Indice: 1. Tra umanizzazione e disumanizzazione • 2. Angoscia e libertà • 3. La risorsa del possibile • 4. Angoscia e crisi della presenza • 5. Angoscia e rimozione • 6. Angoscia e “principio di individuazione” • 7. Il principio-angoscia • 8. «Coraggio di aver paura».
[S]olo se ci sdraiamo per terra tra gli animali possiamo vedere le stelle che ci salvano dall’angoscia dell’uomo. (E. Canetti, La coscienza delle parole)
1. Tra umanizzazione e disumanizzazione
Secondo il sociologo tedesco Norbert Elias (1897-1990), le trasformazioni del comportamento umano, nel senso della civilizzazione, possono essere comprese solo a una condizione: a patto di saper individuare il mutamento nella struttura delle angosce cui esse si ricollegano. Le angosce fungono così da referenti primi per guadagnare un’intelligenza dei principi che governano la dinamica delle trasformazioni sociali, in virtù del fatto che si dà un nesso strettissimo fra il profilo individuale di esse e i processi collettivi di civilizzazione.
[L]a struttura delle angosce non è che la controparte psichica delle costrizioni che gli uomini esercitano gli uni sugli altri, in forza della loro interdipendenza sociale. Le angosce costituiscono uno dei canali di collegamento piu importanti attraverso i quali la struttura della società si trasmette alle funzioni psichiche dell’individuo. […] [L]’intensità, la forma e la struttura delle angosce che covano o esplodono nell’individuo non dipendono mai soltanto dalla sua natura umana e, soprattutto nelle società più differenziate, non dipendono mai dalla natura in seno alla quale egli vive; in ultima analisi, sono sempre determinate dalla storia e dalla struttura effettiva dei suoi rapporti con i suoi simili, dalla struttura della sua società, trasformandosi con essa1.
Elias pensa di aver individuato così una chiave indispensabile per indagare su tutti quei problemi che si originano dalla regolamentazione del comportamento e dal codice sociale delle prescrizioni e dei divieti. Nessuna società può esistere, infatti, se non irreggimenta le pulsioni e gli affetti individuali, ossia se non provvede a regolare in un certo modo il comportamento dei singoli individui. Cosa che è possibile solo se gli uomini esercitano gli uni sugli altri delle costrizioni: costrizioni, le quali si convertono, in chi le subisce, in angosce di un tipo o dell’altro.
Non solo. Ma – ancora più alla radice – le angosce hanno giocato un ruolo prioritario anche in senso evolutivo. Come rileva lo zoologo svizzero Heini Hediger (1908-1992), la prima cosa che la natura esige dall’animale è proprio quella di imparare a spaventarsi, nel senso che la fuga rapida e mirata davanti al pericolo è il primo dei doveri che compete alla conservazione della specie. In più, il corpo stesso dell’animale, ossia tanto i suoi organi sensoriali e di locomozione quanto tutti gli altri, sarebbe strutturato così com’è, proprio per adempiere a una tale funzione fondamentale2. Lungo questa via, il paleoantropologo tedesco Rudolf Bilz (1898-1976) è arrivato a vedere nell’angoscia, addirittura, l’anello capace di spiegare la transizione dall’animale all’uomo, ossia quel retaggio biologico che noi, consapevoli o meno, ci portiamo sempre dietro, in prospettiva onto- e filogenetica3.
Ma l’angoscia porta in sé anche una componente enigmatica: enigma che noi non riusciremo mai, completamente, a sciogliere e a decifrare. In caso di situazioni conflittuali, essa può facilmente rovesciarsi, infatti, nel suo contrario, nel senso che l’individuo che ne è affetto può arrivare ad agire «contro il proprio interesse all’autoconservazione, fino a distruggersi nel caso estremo»4.
Insomma, l’angoscia non è affatto uno stato d’animo rigido e monolitico, ma presenta un profilo altamente plastico, tant’è che due psichiatri tedeschi, Walter von Baeyer (1904-1987) e Wanda von Baeyer-Katte (1911-1997), hanno parlato di un vero e proprio «divenire dell’angoscia», riferendosi al fatto che, nel quadro di una visione antropologica globale, essa può implicare, a seconda delle circostanze, tanto una umanizzazione quanto una disumanizzazione dell’istinto.
[N]on si può elaborare uno schema dell’evoluzione dell’angoscia umana […] univoco, mentre si può sostenere la tesi di carattere generale che l’angoscia attraversi, partendo dalla sua base istintiva, un processo di umanizzazione. […] Quando parliamo della storia dello sviluppo dell’angoscia noi ci occupiamo quindi dell’«umanizzazione» di un istinto. Nel contempo però dobbiamo anche parlare delle possibilità e delle realtà delle sue «degenerazioni»5.
Ma l’angoscia è caratterizzata da un aspetto dinamico, anche in quanto, come angoscia reale, essa può essere opportunamente convertita in angoscia fantasmatica. Scrive l’etnopsicoanalista svizzero Mario Erdheim (n. 1940):
Il significato dell’angoscia per la cultura è dato dalla sua straordinaria capacità di poter essere spostata […]. Dal momento che è possibile trasformare l’angoscia reale in angoscia fantasmatica, essa diventa un materiale plastico che trova impiego nella cultura6.
E per trovare un primo esempio di tutto ciò, non abbiamo che da andare al mondo “incantato” delle fiabe, quale è stato studiato, in particolare, dallo psicoanalista austriaco Bruno Bettelheim (1903-1990). Egli muove dalla considerazione secondo cui si produce uno sviluppo difettoso della personalità nel caso in cui una componente di essa – Es, Io o Super-Io – tende a sopraffare le altre, svuotandoci così delle nostre risorse più originali. Quando, ad esempio, qualcuno vive completamente immerso nelle sue fantasie, ebbene, questi è ossessionato da «ruminazioni coatte che ruotano eternamente intorno a pochi temi angusti, stereotipati». Lungi dall’avere una vita fantastica ricca, tali persone «sono come prigioniere, e non possono sfuggire ai loro sogni ad occhi aperti ispirati dall’ansia» e, quindi, «volti al soddisfacimento immaginario di desideri frustrati».
Ora, un modo di evitare tutto ciò è offerto al bambino proprio dalle fiabe, nella misura in cui esse possono «impedire alla sua immaginazione di rimanere bloccata entro gli angusti confini delle poche fantasticherie ansiose»7. Dal momento che la psicoanalisi ha messo in luce quanto ansiosa, distruttiva o, addirittura, violenta possa essere l’immaginazione di un bambino, Bettelheim ne conclude che la frequentazione delle fiabe è proprio ciò che può aiutarlo a trasformare l’angoscia che lo attanaglia nel grande piacere di affrontarla e di dominarla con successo8.
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2. Angoscia e libertà
A questo punto, se dal bambino che vince l’angoscia passiamo all’uomo che se ne fa sopraffare, dove per angoscia si intende, propriamente, paura davanti alla libertà, ecco che siamo al libro di un altro psicoanalista, Erich Fromm (1900-1980), di nazionalità tedesca, dal titolo Fuga dalla libertà, del 1941. Qui, viene stabilito un rapporto di proporzionalità inversa fra libertà e progresso individuale, nel senso che più aumenta la prima, meno l’uomo riesce a evolvere verso la sua piena maturazione in quanto persona. In altre parole, noi abbiamo spezzato sì, nel tempo, tutte le catene che ci tenevano avvinti e in uno stato di soggezione al potere politico e al potere religioso, ma, una volta liberi da…, non siamo stati anche capaci di essere liberi di…: di diventare degli esseri singolarmente unici.
La tesi di questo libro [Fuga dalla libertà] è che l’uomo moderno, liberato dalle costrizioni della società preindividualistica, che al tempo stesso gli dava sicurezza e lo limitava, non ha raggiunto la libertà nel senso positivo di realizzazione del proprio essere: cioè di espressione delle sue potenzialità intellettuali emotive e sensuali. Pur avendogli portato indipendenza e razionalità, la libertà lo ha reso isolato e, pertanto, ansioso e impotente9.
Ed è proprio a questo punto che l’uomo mette in atto una fuga: fugge «da una situazione intollerabile» che, se si prolungasse, «renderebbe la vita impossibile». Rinunciando «all’individualità e all’integrità dell’io», prende nevroticamente una decisione che non lo porta alla felicità e alla libertà positiva, ma che gli «rende la vita possibile evitando il panico».
Dà sollievo a un’insopportabile ansietà […]; tuttavia non risolve il problema fondamentale, e viene pagata [la decisione] con un genere di vita che spesso consiste esclusivamente in attività automatiche o coatte10.
Fromm parla così dell’uomo dei nostri giorni come di colui che, cessando di «essere se stesso», «adotta in tutto e per tutto il tipo di personalità che gli viene offerto dai modelli culturali», per cui «diventa esattamente come tutti gli altri», ossia «come questi pretendono che egli sia». Ebbene, così egli definisce un tale fenomeno: un «conformismo da automi».
La persona che rinuncia al suo io individuale, e che diventa un automa, identico a milioni di altri automi che la circondano, non deve più sentirsi sola e ansiosa. Ma il prezzo che paga è alto; è la perdita del suo io11.
Qui, il richiamo di Fromm è diretto, molto chiaramente, alla vita anonima, interamente dispersa nell’esteriorità pubblica o anche detta, dal filosofo tedesco Martin Heidegger (1889-1976), dell’«esistenza inautentica»: la vita di chi, non facendosi carico della propria possibilità esistenziale più originale, anche questa volta mette in atto una fuga e, più precisamente, davanti a se stesso.
Nella prospettiva esistenziale di Heidegger, centrale è proprio la distinzione fra angoscia e paura, dove è la prima ciò che rende originariamente possibile la seconda, mentre il modo comune di vedere le cose tende ad assimilare l’una all’altra, accentuando quell’affinità fenomenica che, indubbiamente, sussiste fra di esse. In altre parole, laddove la paura ha davanti a sé un ente determinato (si ha paura sempre di un qualcosa), l’angoscia ha, invece, davanti a sé l’essere-nel-mondo in quanto tale.
Questa indeterminatezza non solo lascia del tutto indeciso da quale ente intramondano venga la minaccia, ma sta a significare che, in generale, l’ente intramondano è «irrilevante». […] Il mondo assume il carattere della più completa insignificatività. […] Perciò l’angoscia non ha occhi per «vedere» un determinato «qui» o «là» da cui si avvicina ciò che è minaccioso. […] L’angoscia non «sa» che cosa sia ciò-davanti-a-cui essa è angoscia. […] Il minaccioso […] è così vicino che ci opprime e ci mozza il fiato, ma non è in nessun luogo12.
Heidegger intende dire che, nell’angoscia, il mondo, perdendo la sua completa significatività, sprofonda in un abisso, in un vuoto, in un “nulla” di senso, così che noi, chiamati a riappropriarci del nostro sé più autentico, ci riscopriamo in ciò che originariamente siamo: un dischiudentesi poter-essere all’interno di esso, un essere-liberi di scegliere e di possedere se stessi. Heidegger poi aggiunge che, quando l’angoscia è dileguata, si usa dire, comunemente, che «essa, in realtà, era un nulla». Giudizio che, in qualche modo, «coglie nel segno», perché ciò davanti a cui l’angoscia è tale, «è nulla di utilizzabile nel mondo […], è l’essere-nel-mondo stesso». Ne discende che l’angoscia, in quanto situazione emotiva, è ciò che «apre primariamente il mondo in quanto mondo»13.
L’angoscia costituisce così «una situazione emotiva del tutto singolare»14, nel senso che, se è vero che ogni situazione emotiva «porta certamente con sé l’apertura dell’essere-nel-mondo in tutti i suoi momenti costitutivi», è nondimeno vero che essa dispone della «possibilità di un’apertura privilegiata per il fatto che isola». Il che vuol dire che l’angoscia, proprio perché dischiude davanti ai nostri occhi lo scenario del mondo, ci consegna a noi stessi come esseri originariamente “spaesati”, tali che dobbiamo guadagnare faticosamente la condizione di sentirci da qualche parte a casa nostra.
Dal punto di vista ontologico-esistenziale, il non sentirsi-a-casa-propria deve esser concepito come il fenomeno più originario15.
E proprio per superare la nostra condizione originaria di “spaesamento”, noi, tendendo a farlo senza spendere troppa fatica, finiamo per identificarci con il modo pubblico e del tutto esteriore di condurre la vita.
Heidegger ritorna sulla distinzione fra angoscia e paura, nonché sul fatto che la prima, provocando su di noi un effetto di “spaesamento”, ci porta a sporgere sull’abisso del “nulla”, anche in un’altra sua opera, successiva a Essere e tempo. Ecco il passo che ci interessa:
L’angoscia è fondamentalmente diversa dalla paura. Noi abbiamo paura sempre di questo o di quell’ente determinato, che in questo o in quel determinato riguardo ci minaccia. La paura di… è sempre anche paura per qualcosa di determinato. […] [Anche] l’angoscia è sempre angoscia di…, è sempre angoscia per…, ma non per questo o per quello. Tuttavia, l’indeterminatezza di ciò di cui e per cui ci angosciamo non è un mero difetto di determinatezza, bensì l’essenziale impossibilità della determinatezza. […] Nell’angoscia, noi diciamo, «uno è spaesato». Ma dinanzi a che cosa v’è lo spaesamento e cosa vuol dire quell’«uno»? Non possiamo dire dinanzi a che cosa uno è spaesato, perché lo è nell’insieme. […] Non rimane nessun sostegno. Nel dileguarsi dell’ente, rimane soltanto e ci soprassale questo «nessuno». L’angoscia rivela il niente. Noi siamo sospesi nell’angoscia. O meglio, è l’angoscia che ci lascia sospesi, perché fa dileguare l’ente nella sua totalità16.
In aggiunta a tutto ciò, vogliamo solo ricordare come questa distinzione fra angoscia e paura abbia trovato una conferma “neuroscientifica” nella riflessione dello studioso americano del settore Joseph LeDoux (n. 1949), per il quale, mentre la seconda ha un oggetto determinato ed è orientata verso il presente, la prima non ha un oggetto determinato, è orientata verso il futuro ed è molto più complessa della precedente. E questo perché l’angoscia ha a che fare essenzialmente con la libertà: è il prezzo che dobbiamo pagare al fatto di avere una coscienza di noi stessi e della nostra storia. È il costo dell’avere un cervello che può immaginare il futuro: un cervello capace di ipotizzare che cosa può accadere e accaderci17.
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3. La risorsa del possibile
La distinzione fra angoscia e paura, così come la caratterizzazione della prima come ciò che ci fa mancare, letteralmente, il terreno sotto ai piedi è comune anche a quello che, insieme con Heidegger, è l’altro grande filosofo tedesco dell’esistenza: Karl Jaspers (1883-1969). Egli ricomprende l’angoscia, nella sua connotazione non semplicemente vitale, ma esistenziale, nel novero di quelle che egli chiama «situazioni-limite». Esse, come, ad esempio, la colpa, la morte, il dolore, sono tali che, mettendo l’uomo di fronte alla finitezza della sua esistenza, fanno sì che egli sviluppi, al tempo stesso, la coscienza che c’è un qualcosa che la trascende. In tal senso, finché c’è l’angoscia, «c’è per l’uomo una possibilità». Ragione per cui essa «è da approvare. È motivo di speranza»18.
Abbiamo notato come Heidegger e Jaspers facciano ricorso, puntualmente, al concetto di “possibilità”. Ebbene, questo è un retaggio che viene loro dal padre dell’esistenzialismo: il filosofo danese Søren Kierkegaard (1813-1855), il quale non solo vede la categoria di possibilità come costituiva del nostro rapporto con il mondo, ma qualifica l’angoscia proprio come il sentimento del possibile, ossia come quella condizione esistenziale in cui noi sperimentiamo la «vertigine della libertà»19: libertà, la quale viene definita, a sua volta, proprio come una «possibilità per la possibilità».
Perciò non si troverà l’angoscia nell’animale – prosegue Kierkegaard – precisamente perché esso, nella sua realtà naturale, non è determinato come spirito20.
L’angoscia può essere definita, inoltre, come l’“inquietudine del finito”, in quanto è solo a partire da essa che si apre davanti a noi l’orizzonte della salvezza. Oltre al suicidio, che però è una negazione della possibilità, l’altra via di uscita dall’angoscia è, infatti, la provvidenza della fede, con la quale, affidandoci a Dio, noi andiamo all’origine della stessa possibilità.
L’angoscia è la possibilità della libertà; soltanto quest’angoscia ha, mediante la fede, la capacità di formare assolutamente, in quanto distrugge tutte le finitezze scoprendo tutte le loro illusioni. […] Ma perché un individuo sia formato così assolutamente e infinitamente mediante la possibilità, egli dev’essere sincero di fronte alla possibilità e deve avere fede21.
Ora, questo riferimento alla fede ci riconduce al progetto, intrapreso dal teologo svizzero Hans Urs von Balthasar (1905-1988), di tracciare i lineamenti di una vera e propria «teologia dell’angoscia». Egli parla, infatti, di un’«angoscia cristiana», connessa al peccato, da cui l’uomo si può redimere solo se, aprendosi alla redenzione e alla sue condizioni, si procura l’accesso a Dio, nella fede, speranza e carità. Ma, in quanto «siamo peccatori e possiamo sempre nuovamente diventarlo anche come credenti», noi ci lasciamo veramente alle spalle l’angoscia del peccato soltanto se la fede di cui ci appropriamo è «viva, cioè operante nella nostra vita», la quale ci è stata «offerta a partire dalla croce»22.
Von Balthasar, nella sua «teologia dell’angoscia», ha avuto come punto di riferimento, ovviamente, Kierkegaard, al quale ora ci richiamiamo nuovamente, perché ha esercitato un’influenza su un altro filosofo di matrice esistenziale, oltre ad Heidegger e Jaspers: Jean-Paul Sartre (1905-1980), di nazionalità francese. Anche in lui, infatti, l’angoscia si misura con il possibile, ossia con la libertà di scelta: possibile, il quale, dal momento che è un qualcosa di indeterminato, propriamente, non è. In tal senso, per il solo fatto che noi abbiamo coscienza dei motivi che sollecitano la nostra azione, questi motivi sono già oggetti che la trascendono, sono già fuori di essa. L’uomo si scopre così come “condannato” ad esistere sempre al di là della sua essenza, come votato a un continuo trascendimento di ciò che egli, di volta in volta, è. In una formula: come «condannato ad essere libero».
Sono condannato a vivere sempre al di là della mia essenza, al di là dei moventi e dei motivi del mio atto; sono condannato ad essere libero. Ciò vorrebbe significare che non si troverebbero alla mia libertà altri confini all’infuori di se stessa o, se lo si preferisce, significherebbe che noi siamo liberi di essere liberi23.
Ma Sartre ci ha dato una raffigurazione dell’angoscia anche come nausea. E questo nel romanzo La nausea, del 1938. Qui, il protagonista è affetto da attacchi che presentano una vera e propria sintomatologia psicopatologica: prova un senso di malessere e di disgusto suscitatogli dalle cose che lo circondano, nella misura in cui sente che invadono in modo soffocante il suo spazio vitale. Celebre è la scena in cui egli, trovandosi in un giardino pubblico e osservando le radici di un albero, pensa di avere un’illuminazione relativa all’orrore di esistere e all’insensatezza di tutte le cose.
[S]ono al giardino pubblico. Mi lascio cadere su una panchina tra i grandi tronchi neri, tra le mani nere e nodose che si tendono verso il cielo. Un albero gratta la terra sotto i miei piedi con un’unghia nera. Vorrei tanto lasciarmi andare, dimenticarmi, dormire. Ma non posso, soffoco: l’esistenza penetra da tutte le parti, dagli occhi, dal naso, dalla bocca. E d’un tratto, d’un sol tratto, il velo si squarcia, ho compreso, ho visto24.
4. Angoscia e crisi della presenza
Il richiamo, appena fatto, ai risvolti psicopatologici dell’angoscia, ci spinge a muoverci, ora, esattamente in questa direzione. Ebbene, partiamo da una riflessione dello psichiatra tedesco Viktor Emil von Gebsattel (1883-1976), a cui dobbiamo l’abbozzo di un’antropologia dell’angoscia: una riflessione proprio di questi tempi attualissima.
L’angoscia ha cessato di essere una questione privata che riguarda la singola persona. L’umanità occidentale, in generale, è immersa nell’angoscia e nella paura: un determinato presentimento di minaccia, terribilmente incombente, sconvolge la certezza ontologica della persona umana. L’invadenza del fenomeno dell’angoscia, che da cento anni cresce vertiginosamente, ha raggiunto un’intensità mai sperimentata fino ad oggi25.
A questo passo fa eco la riflessione di un autore, Erich Fromm, da noi già in precedenza incontrato, il quale rincara, addirittura, la dose circa il periodo in cui l’angoscia avrebbe iniziato a lasciare un chiara impronta sul corso della storia occidentale.
È un fatto ben strano e paradossale che gli ultimi quattrocento anni dopo la fine del Medioevo siano stati secoli di paura. Mai come oggi sulla terra ha regnato tanta sicurezza; e mai come oggi c’è stata tanta insicurezza. Oggi vige tanta sicurezza personale ed emozionale, e tuttavia anche realistica: mai prima d’ora l’uomo ha vissuto per anni nel terrore che tutta la vita possa essere distrutta in qualunque momento, che lui se lo aspetti o no. Questa angoscia […] ha avuto inizio già con la fine del Medioevo e si è manifestata in una forma o nell’altra nel corso degli ultimi secoli26.
Al riguardo, il poeta britannico Wystan Hugh Auden (1907-1973), proponendo di definire come «età dell’ansia» l’epoca che prende inizio da dopo la seconda guerra mondiale, ha affermato che noi non respiriamo più, ma, propriamente, “ansimiamo”, tanto l’angoscia è divenuta una componente costitutiva, addirittura, del nostro ambiente naturale27.
Proseguendo su questa linea, c’è un’altra testimonianza che troviamo qui molto pertinente. È dell’etnologo italiano Ernesto De Martino (1908-1965), le cui ricerche si sono sempre mosse all’incrocio fra antropologia e psichiatria.
L’angoscia segnala l’attentato alle radici stesse della presenza, denunzia l’alienazione di sé a sé, il precipitare della vita culturale nella vitalità senza orizzonte formale. L’angoscia sottolinea il rischio di perdere la distinzione fra soggetto e oggetto, fra pensiero ed azione, tra forma e materia: e poiché nella sua crisi radicale la presenza non riesce più a farsi presente nel divenire storico, e sta perdendo la potestà di esserne il senso e la norma, l’angoscia può essere interpretata come angoscia della storia, o meglio come angoscia di non poter esserci in una storia umana. Pertanto quando si afferma che l’angoscia non è mai di qualche cosa, ma di nulla, la proposizione è accettabile, ma soltanto nel senso che qui non è in gioco la perdita di questo e di quello, ma della stessa possibilità del quale come energia formale determinatrice di ogni questo e di ogni quello: e tale perdita non è il non-essere, ma il non-esserci, l’annientarsi della presenza, la catastrofe della vita culturale e della storia umana28.
Qui, il riferimento implicito di De Martino è diretto alla tesi di Heidegger relativa all’angoscia, tesi da noi, in precedenza, già presentata. Ma c’è un altro autore che ha avanzato delle forti riserve rispetto ad essa. È lo psichiatra svizzero Ludwig Binswanger (1881-1966), il quale scrive:
benché veda ancor oggi nell’interpretazione […] dell’angoscia di Heidegger uno dei suoi più geniali risultati filosofici, ritengo tuttavia che quella corrispondenza sia più nelle parole che nella realtà dei fatti e che, ricorrendo ad essa, non intenderemmo l’essenza originaria dell’angoscia melanconica come malattia dello spirito, ma perderemmo proprio di vista, per così dire, la sua morbosità29.
Il punto è che, mentre, per Heidegger, il soggetto che passa attraverso l’esperienza dell’angoscia oppone resistenza e, alla fine, ritrova sempre se stesso, per Binswanger, invece, del nostro sé non resta più niente quando l’angoscia stessa ci pone di fronte al nulla, nel senso che ciò che, in essa, propriamente si sperimenta è «l’orrore per la perdita della possibilità di “poter-rimanere-ancora-in-vita”»30.
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5. Angoscia e rimozione
Ma, arrivati a questo punto è, forse, opportuno un passo indietro e una breve sosta presso il padre della psicoanalisi: Sigmund Freud (1856-1939), di nazionalità austriaca, il quale ci ha fornito diverse definizioni dell’angoscia, elaborate man mano che egli veniva mettendo a punto sempre meglio il suo modello teorico.
Innanzi tutto, con l’articolazione della struttura della personalità in Io, Es e Super-Io, è il primo che si presenta come il luogo in cui si situa l’insorgere dell’angoscia: Io che deve porre freno alle pressioni pulsionali dell’Es, da un lato, e non lasciarsi soffocare dagli imperativi categorici del Super-Io, dall’altro. Qui, da tener presente è che l’angoscia non si dà, per Freud, come un sintomo indicante nevrosi, ma, piuttosto, come la matrice a partire dalla quale si generano tutti i sintomi.
L’io rimane la sede vera e propria dell’angoscia anche in Inibizione, sintomo e angoscia, del 192531. Qui, Freud parla del processo di rimozione come di un meccanismo di difesa messo in atto dall’Io, il quale, ritirando il suo investimento (preconscio) dal carico pulsionale che vuole rimuovere, lo impiega, appunto, «per sprigionare dispiacere (angoscia)».
Il problema di come si origini l’angoscia nella rimozione può non essere semplice; ciononostante si ha il diritto di non abbandonare l’idea che l’Io sia la vera e propria sede dell’angoscia32.
Ma, più Freud procede in avanti nella sua analisi, più egli si rende conto di non riuscire ad arrivare a una definizione conclusiva circa l’essenza dell’angoscia. Decide così di battere un’altra strada, ossia di prestare attenzione a tutto ciò di cui noi facciamo esperienza, partendo dal principio secondo cui l’angoscia è «un qualche cosa che si sente»33. Per questa via, scopre che essa, al di là del fatto che si accompagna a stati fisiologici spiacevoli, si può caratterizzare, in un modo più preciso, come ciò rispetto a cui il sintomo funge da canale di scarico. In tal modo, all’interno dell’angoscia viene aperta una distinzione fra angoscia come segnale di pericolo e angoscia come risposta a un pericolo. Mentre, nel primo caso, essa è automatica e involontaria e svolge una funzione protettiva e preventiva, nel secondo è, invece, volontaria e cosciente ed è generata dall’Io di fronte alla minaccia di un rischio reale.
A questa idea di Freud, secondo cui l’angoscia, causando la rimozione, dà così via libera alla formazione del sintomo, si ricollega lo psicoanalista più discusso del Novecento: Jacques Lacan (1901-1981), di nazionalità francese, il quale, in uno dei suoi più celebri seminari, prende tematicamente a oggetto l’angoscia34.
L’angoscia che cos’è? Abbiamo scartato che si tratti di un’emozione. Per introdurla dirò che è un affetto35.
L’angoscia è, dunque, un affetto: un affetto che, per di più, può fungere anche da segnale, ossia farsi indice della presenza, nel soggetto, di un desiderio, di una pulsione, la quale è, sempre, godimento del corpo. Ora, mentre tutti gli affetti ingannano, mentono, in quanto sono mobili, si spostano continuamente, secondo l’asse della contiguità, Lacan definisce, invece, l’angoscia come l’unico affetto che non inganna, nella misura in cui ciò che essa ci indica è che siamo in presenza di un qualcosa di vero, di reale:
è proprio sul lato del reale, in prima approssimazione, che dobbiamo cercare ciò che, nell’angoscia, non inganna36.
Al riguardo, anche Lacan prospetta una distinzione fra angoscia e paura, dove, mentre la seconda è alimentata da un pericolo esterno, nella prima, invece, il soggetto è «interessato nella sua sfera più intima»37, in modo tale che, per quanto avverta che c’è un qualcosa di sconosciuto che lo minaccia, ha chiara la percezione che tutto ciò lo riguarda. Dallo psicanalista francese, l’angoscia viene vista così come la via privilegiata di accesso al reale, come l’irruzione di quest’ultimo nell’ordine del simbolico. E proprio per questo motivo essa non inganna, perché si tratta di un affetto che non è stato rimosso.
Da precisare c’è solo un punto. Esso riguarda il fatto che il termine “reale”, in Lacan, ha un significato tecnico e, a suo stesso dire, consiste in quello specifico contributo da lui arrecato alla psicoanalisi freudiana. In poche parole, “reale” non è sinonimo di realtà, ma è relativo all’ordine del godimento: è, propriamente, il luogo della pulsione al di là dell’immagine e del linguaggio, ciò che si trova investito di una potenza oscura, traumatica, insondabile e perturbante38.
6. Angoscia e “principio di individuazione”
Da Lacan che si richiama a Freud, passiamo ora allo psicanalista svizzero Carl Gustav Jung (1875-1961), il quale, invece, come si sa, se ne distacca. E se ne distacca anche in merito alla considerazione dell’angoscia. Egli critica, infatti, la tesi – riferita in precedenza – secondo cui l’Io sarebbe la sede dell’angoscia, perché non è l’uomo che prova angoscia, ma è, piuttosto, l’angoscia che “prova” l’uomo, nel senso che è proprio essa ciò che lo obbliga a farsi carico del suo compito più proprio: l’umanizzazione39.
Sul fatto che l’angoscia sia connessa con il “principio di individuazione” concorda anche un altro psicoanalista, non a caso, di formazione junghiana: James Hillman (1926-2011), di nazionalità americana, il quale ha sottolineato, soprattutto, le potenzialità terapeutiche che essa possiede. Egli ha affermato, infatti, che tutto ciò che produce panico, angoscia, è la «via regia per smantellare le difese paranoiche»: difese, la cui funzione è proprio quella di non renderci «suscettibili al panico istintuale»40. In tal senso, l’angoscia, «in quanto «è uno dei modelli istintuali di comportamento, in quanto partecipa della “saggezza del corpo”, […] può diventare un richiamo per la coscienza», svolgendo la positiva funzione di rimetterci in contatto con la natura, ossia con le «misteriose e selvagge regioni dell’esistenza elementare»: con quel «regno di esperienza istintuale che l’uomo condivide […] con gli animali»41.
Essere senza paura, privi di angosce, invulnerabili al panico, significherebbe perdita dell’istinto, perdita di connessione con Pan42.
Pan – il dio del corpo, dell’istinto, della natura che si agita dentro di noi –, la cui potenza sperimentiamo, appunto, «soltanto attraverso dei disturbi psicopatologici, poiché gli altri suoi modi di manifestarsi sono andati perduti nella nostra cultura»43.
7. Il principio-angoscia
Passiamo, ora, da chi ha inteso l’angoscia come una via per riguadagnare il nostro radicamento vitalistico nella natura a chi ha visto, in essa, all’opposto, il marchio di quel pensiero della morte che accompagna tutta la nostra esistenza. È così che la figura che incontriamo è quella del filosofo e saggista rumeno Emil Cioran (1911-1995), del quale offriamo subito un aforisma sull’argomento, dotato di quel tono caustico e di quel piglio antiaccademico che lo hanno sempre contraddistinto:
L’Angoscia era già un prodotto corrente al tempo delle caverne. Ci si figuri il sorriso dell’uomo di Neanderthal, se avesse previsto che un giorno dei filosofi sarebbero venuti a reclamarne la paternità44.
Dal primo testo pubblicato da Cioran45 fino alla sua ultima intervista rilasciata46, il vissuto della morte è, in lui, un motivo sempre ricorrente: morte, il cui pensiero gli uomini, per lo più, rifuggono e che i filosofi avrebbero, addirittura, neutralizzato, ricorrendo all’artificio di convertirla in questione, piuttosto che viverla come un qualcosa di esistente.
Tutti parlano di teorie, […] di astrazioni; nessuno di qualcosa di vivo, di vissuto, di diretto. La filosofia e il resto sono attività derivate, astratte nel peggior senso della parola. Qui tutto è esangue. […] Quello che mi interessa è la mia vita, non le dottrine sulla vita. Per quanti libri sfogli, non trovo mai niente di diretto, di assoluto, di insostituibile. Dappertutto è il solito vaniloquio filosofico47.
Ne discende che Cioran, in ogni sua opera, ci racconta sempre la stessa esperienza, modulandola in tutte le sue possibili sfumature: quella di chi è afflitto dall’inquietudine esistenziale di sentirsi abbandonato in un mondo estraneo, di chi avverte un lacerante senso di angoscia per l’“esilio metafisico” cui si trova consegnato in questa vita.
Parlavamo della morte. Ebbene, essa è, per Cioran, ciò davanti a cui il concetto si arresta e deve dichiarare, irrimediabilmente, il proprio fallimento, per la ragione che non può mai ricondurla sotto la presa generica di una categoria universale. La morte, infatti, «non è qualcosa di esterno, ontologicamente diverso dalla vita, poiché la morte come realtà autonoma non esiste».
L’angoscia che noi proviamo di fronte alla morte costituisce, pertanto, uno stato d’animo inemendabile. Anzi, è proprio questa angoscia ciò che ci dischiude quel cammino che ci permette di «riconoscere nelle pulsazioni vitali uno sprofondare in essa».
Con la morte, che diventa una regione a sé stante dell’essere, l’uomo si libererebbe, e l’agonia, invece di aprire prospettive verso la vita, scoprirebbe sfere che la trascendono completamente. A differenza di queste visioni, il vero senso dell’agonia, a mio avviso, è la rivelazione dell’immanenza della morte nella vita. Perché pochi soltanto hanno il sentimento di questa immanenza, e l’esperienza dell’agonia è così rara? […] Gli uomini in perfetta salute, normali e mediocri non hanno né l’esperienza dell’agonia né il sentimento della morte. […] Così essi considerano la morte come proveniente dall’esterno e non come una fatalità inerente all’essere. Vivere senza il sentimento della morte è vivere la dolce incoscienza dell’uomo comune, che si comporta come se la morte non fosse una presenza eterna e sconvolgente48.
Anche per Cioran, dunque, l’angoscia si trova investita di un compito positivo e, ancor più esattamente, rivelativo: di rivelarci – come abbiamo appena visto – «l’immanenza della morte nella vita», nonché di dischiudere e di portare alla luce tutto ciò che si ritrae e “ama nascondersi”.
C’è un’angoscia infusa che funge in noi da scienza e da intuizione al tempo stesso49.
8. «Coraggio di aver paura»
Giunti a questo punto, abbiamo visto come tutti gli autori esaminati non arrivino mai a mettere in dubbio il principio secondo cui noi, oggi, siamo ancora capaci di provare angoscia. Chi lo nega perentoriamente è stato, invece, il filosofo tedesco Günther Anders (1902-1992), il quale è, probabilmente, l’autore più indicato per chiudere la nostra breve ricognizione. Egli ha parlato di un vero e proprio “analfabetismo dell’angoscia”50, ossia del fatto che, nell’epoca in cui viviamo, l’epoca della seconda rivoluzione tecnica, siamo talmente instupiditi da essere diventati del tutto incapaci di provarla.
Noi viviamo […] nell’epoca della minimizzazione e dell’inettitudine all’angoscia. L’imperativo di allargare la nostra immaginazione significa quindi in concreto che dobbiamo estendere e allargare la nostra paura. Postulato: «Non aver paura della paura, abbi coraggio di aver paura. E anche quello di far paura. Fa’ paura al tuo vicino come a te stesso»51.
Il discorso di Anders necessita di una breve premessa. Parlando di «dislivello prometeico», egli ha inteso puntare il dito sull’«asincronizzazione ogni giorno crescente tra l’uomo e il mondo dei suoi prodotti»52. Il secondo è diventato, infatti, per noi, a tal punto «smisurato» che non possiamo affatto più dirlo «nostro, nostro in senso psicologicamente verificabile»53. In regime di «tecnicizzazione dell’esistenza» accade, infatti, che ciò che noi produciamo può avere degli effetti così giganteschi che non siamo più «attrezzati per concepirli»54, che sono «troppo grandi rispetto a quelli che l’uomo riesce ad afferrare»55:
chi plasma non siamo noi, perché non siamo noi che plasmiamo gli oggetti, ma al contrario sono gli oggetti che ci plasmano. Noi diventiamo le loro “copie”, la loro “espressione”56.
Ne discende il darsi di uno scarto, in noi, tra facoltà di sentire e facoltà di produrre, tra «l’uomo in quanto produttore e l’uomo in quanto senziente»57: scarto, a causa del quale siamo incapaci di pensare ciò che, invece, di fatto, tecnicamente possiamo fare. In altre parole:
quanto più grandi sono gli effetti della nostra produzione e quanto è più intricata la struttura dei nostri apparati, tanto più rapidamente la nostra immaginazione, la nostra percezione non riescono a stargli dietro, tanto più rapidamente cala la nostra “chiarezza” e tanto più diventiamo ciechi58.
Ecco, dunque, in che senso Anders ci richiama, imperativamente, ad «allargare la nostra immaginazione»: in un’epoca in cui non siamo più all’altezza del momento storico che stiamo vivendo, in cui la fine dei tempi incombe, sempre più, come una possibilità concreta, solo sperimentare il «coraggio di aver paura» può contrastare l’«analfabetismo emotivo»59 che ci affligge, aiutando a «liberarci del pericolo in cui versiamo»60 e a risvegliare, in noi, il senso civico della responsabilità morale.
NOTE
1 N. Elias, Potere e civiltà. Il processo di civilizzazione II, tr. it. di G. Panzieri, il Mulino, Bologna 1983, p. 422.
2 Cfr. H. Hediger, Die Angst des Tieres, in Aa. Vv., Die Angst, Rascher, Zürich 1959, pp. 7-34.
3 Cfr. R. Bilz, Studien über Angst und Schmerz. Paläanthropologie, vol. 1/2, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1974.
4 B. Görlich, Angoscia, in Aa. Vv., Le idee dell’antropologia, 2 voll., a cura di C. Wulf, ed. it. a cura di A. Borsari, B. Mondadori, Milano 2002, vol. II, p. 894.
5 W. von Baeyer – W. von Baeyer-Katte, L’angoscia, tr. it. di G. Bordin e R. Tschrepp, Il Pensiero Scientifico, Roma 1977, p. 7. I due psichiatri proseguono affermando che «da un’angoscia spinta patologicamente all’estremo, deformata e celata dietro i disordini del comportamento ed i malesseri più disparati, può scaturire una redenzione esistenziale, una produttività spirituale elevatissima». Ciò avviene, però, solo in alcuni casi, in quanto «il pericolo di venir da essa guastati è maggiore della possibilità d’elevarsi per mezzo suo» (p. 8).
6 M. Erdheim, Psychoanalyse und Unbewußtheit in der Kultur. Aufsätze 1980-1987, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1988, p. 297.
7 B. Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, tr. it. di A. D’Anna, Feltrinelli, Milano 1977, p. 117.
8 Cfr. ivi, p. 120.
9 E. Fromm, Fuga dalla libertà [titolo originale: Die Furcht vor der Freiheit = La paura davanti alla libertà], tr. it. di C. Mannucci, A. Mondadori, Milano 1994, p. 12.
10 Ivi, p. 116.
11 Ivi, p. 149.
12 M. Heidegger, Essere e tempo (1927), tr. it. a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, p. 234.
13 Ivi, p. 235.
14 Ivi, p. 236.
15 Ivi, p. 238.
16 M. Heidegger, Che cos’è metafisica? (1929), in Id., Segnavia, a cura di F.-W. von Hermann, ed. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 67.
17 Cfr. J. LeDoux, Ansia. Come il cervello ci aiuta a capirla, tr. it. di G. Guerriero, Cortina, Milano 2016.
18 K. Jaspers, Origine e senso della storia (1949), tr. it. di A. Guadagnin, Mimesis, Milano-Udine 2014, p. 194.
19 S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia (1844), in Id., Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1972, p. 140.
20 Ivi, p. 130.
21 Ivi, pp. 193-194. W. von Baeyer – W. von Baeyer-Katte, L’angoscia, cit., scrivono che Kierkegaard prospetta un «divenire dell’angoscia» che si dispiega passando «attraverso tutti le sfere dell’esistenza umana»: «dai primissimi inizi nella coscienza […], fino a giungere all’angoscia accettata come scuola dell’assoluto» (pp. 22-23).
22 H. U. von Balthasar, Il cristiano e l’angoscia, tr. it. di E. Babini, Jaca Book, Milano 1987, p. 58.
23 J.-P. Sartre, L’essere e il nulla. Saggio di ontologia fenomenologica (1943), tr. it. di G. del Bo, rivista da F. Fergnani e M. Lazzari, EST, Milano 1997, p. 495.
24 J.-P. Sartre, La nausea, tr. it. di B. Fonzi, Einaudi, Torino 1967, p. 130.
25 V. E. von Gebsattel, Prolegomena einer medizinischen Anthropologie. Ausgewälte Aufsätze, Springer, Berlin-Göttingen-Heidelberg 1954, p. 378.
26 E. Fromm, I cosiddetti sani. La patologia della normalità, a cura di R. Funk, tr. it. di M. Bistolfi, A. Mondadori, Milano 1996, p. 74.
27 Cfr. W. H. Auden, Età dell’ansia. Egloga barocca (1948), a cura di V. Magrelli, tr. it. di L. Dessì, il melangolo, Genova 1994.
28 E. De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria (1958), a cura di C. Gallini, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 31.
29 L. Binswanger, Melanconia e mania. Studi fenomenologici (1960), a cura di E. Borgna, tr. it. di M. Marzotto, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 62.
30 Ivi, p. 58.
31 Cfr. S. Freud, Inibizione, sintomo e angoscia, in Id., Opere, vol. X: Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti (1924-1929), a cura di C. Musatti, Boringhieri, Torino 1978, pp. 237-317.
32 Ivi, p. 243.
33 Ivi, p. 280.
34 Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro X. L’angoscia. 1962-1963, a cura di J.-A. Miller e A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2007. Per un utile commentario a questo testo, cfr. J.-A. Miller, L’angoscia. Introduzione al Seminario X di Jacques Lacan, tr. it. di L. Ceccherelli, Quodlibet, Macerata 2006.
35 J. Lacan, Il Seminario. Libro X, p. 17.
36 Ivi, p. 187.
37 Ivi, p. 173.
38 Su questo punto, cfr. M. Recalcati, Il vuoto e il resto. Jacques Lacan e il problema del reale, Unicopli, Milano 1993.
39 Sull’angoscia, come un qualcosa di cui noi, quando la proviamo, dobbiamo farci carico, così che possiamo “crescere” insieme con essa, cfr. E. Fabian, Anatomie der Angst. Ängste annehmen und an ihnen wachsen, Klett-Cotta, Stuttgart 2010.
40 J. Hillman, Saggio su Pan, tr. it. di A. Giuliani, Adelphi, Milano 1977, pp. 74.
41 Ivi, pp. 68-69.
42 Ivi, p. 73.
43 Ivi, p. 47.
44 E. Cioran, Sillogismi dell’amarezza (1952), a cura di M. A. Rigoni, tr. it. di C. Rognoni, Adelphi, Milano 1993, p. 32.
45 Cfr. E. Cioran, Al culmine della disperazione (1934), tr. it. di Del Fabbro e C. Fantechi, Adelphi, Milano 1998.
46 A cura di H.-N. Jocks, in «Kulturchronik Magazine», 1995, n. 5.
47 E. Cioran, Quaderni 1957-1972, tr. it. di T. Turolla, Adelphi, Milano 2001, pp. 148-149.
48 E. Cioran, Al culmine della disperazione, cit., pp. 33-34.
49 E. Cioran, Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 30.
50 Cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato, 2 voll., Bollati Boringhieri, Torino 2007; vol. I: Considerazioni sull’anima nell’era della seconda rivoluzione industriale (1956), tr. it. di L. Dallapiccola, p. 262.
51 G. Anders, Tesi sull’età atomica (1960), in Id., Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki, tr. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1961, p. 204.
52 G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. I, cit., pp. 35 e 24.
53 G. Anders, Noi figli di Eichmann. Lettera aperta a Klaus Eichmann, tr. it. di A. G. Saluzzi, Giuntina, Firenze 1995, p. 29.
54 Ivi, p. 32.
55 G. Anders, Opinioni di un eretico, tr. it. di R. Callori, Theoria, Roma-Napoli 1991, p. 80.
56 G. Anders, L’uomo è antiquato, cit., vol. II: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale (1980), tr. it. di M. A. Mori, p. 395.
57 G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. I, cit., p. 256.
58 G. Anders, Noi figli di Eichmann, cit., p. 32.
59 Ivi, p. 34.
60 G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. I, cit., p. 250.