordine si deve fare una guerra”. Ovvero, se la guerra deve essere indetta o proclamata, la fonte autoritativa della indizione non può essere una persona privata (la quale potrebbe risolvere il contenzioso circa un proprio diritto, ricorrendo al giudizio di un superiore), bensì una persona che abbia il potere di convocare il popolo, cosa che bisogna pur fare nell’imminenza di una guerra (ecco la clausola per parlare di guerra giusta, ovvero necessità della consultazione della volontà popolare da parte di chi è detentore del potere): cioè, un principe, cui viene affidata la “cura dello Stato”, quindi anche il bene pubblico della città o del regno o della provincia soggetta. Difendere il bene pubblico comporta sia punire i malfattori interni, sia difendere lo Stato “con la spada della guerra dai nemici esteriori”. L’affermazione viene sostenuta sia da un testo biblico che dal riferimento alla tradizione scritta di Agostino.
- Per secondo, “è richiesta una causa giusta, cioè che coloro contro cui si combatte meritino che li si combatta per qualche colpa”. La fonte della teoria della giusta causa è ancora l’onnipresente Agostino, che parla di guerre indette per vendicare un’ingiustizia.
- Per terzo, ancora in linea con altre considerazioni di Agostino “si richiede che sia retta l’intenzione di chi combatte, cioè che si abbia in mente o di promuovere il bene o di evitare il male” (intenti di pace, oppure per reprimere i malvagi e dar sollievo ai buoni). Il terzo fattore (l’intenzione di chi induce la guerra) sembra il più rilevante, in quanto rende ingiusta una guerra anche se essa è stata indetta dall’autorità legittima e anche se la causa è giusta. Questo comporta che anche ci combatte una guerra conservi l’intenzione di perseguire la pace: “hanno in mente la pace anche coloro che combattono una guerra giusta” (2-2, 40,1,al terzo).
Osservate le tre condizioni, anche i chierici e i prelati, in teoria potrebbero non soltanto “disporre e indurre gli altri a combattere una guerra giusta” (2-2,40,2,al terzo), ma altresì lecitamente intraprendere delle guerre giuste; ma, per motivi di opportunità, collegati alla loro peculiare condizione, devono evitare di imbarcarvisi; anzi commetterebbero un abuso nell’impugnare le armi, a motivo del loro stato nella società e della loro missione spirituale e liturgica (2-2,40,2,r.); piuttosto, “non spetta loro uccidere e effondere il sangue, ma [spetta loro] piuttosto di essere preparati ad effondere il proprio sangue per Cristo, affinché imitino con le opere ciò che compiono per ministero” (2-2,40,2,secondo). In sostanza, essi, che celebrano nella messa il versamento del sangue di Cristo, entrando in lotte belliche, si dedicherebbero a un’attività il cui scopo è dissonante, in quanto è quello dell’effusione del sangue. Brandire le armi spirituali comporta, invece, il non brandire quelle materiali e, tutt’al più, col permesso del superiore, il chierico potrebbe partecipare a una guerra, ma soltanto per soccorrere spiritualmente, con le sue esortazioni e assoluzioni, e con altri simili aiuti spirituali, quelli che giustamente combattono (2-2,40,2, al secondo).
Tommaso, infatti, sa bene che ogni guerra, anche se giusta, può implicare l’eliminazione del nemico, la violenza, le predazioni (2-2,66,8, al primo) e può dunque trascinarsi la perversione della retta intenzione e, di conseguenza, il peccato, per esempio di cupidigia[27].
Conclusione. Un diverso contesto porta a superare, nello spirito di Tommaso d’Aquino, la teoria di una guerra giusta
Non si può non sottolineare come l’impianto della teorizzazione tommasiana regga soltanto all’interno di una situazione politica piuttosto ristretta di rapporti tra monarchie, peraltro all’interno di un orizzonte geo-politico in cui le parti eventualmente in conflitto riconoscevano pressoché unanimemente il grado di autonomia della teorizzazione cristiana e vivevano come pericoloso assalto dottrinale le azioni belliche di altre religioni.
Com’è stato ben osservato a livello pubblicistico, oggi, data l’avvenuta trasformazione del diritto internazionale, non si può più concepire il valore della pace internazionale come mera assenza di guerra, peraltro sulla scia della stessa concezione moderna che, nel concetto giuridico di pace, pensava quello di uno stato di assenza dell’uso illegittimo della forza: “In sintesi, possiamo ritenere che le novità di questo approccio ermeneutico consistano nei punti seguenti: 1) il «mantenimento» non può più essere inteso come pura e semplice custodia dello status quo, sia perché ora si evidenziano al suo interno situazioni non più desiderabili alla luce di una rinnovata coscienza mondiale dei diritti, sia perché il trascorrere del tempo ha prodotto situazioni nuove da valutare con nuovi parametri valorativi; 2) il valore della pace va progressivamente assumendo una sua specificità contenutistica, distinguendosi da quello della sicurezza e avvicinandosi a quello della giustizia; 3) il valore della sicurezza, a sua volta, diventa un aspetto interno della pace, ma non l’unico e, di conseguenza, può entrare in conflitto con gli altri beni che sono ritenuti anch’essi essenziali per la pace mondiale. Non v’è pace senza sicurezza, ma non basta la sicurezza per aversi la pace. In più, vi sono modi di perseguire la sicurezza nazionale e internazionale che sono minacciosi per la pace”[28].
Dato questo diverso assetto di cose, nessuna eventuale ipotesi di guerra giusta potrebbe giustificare, ad esempio, una guerra intrapresa come autodifesa preventiva: “Non si tratta tanto del fatto che di una guerra di autodifesa non si ha l’iniziativa, ma la si subisce come uno stato di necessità, perché un cristiano e uno stato cristiano devono tener presente il precetto evangelico di non resistere al male. Pertanto la giustificazione stessa della difesa non è sufficiente e non è certamente quella richiesta da Tommaso d’Aquino, che invece insiste sulla necessità di preservare il bene comune. Questo riguarda sia coloro che devono essere difesi, sia coloro che offendono ingiustamente. Insomma, una guerra giusta è combattuta per difendere altri e per il bene stesso dei nemici”[29]. Anche se, non manca chi sostiene ancora, tuttavia, che “la prassi attuale degli interventi umanitari, fondata sulla distinzione tra i crimini contro l’umanità, intesi oggi come violazione enorme di diritti fondamentali, e il crimine di una guerra di aggressione, è più correttamente spiegabile assumendo l’ottica di Tommaso d’Aquino che quella dei suoi interpreti successivi” [30].
NOTE
[1] Il titolo di questo saggio è tratto da una battuta di Somma di teologia 2-2,41,inoltre 3, laddove si discute della rissa.
[2] P. Valéry, Le Cimetière marin, 1920. I versi sono tratti da questo poemetto che Valéry compose come meditazione civile sulla tragedia della prima guerra mondiale: “Le cimetière è un canto impregnato di suggestioni mediterranee, ma anche di nessi con la filosofia ed il pensiero greco, oltre che descrizioni in cui il mare si fa metafora della vita umana, che fluisce e si rigenera, come le acque marine… mare come destino dell’uomo lo immagina Valéry” (M. Nunnari, Destino mediterraneo. Solo il mare nostro ci salverà, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz), 2018, 31).
[3] La formulazione è di L. Sandri, Dal Gerusalemme I al Vaticano III. I Concili nella storia tra Vangelo e potere, Casa editrice Il Margine, Trento, 20142, 41.
[4] A. Massie sj, Augustin, théoricien del’antijudaïsme chrétien?, in L’antijudaïsme des Pères. Muthe et/ou réalité?. Actes du Colloque de Louvain-la-Neuve (20-22 mai 2015), textes édités par J-M. Auwers, R. Bournet, D. Luciani, Beauchesne, Paris, 2017, 119-133, qui 121-129.
[5] A. Farinelli, Giusta guerra o atroce demenza?Gmunden, 25 settembre 1914, Fratelli Bocca editore, Torino-Milano-Roma, 1914, 8.
[6] M. Geuna, Guerra giusta e guerra umanitaria. Appunti per una critica delle giustificazioni contemporanee dei conflitti armati, in Una strana gioia di vivere a Grado Giovanni Merlo, a cura di M. Benedetti, M. L. Betri, Biblioteca Francescana, Milano 2010, 505-529. C. Bresciani-L. Eusebi (edd.), Ha ancora senso parlare di guerra giusta?, Dehoniane, Bologna, 2010.
[7] Ilario di Potiers, Raccolta antiariana parigina. Dossier storico-teologico contro Ursacio e Valente vescovi ariani, Introduzione di Luigi Longobardo, Traduzione e note di Pasquale Giustiniani, Città Nuova, Roma, 2019.
[8] L. Sandri, Dal Gerusalemme I al Vaticano III, 45.
[9] R. Bellarmino, Disputationes de controversiis christianae religionis, II.
[10] L. Sandri, Dal Gerusalemme I al Vaticano III, 61-62.
[11] Ivi, 63, n. 5.
[12] Radiomessaggio di sua Santità Pio PP. XII in occasione del Santo Natale, parte II: A.A.S., 34 (1952), n. 1, 5 – 15,
[13] E.J. Hobsbawm, Il secolo breve. L’era dei grandi cataclismi, tr. it. di Brunello Lotti, Rizzoli, Milano, 199710.
[14] Cfr. AAS 55(1963), 257-304. Versione italiana: L’Osservatore romano, 11 aprile 1963; La Civiltà cattolica, 114 (1963), II, 105ss. Cfr. anche Lettera Enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII e Messaggio di Giovanni Paolo II per la Giornata Mondiale della Pace 2003 nel 40° anniversario della Pacem in terris, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2003. Cfr. lo studio di Card. R. Martino, Pace e guerra, Cantagalli, Siena, 2005, con una buona messa a punto delle nozioni di guerra e di pace, alla luce della Sacra Scrittura, del magistero della Chiesa, della dottrina sociale.
[15] “Poco fa ho detto, e lo ripeto, che stiamo vivendo la terza guerra mondiale, ma a pezzi. Ci sono sistemi economici che per sopravvivere devono fare la guerra. Allora si fabbricano e si vendono armi e così i bilanci delle economie che sacrificano l’uomo ai piedi dell’idolo del denaro ovviamente vengono sanati. E non si pensa ai bambini affamati nei campi profughi, non si pensa ai dislocamenti forzati, non si pensa alle case distrutte, non si pensa neppure a tante vite spezzate. Quanta sofferenza, quanta distruzione, quanto dolore! Oggi, care sorelle e cari fratelli, si leva in ogni parte della terra, in ogni popolo, in ogni cuore e nei movimenti popolari, il grido della pace: Mai più la guerra!” (Discorso del santo Padre ai partecipanti all’incontro mondiale dei movimenti popolari, 28.10.2014). Fonte: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2014/october/documents/papa-francesco_20141028_incontro-mondiale-movimenti-popolari.html. (accesso del 12.9.2018).
[16] Prospettive per un disarmo integrale. Atti del seminario internazionale su disarmo, sviluppo e pace, Roma, 11-12 aprile 2008, con una Lettera di Sua Santità Benedetto XVI, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2009.
[17] Discorso di Giovanni Paolo II ai partecipanti ai “primi giochi mondiali militari” (7.9.1995): http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/speeches/1995/september/documents/hf_jp-ii_spe_19950907_giochi-militari.html. (accesso dell’.11.9.2018).
[18] Cfr. Diritto Umanitario e Cappellani Militari. Corso Internazionale di Formazione, Roma, 25-26 marzo 2003, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2004. Nel volume si riflette sul rispetto della dignità umana durante le operazioni militari, come antidoto salutare contro la passività che spesso caratterizza il nostro atteggiamento di fronte ai conflitti letali che insanguinano il mondo.
[19] Giovanni Paolo II, Costituzione apostolica Spirituali militum cura per una più efficace cura spirituale del militari: AAS 78 (1986), 481-486.
[20] I. Palumbo, La Chiesa romana e la guerra. Il diritto dei conflitti armati nell’ordinamento della Chiesa cattolica, “Inofrmazione della difesa” 3, (2009), 52-56.
[21] Tommaso d’Aquino, Somma di teologia. 1. Parte Prima, Introduzione di Pasquale Giustiniani; traduzione, note e apparati a cura di Fernando Fiorentino, Città Nuova Editrice, Roma, 2018, 5-141. L’opera è in via di completamento con il Lessico nel V volume.
[22] Si rinvia alla recente edizione della Somma di teologia, Introduzione generale di Pasquale Giustiniani, traduzione italiana, note a apparati a cura di Fernando Fiorentino, Città Nuova, Roma, 2018. Finora sono apparsi 4 voll, che propongono tutta la Somma eccetto il Supplemento alla Parte terza.
[23] Ch. Jourdain, La philosophie de saint Thomas d’Aquin, tome premier, Librairie de L. Hachette et c., Paris, 1858, 453.
[24] ST 2-2,188,3,3.
[25] ST 1-2,105,3,r.
[26] ST 2-2,50,4, r.
[27] ST 2-2,66,8, al primo.
[28] F. Viola, La teoria della guerra giusta e i diritti umani, in Pace, sicurezza, diritti umani, a cura di S. Semplici, Messaggero, Padova, 2005, 39-68, qui 50.
[29] Ivi, 59.
[30] Ivi, 60.