La pulsione della guerra e le sue trasformazioni 1/5. Freud 1915-1920: nascita e destino della pulsione di morte

1. Gli scritti di Freud sulla guerra: 1915 e 1932

 

Nell’introdurre il volume degli Scritti che vanno dal 1915 al 1917, Cesare Musatti non manca di notare come «Freud non reagì all’annuncio della guerra diversamente dalla maggior parte della gente comune. Si lasciò prendere perfino dall’euforia, fu sensibile alla propaganda politica, credette nella bontà della causa del proprio paese e nella perfidia del nemico»[1]. Tuttavia

 

sul finire del 1914, quando svanì l’illusione di una rapida vittoria, Freud uscì da questo stato d’animo e passò qualche settimana di grande depressione (…) Si fece allora luce in Freud una riflessione critica, corroborata dai dati dell’esperienza psicoanalitica, che gli consentì di dare una valutazione obiettiva degli atteggiamenti degli uomini di fronte alla guerra[2].

 

Da questa riflessione nasce il lavoro dell’anno successivo (composto di due saggi) Considerazioni attuali sulla guerra e la morte in cui l’autore si chiede le ragioni del periodico riapparire della malvagità e della guerra anche in seno a popolazioni altamente civilizzate, dandosi una duplice risposta. Da un lato constata che la civiltà non opera nessuna “estirpazione” del male, in quanto «la più profonda essenza degli uomini è costituita da moti pulsionali elementari», che per sé stessi non hanno coloritura morale («non sono né buoni né cattivi»); piuttosto, «formazioni reattive contro determinate pulsioni danno l’illusione di un mutamento del loro contenuto», evidentemente poco strutturato e a scarsa tenuta[3]. Da un altro lato, Freud fa riferimento

 

alla mancanza di intelligenza rivelata anche dai migliori, alla loro stupida ostinazione, alla loro inaccessibilità anche agli argomenti più convincenti, e alla loro ingenua credulità di fronte alle asserzioni più contestabili[4]

 

ascrivendola alla dipendenza della intelligenza dalla vita emotiva:

 

gli argomenti logici sono privi di efficacia contro gli interessi affettivi (…) gli uomini più acuti si comportano improvvisamente in modo irragionevole e come degli imbecilli, non appena la comprensione che da essi pretende incontra una resistenza da parte del sentimento[5]

 

una deplorazione, stando a quanto nota sopra Musatti, valida anche per se stesso. Nel secondo dei due saggi Il nostro modo di considerare la morte, Freud completa queste riflessioni a partire dalla constatazione che per l’inconscio la propria morte non esiste, al pari di quanto credevano gli uomini primitivi. Di qui anche la propensione a compiere azioni eroiche. La guerra agirebbe così eliminando «le successive sedimentazioni depositate in noi dalla civiltà e lascia riapparire l’uomo primitivo. Ci costringe nuovamente a essere eroi, incapaci di credere alla nostra morte»[6].

Considerazioni analoghe con non troppe varianti vengono riprese anche nel famoso carteggio con Einstein nel tentativo di rispondere alla questione postagli dal fisico: «c’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?»[7]. La risposta, come noto, non è certo ottimistica: «non c’è speranza di poter sopprimere le inclinazioni aggressive degli uomini»[8], sebbene poi nella parte conclusiva della lettera Freud tenti una sua proposta fondata su due tipi di legame emotivo: l’amore e l’identificazione, auspicando nel contempo di «dedicare maggiori cure, più di quanto si sia fatto finora, all’educazione di una categoria di persone elevate, dotate di indipendenza di pensiero, inaccessibili alle intimidazioni e cultrici di verità» e spingendosi infine ad auspicare «una comunità umana che avesse assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione»[9], confortato in questo dalla convinzione «che l’incivilimento sia un processo organico di tal specie» e che «tutto ciò che favorisce l’incivilimento lavora anche contro la guerra»[10].

Certo verrebbe da considerare come gli argomenti addotti da Freud per giustificare la possibilità di rimanere nonostante tutto un po’ ottimisti siano ben più deboli di quelli che sorreggono il suo pessimismo (senza trascurare peraltro quanto l’identificazione sia anche un fattore portante dell’odio).

Merita comunque attenzione una variante fondamentale tra i due scritti che, se pure non modifica le conclusioni cui perviene l’autore nel ’32 rispetto a quelle del ’15, ne varia sostanzialmente il percorso d’approdo.

Nella risposta ad Einstein Freud fa infatti esplicito riferimento ad un nuovo concetto della psicoanalisi che aveva nel frattempo introdotto e che così ribadisce al suo interlocutore:

 

Lei si meraviglia che sia tanto facile infiammare gli uomini alla guerra, e presume che in essi ci sia effettivamente qualcosa, una pulsione all’odio e alla distruzione, che è pronta ad accogliere un’istigazione siffatta. Di nuovo non posso far altro che convenire senza riserve con Lei. Noi crediamo all’esistenza di tale pulsione[11].

 

E più oltre così prosegue:

 

Con un po’ di speculazione ci siamo in effetti persuasi che essa opera in ogni essere vivente e che la sua aspirazione è di portarlo alla rovina, di ricondurre la vita allo stato della materia inanimata. Con tutta serietà le si addice il nome di pulsione di morte (…) La pulsione di morte diventa pulsione distruttiva allorquando, con l’aiuto di determinati organi, si rivolge all’esterno, contro gli oggetti[12].

 

2. 1920: la nascita di Thanatos

 

La pulsione di morte era stata introdotta nella teoria freudiana dodici anni prima con lo scritto Al di là del principio del piacere[13]. Sebbene Freud rigettasse con decisione un qualche collegamento tra l’elaborazione della teoria e la morte dell’amata figlia, occorsa nel medesimo anno, mostrando come la teoria fosse in effetti già stata elaborata qualche tempo prima della pubblicazione, non può nemmeno ignorarsi, come nota Ricardo Jarast, che la teoria viene formulata a ridosso della fine della Grande Guerra e che la stessa febbre spagnola di cui perì la figlia di Freud possa considerarsi in parte determinata, nella sua virulenza e nella sua estensione, dalla condizioni in cui versava l’Europa dopo la tragedia bellica[14]. Nella definizione che ne danno Laplanche e Pontalis nella loro Enciclopedia della psicoanalisi, le pulsioni di morte

 

si oppongono alle pulsioni di vita e tendono alla riduzione completa delle tensioni, cioè a ricondurre l’essere vivente allo stato inorganico. Rivolte dapprima verso l’interno e tendenti all’autodistruzione, le pulsioni di morte verrebbero successivamente dirette verso l’esterno, manifestandosi allora sotto forma di aggressione o di distruzione[15].

 

La pulsione di morte rappresenta un concetto complesso e sicuramente problematico in quanto al suo interno non contempla solamente impulsi distruttivi e autodistruttivi che più direttamente possono riconnettersi con l’idea di male, ma anche un desiderio di fusionalità (il principio del Nirvana di cui parla lo stesso Freud: vedasi oltre). Inoltre, proprio attraverso questo legame con la fusionalità, il non separato e l’informe, è possibile individuare in essa una dimensione di irrappresentabilità: una irrappresentabilità correlata non solo con l’idea di morte, ma anche più in generale con un pensiero che non riesce ad emergere dalla matrice magmatica di sensazioni e percezioni che ne è a fondamento. Questa “crisi” della rappresentazione può sì essere condizionata da un evento traumatico (che a sua volta può rimandare all’idea di male: un abuso, una violenza insostenibile), ma può anche esprimere più in generale un conflitto tra il senso e il non senso, tra il simbolico e il presimbolico che potrà svilupparsi in direzioni molteplici, incluso il pensiero creativo.

Questa ambiguità della pulsione di morte (tra l’altro, spesso declinata al plurale) la si può già cogliere ripercorrendo alcuni passi fondamentali dei testi freudiani. Ad esempio nel 1920, Freud la fa paradossalmente derivare dallo stesso principio del piacere[16]:

 

L’aver riconosciuto come tendenza dominante della vita psichica, e forse della vita nervosa in genere, lo sforzo che si esprime nel principio del piacere, sforzo inteso a ridurre, a mantenere costante, a eliminate la tensione interna provocata dagli stimoli (il ‘principio del Nirvana’ per usare un’espressione di Barbara Low[17]), è in effetti uno dei più forti motivi che ci inducono a credere nell’esistenza delle pulsioni di morte[18].

 

In questo passaggio, e anche laddove ribadisce «Sembrerebbe proprio che il piacere si ponga al servizio delle pulsioni di morte»[19], egli, sulla base del fatto che il piacere tende a ridurre le tensioni, lo vede come originante la pulsione di morte, sebbene non possa astenersi dal chiudere l’opera assumendo una posizione interrogativa e riconoscendo come di qui si generino «innumerevoli altri quesiti cui non siamo in grado attualmente di dare una risposta»[20].

In Analisi terminabile e interminabile (1937) e in Compendio di psicoanalisi (1938), l’accento del discorso viene in qualche modo a cambiare, in quanto ora quello che interessa Freud sono le pulsioni aggressive e distruttive: il masochismo, la reazione terapeutica negativa, il senso di colpa «costituiscono prove inequivocabili della presenza, nella vita psichica, di una forza che per le sue mete denominiamo pulsione di aggressione o di distruzione, e che consideriamo derivata dall’originaria pulsione di morte insita nella materia vivente»[21].

Inoltre Freud, che già nel ’20 come si è visto si era rifatto a Schopenauer, anche nel ’37, per giustificare il suo dualismo, criticando aspramente Jung, torna a citare un filosofo: Empedocle di Agrigento ed i suoi due principi di filìa e neikos, precisando la sua intenzione di fornire un «fondamento biologico» al principio di neikos (discordia o odio), «avendo ricondotto la nostra pulsione distruttiva alla pulsione di morte»[22]. Tuttavia, questa derivazione non è più così enfatizzata nel Compendio dell’anno successivo ove egli pone piuttosto come principi del suo dualismo Eros e la pulsione di distruzione (non più di morte, sebbene riconosca come propria anche tale dizione in quanto il fine ultimo resta comunque «portare il vivente allo stato inorganico»[23].

Leggendo insieme i testi del ’20 e del ‘37 potremmo dunque individuare un percorso dell’ultimo Freud per cui dal principio del piacere si perviene alla pulsione di morte e di qui si arriva ai suoi derivati, la pulsione di aggressione o di distruzione (che però nell’opera del ’38 sembrano parzialmente sganciarsi da essa). Come nota Bergmann[24] (e con lui molti altri) con l’adesione al punto di vista strutturale e l’enunciazione della pulsione di morte e dei suoi derivati clinici Freud si fa molto più pessimista sulle possibilità del lavoro analitico, che deve ora fronteggiare non tanto la rimozione quanto meccanismi di difesa più primitivi e ostinati, oltreché la coazione a ripetere, di modo tale che egli viene a perdere parte del suo interesse nella psicoanalisi come metodo di cura per riversarlo sulla psicoanalisi come possibile apporto allo studio e al rafforzamento del processo di civilizzazione.

Ricoeur aveva ben colto questa “polisemia” di Thanatos e si era chiesto se si trattasse di uno o di più “istinti”[25]:

 

Se leggiamo in ordine inverso la sequenza dei ‘rappresentanti’ dell’istinto di morte, si resta colpiti dalla differenza scalare fra tre temi: l’inerzia della vita, la coazione a ripetere, la distruttività. Si è indotti a sospettare che l’istinto di morte sia un termine collettivo, un abbraccio eterogeneo: una inerzia biologica non è una ossessione patologica, una ripetizione non è una distruzione[26].

 

Più avanti poi, correlando l’istinto di morte con la negazione (il riferimento è al fort – da del famoso gioco del rocchetto di cui parla Freud) Ricoeur giunge a prospettare che esso abbia come espressione normale e non patologica «lo scomparire-riapparire in cui consiste l’innalzarsi dall’immagine fantastica al simbolo»[27], segnalando così il suo stupore in quanto in tal caso tale istinto non avrebbe «nulla a che vedere con l’aggressività, ma al contrario con la simbolizzazione ludica, con la creazione estetica e infine con lo stesso esame di realtà»[28] .

 

3. Guerra, pulsione di morte e paranoia: dal contributo di Fornari alla riflessione attuale

 

Prima di proseguire la nostra riflessione in merito a Thanatos, vorrei tornare sul tema più specifico della guerra per evidenziare un’altra dimensione, parallela e talora rafforzativa di Thanatos. Appare utile il riferimento ad un’opera oramai di antica data, ma che tratta specificamente dell’argomento in questione, Psicoanalisi della guerra di Franco Fornari[29]. L’autore che muove da una prospettiva kleiniana intende la guerra come «elaborazione paranoica del lutto», il quanto esso costituisce «un’esperienza depressiva ed anche persecutoria» («vedi la paura del morto che ritorni per tirare i piedi», aggiunge). In quanto tale la guerra «rappresenterebbe essenzialmente e contemporaneamente una difesa da angosce depressive e da angosce persecutive»[30]. Riferendosi esplicitamente a Freud e alla pulsione di morte, Fornari evidenzia il processo proiettivo mediante il quale

 

la originaria presenza cattiva (il Terrificante come emergenza nell’incubo dell’istinto di morte) viene messa dentro i pericoli del mondo esterno per poterla aggredire e per evitare così la situazione di incubo-angoscia, la quale può essere considerata come l’emergenza originaria nella coscienza dell’istinto di morte[31].

 

Mentre nella paranoia «il terrificante viene messo in una realtà del mondo esterno che di solito è illusoriamente pericolosa», nella guerra «viene collocato in un nemico realmente pericoloso». Da questo punto di vista la guerra nascerebbe dal tentativo di controllare l’angoscia «in un intricato gioco di mondo interno e mondo esterno, di illusorio e di reale». Come fa notare Gabriella Giustino, per Fornari «la guerra è una modalità organizzata per mantenere l’ansia paranoica collettiva ad un livello accettabile»[32].

La dimensione cui intendo fare riferimento e che ho voluto introdurre citando questo scritto di Fornari specificamente dedicato alla guerra è appunto la paranoia. L’universo della “paranoia” non comprende solo lo specifico disturbo mentale un tempo così chiamato – ed oggi malamente ricompreso nei “disturbi deliranti”[33]. Piuttosto, specie su di un piano psicodinamico, appare proficua la dizione, d’ordine più generale, di posizione paranoica ad indicare una disposizione dello psichico sempre disponibile, che ora funziona in modo silenzioso, magari rimanendo sullo sfondo come costituente significativo della personalità, ora emerge in primo piano connotando molteplici quadri clinici sia con carattere di stabilità, che di più o meno fugace reattività, ora infine esplode in modo irrazionale come fenomeno sociale sulla base di una (deliberata o impulsiva) manipolazione delle coscienze. Per indicare questa ubiquitarietà della paranoia opportunamente Callieri e Maci parlano di disposizione antropologica[34].

Si è detto posizione e non struttura, in quanto questa implicherebbe una sorta di fissità, di rigidità strutturale, da intendere invece – laddove si manifesti – come l’esito, quand’anche definitivo, di un processo che dalla posizione conduce al disturbo. Ma quali possano essere considerate le categorie basilari della posizione paranoica?

In primo luogo, la certezza, che già Federn aveva segnalato come caratteristica differenziale rispetto alla “falsa realtà” della schizofrenia[35]. Dalla certezza discende l’onnipotenza (con rinforzo vicendevole), e da ambedue, come loro epifenomeno, la fede[36]. Forse proprio qui risiede il “perturbante” della paranoia, in quanto proprio la “fede” ne sancisce non solo le limitate possibilità di cura, ma anche la sua intima vicinanza alla norma. Il confine sottile e incerto tra la fede paranoica e la fede come dimensione costitutiva e ineludibile dello psichismo umano, anche in forme bizzarre e contrarie alla logica, giustifica la facile trasmissibilità e l’enorme potenziale di minaccia della posizione paranoide. A ragione Inglese coglie alla base della paranoia, del totalitarismo e dell’ideologia uno stesso modello di pensiero, caratterizzato dall’organizzarsi secondo un principio di logica indefettibile[37]. Potrebbe risultare non improprio il riferimento a un concetto (purtroppo) fondamentale per ripercorrere la storia del Novecento: la “banalità del male” di Arendt. Dietro l’uomo qualunque che si trasforma in un efferato criminale, si potrebbe cogliere proprio una posizione paranoica che da sottofondo, se insidiosamente sollecitata, si pone in primo piano, con sconvolgimento della complessiva struttura mentale dell’individuo. Questi talora può avere solo una consapevolezza parziale e transitoria del significato e degli esiti delle proprie azioni (come forse nel caso Eichman), oppure può aderire in forma piena e efferata agli impulsi di odio e distruttività, di cui la paranoia fornisce una giustificazione: in tal caso ci si discosta dall’ambito della “banalità del male” per calarsi in quello delle perversioni, sinistramente utilizzate a scopo socio politico[38].

E’ la traduzione in perversione che rimanda in modo diretto al rapporto tra la paranoia e la pulsione di morte. Se qualcosa “condanna” la posizione paranoica rispetto a quella depressiva, pur consapevoli della utilità che ambedue possono presentare (in contesti differenziati), è il fatto che la prima, se slegata dalle altre, può presentarsi come una “cultura pura” della pulsione di morte, con cui condivide spesso l’indifferenziazione dell’oggetto bersaglio che, per un funzionamento ipertrofico e nel contempo anomalo della proiezione, può risultare tanto interno quanto esterno.

 

4. Il destino della pulsione di morte nella teoria psicoanalitica

 

Si è sopra notato, a conclusione del primo paragrafo, come la riflessione ricoeuriana anticipi certi sviluppi della pulsione di morte in ambito psicoanalitico segnalando come essa, coniugata con la negazione, possa aprire le porte all’estetica e alla simbolizzazione, e nel contempo evidenziandone una contraddittoria complessità. Destinando alla conclusione una rivisitazione del primo aspetto, si vuole ora evidenziare come rimanga qualcosa di davvero perturbante e ancora inesplorato nel legame tra queste diverse e eterogenee dimensioni di Thanatos! Quando Freud passa dal principio del Nirvana alle pulsioni di odio e distruttività rimaniamo sì insoddisfatti sul piano concettuale di questo mélange di concetti così lontani tra loro (come lui stesso del resto), ma tuttavia intuiamo che una qualche connessione deve pur esserci.

Tenuto conto di questa inquietudine con cui la psicoanalisi non ha mai smesso di fare i conti, come potremmo descrivere le trasformazioni che ha subito all’interno dei suoi più recenti sviluppi la pulsione di morte? Con un cammino per certi versi a ritroso rispetto a quello freudiano, alcuni autori sono tornati a valorizzare non tanto l’aspetto distruttivo (di cui forse nel Compendio si era un po’ venuto a perdere l’aspetto derivato) ma proprio quel principio del Nirvana che qualche anno più tardi Ferenczi declinerà nei termini di «ritorno all’Oceano abbandonato»[39].

Su questa linea, agli antipodi di quella kleiniana-bioniana che correla pulsione di morte e attacco al pensiero, pare così collocarsi un recente contributo di due psicoanalisti scandinavi, Ikonen e Rechardt, che nei loro lavori e nel volume che li raccoglie descrivono Thanatos come una tendenza a ridurre le tensioni e come aspirazione verso la pace[40], criticando nel contempo – come notano Kristainsen, Opdal e Ibsens[41] – l’assunto freudiano che le principali manifestazioni della pulsione di morte siano l’aggressività e la distruttività, che ne rimangono piuttosto solo una delle tante possibili espressioni. Essi giungono a vedere in Thanatos una pulsione che tende a legare (esattamente la funzione che Freud attribuiva piuttosto a Eros) anziché una forza disgregativa e slegante, come nella teoria kleiniana e in parte anche in quella freudiana.

Ma forse ai fini di una riflessione centrata sul tema della guerra appare più pertinente proprio la teoria kleiniana, al cui interno si inserisce la riflessione di Fornari di cui sopra. Come noto la Klein non solo accetta pienamente la pulsione di morte ma ne evidenzia – rimanendo in linea con l’ultimo Freud – lo stretto legame con l’aggressività. Ciò non significa che anche all’interno di tale orizzonte teorico non si siano posti dei distinguo. Nel ripercorrerlo, Bell suggerisce che la pulsione di morte si attui attraverso tre diversi processi: «atti violenti di distruzione», «il fascino seduttivo di un mondo di non pensiero», che più direttamente rimanderebbe al principio del Nirvana cui Freud si richiama, e infine «il controllo sadico degli oggetti» che vengono mantenuti in uno stato di paralisi[42]. Il primo di questi processi si sviluppa nei confronti dell’esterno e degli altri come distruttività, ma ha anche un corrispettivo interno che si traduce in un odio per il pensiero, studiato in particolare da Bion e da lui denominato “-K”[43]. Ciò a partire appunto dal contributo di Melanie Klein per cui «la deflessione della pulsione di morte crea un mondo persecutorio che diventa la base della proiezione», configurandosi «una dialettica infinita di distruzione che non può avere fine, dal momento che ogni oggetto attaccato riemerge come persecutore»[44].

«Sembrerebbe – prosegue l’autore – che Klein, Segal e Bion si soffermino maggiormente sull’attacco palese e violento, sulla distruzione degli oggetti buoni e della capacità di pensare». Dunque «la pulsione di morte si configura come piacere sia dell’annientamento (l’eccitazione della guerra) sia della distruzione della funzione del pensare\percepire, che potrebbe fungere da frenoa queste attività mortifere»[45].

Questo consente all’autore di cogliere una corrispondenza «tra l’opera di Arendt e il pensiero contemporaneo sulla pulsione di morte», visto che l’autrice molto ha enfatizzato come alla base dell’operato di Eichmann, e più in generale alla base della banalità del male, vi sia proprio una assenza di pensiero[46].

Una terza linea di pensiero, che si differenzia a sua volta dalle precedenti, è quella della psicoanalisi francese, che con André Green correla pulsione di morte e «lavoro del negativo»[47]. Sempre in Francia, già in anni precedenti Piera Aulagnier aveva colto la pulsione di morte come un «desiderio di non desiderio», un «impensabile prima»:

 

Questa tendenza regressiva – precisa l’Autrice — verso un impossibile prima è quello che chiamiamo Thanatos. Non è la morte, così come la concepisce il discorso, ad essere desiderata, ma quel prima impensabile per il discorso: il prima della vita, il prima di un desiderio[48].

 

Ecco dunque ribadita la possibilità di cogliere nella pulsione di morte una dimensione di irrappresentabilità che tuttavia, se coniugata con il senso e la rappresentazione, può effettivamente aprire al simbolico, come suggeriva Ricoeur.

Sempre all’incrocio tra psicoanalisi e filosofia, il rapporto tra Thanatos e il simbolico può allora rideclinarsi come rapporto tra la significazione e il caos originario: «L’umanità emerge dal Caos, dall’Abisso, dal Senza-Fondo. Ne emerge come psiche (…) l’umanità si costituisce facendo sorgere la questione della significazione e fornendole fin dall’inizio risposte»[49]; dunque «la storia è ciò in cui e attraverso cui emerge il senso»[50].

A fronte del primario e dell’originario (il vuoto, il caos, Thanatos) ecco il secondario: l’emergere del senso. Questo magmatico “prima” rimanda anche ad una particolare dimensione dell’inconscio, che ho chiamato “irrappresentabile”[51], dove il pensiero non si è ancora costituito e le emozioni e le sensazioni sono ancora informi e indefinite. Questa dimensione di irrappresentabilità è stata forse inizialmente segnata fortemente dalla pulsione di morte, per poi però svincolarsene pur inglobandola al suo interno.

Questo dualismo pulsionale, ontologico (ed etico!) è compatibile con una visione dell’inconscio, ma più in generale dello “spazio mentale”, suddiviso in un’area dell’irrappresentabile e un’area della rappresentazione. La prima è il regno del caos: abitato dalle emozioni informi, dalle sensazioni magmatiche, è insieme lo spazio della creatività, la matrice da cui prende forma il simbolico, ma anche il luogo ove si insediano la pulsione di morte e l’angoscia di morte.

Anche questi due concetti – come già Eros e Thanatos – oppositivi e stridenti all’apparenza, sono tuttavia, come bene vide la Klein, strettamente correlati. Dobbiamo però immaginare l’angoscia di morte non tanto come connotata da un contenuto, da una rappresentazione, bensì , in primis, come una angoscia sostanzialmente indefinita che si esprime nella paura di «dissolversi in uno spazio senza limiti e senza forma» (così Ogden descrive l’angoscia“contiguo autistica”)[52].

 

5. La pulsione di morte oggi: categoria esplicativa (e non solo) della attuale violenza bellica

 

L’incessante, continuo, ma sterile rimando tra angoscia e pulsione di morte può risolversi, o per lo meno mitigarsi, attraverso l’ingresso nell’area della rappresentazione, ingresso che consente di contrapporre al gioco perverso di prima, una intesa dialettica tra il rappresentabile e l’irrappresentabile. Ecco allora emergere, secondariamente e per così dire “difensivamente”, quelle tre “pulsioni”, di paritetica dignità, per loro natura idonee a legarsi alla rappresentazione: la pulsione sessuale, la pulsione epistemofilica e la pulsione relazionale.

Da questo punto di vista possiamo immaginare (vedasi schema) un’area dell’inconscio irrappresentabile sede delle pulsioni “primarie”: emozioni impensabili che si sviluppano in modo caotico, tendono all’indifferenziato (a Thanatos) e che, quando incontrano il pensiero senza la mediazione di un contenimento affettivo, creano una sorta di corto circuito che le fa volgere in delirio o in angoscia incontenibile. L’area della rappresentazione, in parte inconscia, in parte conscia, è invece la sede di quelle pulsioni “secondarie” (in quanto reattive alle prime) che consentono l’organizzazione del senso e della significazione attraverso una mediazione che è innanzi tutto sensoriale e corporea. Le pulsioni che entrano in gioco in questa opposizione al caos e a Thanatos sono tre:in primo luogo quella sessuale, che l’essere umano condivide col mondo animale ma che si “complica” proprio per quel legame con la rappresentazione di cui l’Edipo è l’esempio più significativo; la seconda è la pulsione epistemofilica che in un qualche modo si distanzia dal corpo esitando in una sostituzione del piacere d’organo col piacere della conoscenza; la terza è la pulsione relazionale, più direttamente connessa col mondo dei sentimenti e col sistema delle cure primarie, tale per cui risulta particolarmente stretto il suo vincolo tanto al corpo quanto, nel contempo, ai sistemi di significazione. Colte nel loro insieme, e nella loro interdipendenza, queste tre pulsioni erigono una barriera contro Thanathos e spingono verso il primato della rappresentazione, la cui acquisizione non può tuttavia rendere dimentichi del primario della pulsione di morte.

 

Ecco perché, da un vertice psicoanalitico, possiamo affermare che Thanatos è originario, ma può non essere radicale[53]: può non esserlo nel momento in cui entra in un gioco dialettico con le pulsioni di vita, che lo spingono verso l’area della rappresentazione e del simbolico[54].

Quali conseguenze su di un piano etico?

Questa posizione riconosce che nell’uomo c’è un fondo caotico biologico-pulsionale-emozionale, correlato con il non senso e l’irrappresentabile, e forse anche con una sperequazione tra la dimensione emozionale e quella cognitiva, da cui come derivato più immediato (ma è già un derivato!) può emergere il male. A fronte di ciò si istituisce una strenua lotta, che è psicologica, storica e sociale, che mette in campo le pulsioni di vita (secondarie). Da questa lotta possono emergere il bene e la costruzione di senso (il senso storico, l’etica, l’arte, ma anche la costruzione dei significati psicologici di cui si occupa la psicoanalisi).

I punti “forti” di questa posizione sono sostanzialmente due. Il primo ci consente di vedere in termini prospettici e come frutto del lavoro dell’uomo quanto (la ricerca del senso e del bene) non può avere alcuna garanzia a priori. E’ un appello alla forza della ragione, la cui voce, all’apparenza fioca, non smette mai di interpellarci, come ricordava lo stesso Freud. E’ una visione, per inciso, compatibile tanto con una concezione ateista quanto religiosa dell’esistenza, le quali ambedue possono prevedere un forte richiamo all’idea di libero arbitrio, di decisionalità e di pro-getto, su cui anche la psicoanalisi poggia. Ontologicamente non si può che procedere dal nulla verso l’essere: alle nostre spalle vi è caos, vuoto, e se vi era un Paradiso terrestre, questo è stato per sempre perduto.

Il secondo punto verte sul carattere incessante del conflitto tra Eros e Thanatos. Questo spiega in parte la difficoltà ad accettare, tanto da parte dei detrattori che dei sostenitori della psicoanalisi, l’idea di pulsione di morte (è questa, anche agli occhi dei contemporanei, la vera “peste” che essa minaccia di diffondere!). La lotta tra il senso e il non senso, tra il bene e il male non ha mai fine: in fondo non ha molta importanza quale sia l’originario, quanto il fatto che il bene e il male possono ambedue essere radicali!

Sul terreno della psicoanalisi questo significa che il confronto tra il senso e il non senso non ha mai un esito definito: il non senso, l’irrappresentabile infiltra sempre il senso nelle sue varie declinazioni: rappresentazioni, narrazioni, traduzioni, etc. Torniamo come si vede al punto, così fondamentale, già affrontato sopra, ma per ribadire ancora una volta come questa lotta possa essere intesa in termini dialettici: allora l’irrappresentabile non sarà più solamente una minaccia, ma qualcosa che può arricchire il senso già dispiegato per aprirlo verso il non detto, il non ancora e il simbolico.

Infine, sul piano dell’esistenza, la primarietà di Thanatos può tradursi nel sostenere che l’heideggeriano “essere per la morte” e il ricoeuriano “essere per la vita” sono posizioni che non possono elidersi, non possono reciprocamente sconfiggersi in modo definitivo, ma sono piuttosto destinate – alcuni direbbero condannate – alla coabitazione[55].

Potremmo allora porre, al pari del dualismo freudiano tra Eros e Thanatos, una sorta di dualismo ontologico tra le due posizioni sopra citate e ammettere che, come suggeriva Freud a proposito del disimpasto pulsionale, anche qui se l’ essere per la morte si svincola dal vivo fino alla morte esso può condurre, per strade segrete e inesplorate ma tuttavia possibili, sino al male assoluto, sino all’orrore, sino ai campi di concentramento nazisti! Vorrei insomma proporre l’idea che tanto su di un piano psicologico individuale, quanto storico collettivo, la minaccia provenga non da Thanatos o dall’essere per la morte di per sé, quanto dal loro svincolarsi dal proprio opposto: venendo meno la tensione dialettica che li lega, l’originario può purtroppo trasformarsi in radicale.

 

[1] C. Musatti, Introduzione, in S. Freud, Opere, vol.8, Boringhieri, Milano, 1976, p. IX.

[2] Ivi, pp. IX-X.

[3] S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, (1915), in Opere, cit., p. 29.

[4] Ivi, p. 134.

[5] Ivi, p. 135.

[6] S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, in Opere, cit., p. 147.

[7] S. Freud, Perché la guerra? (Carteggio con Einstein), 1932, in Opere, cit., p. 289.

[8] Ivi, p. 300.

[9] Ivi, p. 301.

[10] Ivi, p. 303.

[11] Ivi, p. 297.

[12] Ivi, p. 299.

[13] S. Freud, Al di là del principio del piacere, 1920, in Opere, cit.

[14] R. Jarast, Freud y la Gran Guerra, «Revista de psicoanàlisis», n. 73, 2014, pp. 11-29.

[15] J. Laplanche, J.B. Pontalis, Enciclopedia della psicanalisi, Laterza, Bari, 1967, pp. 464-465.

[16] In realtà, la strada seguita da Freud in quest’opera è alquanto complessa, se non tortuosa. Inizialmente infatti egli parte con «l’ipotesi che nella vita psichica esiste davvero una coazione a ripetere la quale si afferma anche a prescindere dal principio del piacere». (Cfr. S. Freud, Al di là del principio del piacere, cit., p. 209), insomma «una coazione a ripetere che ci appare più originaria, più elementare, più pulsionale di quel principio di piacere di cui non tiene alcun conto» (Ibidem); poi, pur ribadendo il carattere dualistico della propria concezione, in opposizione al monismo di Jung, (Ivi, p. 328), riconosce che «se non vogliamo abbandonare l’ipotesi delle pulsioni di morte, dobbiamo supporre che fin dall’inizio esse siano associate alle pulsioni di vita» (Ivi, p. 242). Di qui infine, nelle ultime pagine, l’ipotesi, ancora più ardita, di un principio del piacere “al servizio” delle pulsioni di morte.

[17] Come noto del nirvana buddista parla anche Schopenauer. Il filosofo è spesso citato da Freud e in particolare, nell’opera del 1920, a rinforzo della introduzione della pulsione di morte: «improvvisamente ci accorgiamo di essere approdati nel porto della filosofia di Schopenauer», per il quale la morte è «il vero e proprio risultato, e, come tale, scopo della vita’, mentre la bramosia sessuale è l’incarnazione della volontà di vivere» (Cfr. S. Freud, Al di là del principio del piacere, cit., p.235). La citazione è tratta dai Parerga e Paralipomena, ma forse per meglio evidenziare la correlazione che nel filosofo tedesco lega la volontà di vivere con riferimento alla specie e la morte con riferimento al singolo individuo, il testo di elezione è piuttosto Il mondo come volontà e rappresentazione, (vol. II cap.44, cfr. A. Schopenauer, Metafisica dell’amore sessuale, 1844, Rizzoli, edizione digitale, Milano, 2011): «Solo la specie ha una vita infinita ed è quindi capace di desideri infiniti, di infinito appagamento e di infiniti dolori. Qui, però, questo infinito è imprigionato nel petto angusto di un mortale» (Ivi, pos. 1297). Altrove il filosofo (Ivi, pos.1455) parla della «indistruttibilità dell’essere in sé dell’uomo, essere in sé che continua a vivere, come tale, in quella generazione futura». Nel capitolo successivo Schopenauer definisce “volontà di vita” «ciò che brama tanto insistentemente di vivere e di durare» e introduce il nirvana buddista in correlazione col rinnegamento della volontà di vivere: la volontà di vivere «è appunto questo che viene risparmiato e resta immune dalla morte. Ma non è neppure possibile, per la volontà di vivere, uno stato migliore di quello presente: quindi per essa resta sicuro, insieme con la vita, il continuo soffrire e morire degli individui. La liberazione da ciò è riservata al rinnegamento della volontà di vivere, mediante il quale la volontà individuale si strappa dal tronco della specie e rinuncia alla sua esistenza in essa. Per dire che cosa essa poi sarà, ci mancano i concetti, anzi tutti i dati. Possiamo solo indicarla come ciò che ha la libertà di essere o di non essere volontà di vivere. Nell’ultimo caso, il buddhismo la indica con la parola nirvana» (Ivi, pos. 1438). Parrebbe dunque che per il filosofo la naturale tendenza alla morte del singolo organismo (che può rinviare alla pulsione di morte freudiana) – e che in certi casi può esprimersi anche come un esporsi alla morte nella ricerca del soddisfacimento sessuale tanto tra gli animali che tra gli uomini – sia intesa come posta al servizio della volontà di vivere della specie: cfr. anche cap. 45 pos.1723: «Se la volontà di vivere si presentasse solamente come istinto di conservazione, allora ciò sarebbe solo un’affermazione del fenomeno individuale (…) Ma siccome la volontà vuole la vita incondizionatamente e per tutti i tempi, essa si presenta anche come istinto sessuale che mira a una serie infinita di generazioni. Questo istinto, portando nella coscienza inquietudine e malinconia, e riempiendo la vita di sventure, di preoccupazioni e di bisogni, annulla quella spensieratezza, quella serenità e quella innocenza che accompagnerebbero una esistenza puramente individuale».

[18] S. Freud, Al di là del principio del piacere, cit., p. 241.

[19] Ivi, p. 248.

[20] Ivi, p. 249.

[21] S. Freud, Analisi terminabile e interminabile, 1937, in Opere, cit., p.525 ed.it., sottolin. mia. Ed aggiunge: «Non si tratta di contrapporre due concezioni, una ottimistica e una pessimistica della vita; soltanto la cooperazione e il contrasto di entrambe le pulsioni originarie, l’Eros e la pulsione di morte, e mai l’azione di una sola di esse, può spiegare le variopinte manifestazioni dell’esistenza» (Ivi, p.526).

[22] Ivi, p.529

[23] S. Freud, Compendio di psicoanalisi, 1938, in Opere, cit., p. 576.

[24] M.S. Bergmann, The Dual Impact of Freud’s death Instinct Theory on the History of Psychoanalysis, «Psychoanalytic Review», 98 (5), 2011, pp. 670-671.

[25] In realtà “pulsioni” e non “istinti”, ma nella traduzione italiana di Della interpretazione è adottata la seconda dizione, che oggi riconosciamo non appropriata. Cfr. P. Ricoeur, Della interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano, 1967.

[26] Ivi, pp. 348-349, sottolin.mia.

[27] Ivi, p. 349.

[28] Ivi, p. 352.

[29] F. Fornari, Psicoanalisi della guerra, 1966, Feltrinelli, Milano.

[30] Ivi, p. 11.

[31] Ivi, p. 13.

[32] G. Giustino, Odio, violenza, distruttività: il terrorismo suicida. Alcuni contributi psicoanalitici su guerra e terrorismo, «Rivista Psicoanalitica», 55 (3), 2009, p. 789.

[33] AA.VV., Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, DSM 5, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015.

[34] B. Callieri, C. Maci, (a cura di), Paranoia. Passione e ragione, Anicia, Roma, 2008.

[35] P. Federn, Psicosi e psicologia dell’Io, Boringhieri, Torino, 1976.

[36] G. Martini, La psicosi e la rappresentazione, Borla, Roma, 2011.

[37] S. Inglese, Anche Hitler accarezzava i bambini: lineamenti paranoicali del terrorismo totalitario, in Paranoia. Passione e ragione, cit., pp. 420-423.

[38] Un film che tocca apertamente questo aspetto con riferimento alla dittatura argentina, sia pure a latere del contesto narrativo principale, è Il segreto dei tuoi occhi di L. Campanella (2009).

[39] Bisogna anche rammentare che sempre Ferenczi, in un lavoro del 1929, provvede a trasformare «la teoria della pulsione di morte di Freud da una speculazione metapsicologica a una entità clinica» inquadrandola inoltre nell’ambito di una teoria delle relazioni oggettuali (M.S. Bergmann, The Dual Impact of Freud’s death, cit., p. 678).

[40] «Thanatos is (…) an ostinate, continual, inexorable striving inerhant in man towards experiecing peace and relief» (Cfr. P. Ikonen, E. Rechardt, Thanatos, Shame, and other Essays: On the psychology of Destructiveness, Karnac, London, 2010, p.33).

[41] S. Kristiansen, L.C. Opdal, H. Ibsens, in Thanatos, Shame, and other Essays, cit., p. 411.

[42] D. Bell, La pulsione di morte: prospettive nella teoria kleiniana contemporanea, «Rivista Psicoanalitica», 54(3), 2008, p. 724.

[43] W. Bion, Trasformazioni. Il passaggio dall’apprendimento alla crescita, Armando, Roma, 1973.

[44] D. Bell, La pulsione di morte, cit., p. 711.

[45] Ibidem.

[46] «Gli atti di genocidio danno espressione alla pulsione di morte nel senso di attività manifesta, ma i presupposti di tali fenomeni discendono dall’annientamento più insidioso della capacità di ‘pensare’ che crea un mondo incurante, un terribile vuoto morale in cui può imperversare la distruzione libera da qualsiasi impedimento » (Cfr. D. Bell, La pulsione di morte, cit., p.722).

[47] A. Green, Idee per una psicoanalisi contemporanea, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004.

[48] P. Aulagnier, La violenza dell’interpretazione, Borla, Roma 1994, p. 95.

[49] C. Castoriadis, L’enigma del soggetto, Dedalo, Bari, 1998, p. 22.

[50] Ivi, p. 14.

[51] G. Martini, Ermeneutica e Narrazione. Un percorso tra Psichiatria e Psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino, 1998.

[52] T.H. Ogden, Il limite primigenio dell’esperienza, Astrolabio, Roma, 1992.

[53] Ciò è esattamente all’opposto di quanto Ricoeur sostiene a proposito del male, ma male e pulsione di morte non sono affatto equiparabili!

[54] G. Martini, Thanatos è originario?, cit.

[55] P. Ricoeur, Vivo fino alla morte seguito da Frammenti, (tit. orig. Vivant jusqu’à la mort), Effatà Editrice, Cantalupa, 2008.