La pulsione della guerra e le sue trasformazioni 3/5. Antonio Gramsci e la guerra: Dai “Cinque anni non sono stati cinque secoli di storia?” alle riflessioni carcerarie

Il giovane studente universitario Antonio Gramsci mostrò a partire dal 1914 il suo interesse per la guerra e, almeno inizialmente, tale interesse si collocò all’interno dello scontro che, nel Psi, contrappose interventisti e neutralisti anticipando il dibattito che avrebbe preso corpo nel Paese di lì a poco. Il 18 ottobre Mussolini sull’«Avanti!» pubblica l’articolo Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante al quale il 24 ottobre risponde Tasca con l’articolo Il mito della guerra. Il 31 ottobre Gramsci pubblica Neutralità attiva ed operante[1].Il 24 novembre Mussolini sarà espulso dal Psi e per Gramsci avrà inizio, in conseguenza delle sue posizioni sulla guerra, un periodo di isolamento politico che di fatto terminerà nell’autunno del 1915 quando entrerà nella redazione torinese dell’«Avanti!», dove rimarrà fino al 31 dicembre del 1920, e inizierà la collaborazione con «Il Grido del Popolo».

È ancora la guerra a dominare l’interesse di Gramsci come emerge dall’articolo del 20 novembre del 1915 intitolato La luce che si è spenta su Renato Serra, morto in guerra il 20 luglio, ad appena due mesi dall’entrata dell’Italia nel conflitto:

Ma ora non possiamo aspettarci più nulla da Renato Serra. La guerra l’ha maciullato, la guerra della quale egli aveva scritto con parole così pure, con concetti cosi ricchi di visioni nuove e di sensazioni nuove. Una nuova umanità vibrava in lui; era l’uomo nuovo dei nostri tempi, che tanto ancora avrebbe potuto dirci ed insegnarci. Ma la sua luce s’è spenta e noi non vediamo ancora chi per noi potrà sostituirla[2].

Sull’entrata in guerra dell’Italia, Gramsci rifletterà nel modo seguente in carcere:

 

Passato e presente. 1915. Per ciò che riguarda il rapporto delle forze al momento dell’entrata in guerra dell’Italia, e per giudicare la capacità politica di Salandra-Sonnino, non bisogna considerare la situazione quale era al 24 maggio, ma quale era quando fu fissata la data del 24 maggio per l’inizio delle ostilità. È evidente che una volta fissata questa data, per trattato, non era più possibile mutarla perché nel frattempo la situazione sul fronte orientale era mutata. La questione che si pone è se non convenisse che l’entrata in guerra dell’Italia avesse a coincidere con l’inizio dell’offensiva russa e non calcolare «assolutamente» sulla buona riuscita dell’offensiva stessa. Che Salandra metta in vista e insista sul fatto che l’entrata in guerra coincise col rovescio russo, quasi ad affermare che non si andava in soccorso del vincitore, non testimonia di molta serietà politica e di responsabilità storica (Q8, 120, 1011).

 

Nel corso del 1916 Gramsci scriverà articoli critici nei quali la guerra assumerà i caratteri di un elemento funzionale al capitalismo, oppure verrà utilizzata da alcuni intellettuali (Corradini, nel caso specifico) in modo surrettizio per creare ambigui accostamenti con il pensiero di Marx, oppure servirà ad oscurare il fatto che, ad un primo massacro di armeni nel 1909, ne avrebbe potuto far seguito, come poi accadde, un altro, di dimensioni maggiori, nella completa indifferenza del mondo tutto preso dal conflitto:

 

La guerra europea accelererà ancora di più la concentrazione capitalistica. Le piaghe immani che la guerra ha aperto nel campo economico degli Stati, potranno essere solo in parte sanate da un aumento della produzione che si avrà solo intensificando il ritmo industriale. E ciò vuol dire scomparsa di quelle forme di lavoro che la democrazia cristiana vorrebbe proteggere e rinsaldare. Del resto sarà questo il fatto che metterà sempre più di fronte cattolici, democratici in genere e socialisti. Da una parte le forme nuove di vita economica che proletarizzano sempre più il popolo, estendendo il salariato[3].

 

La dottrina di Carlo Marx ha dimostrato anche ultimamente la sua fecondità e la sua eterna giovinezza offrendo un contenuto logico al programma dei più strenui avversari del Partito socialista, ai nazionalisti. Corradini saccheggia Marx, dopo averlo vituperato. Trasporta dalla classe alla nazione i principi, le constatazioni, le critiche dello studioso di Treviri; parla di nazioni proletarie in lotta con nazioni capitalistiche, di nazioni giovani che debbono sostituire, per lo sviluppo della storia mondiale, le nazioni decrepite. E trova che questa lotta si esplica nella guerra, si afferma nella conquista dei mercati, nel subordinamento economico e militare di tutte le nazioni a una sola, a quella che attraverso il sacrifizio del suo sangue e del suo benessere immediato, ha dimostrato di essere l’eletta, la degna. Perciò Corradini non avversa, a parole, la lotta di classe. «Sopprimere la lotta di classe, egli dice, val quanto sopprimere la guerra. Non è possibile. Entrambe sono vitali, l’una all’interno delle nazioni, l’altra fuori. Servono a muovere e rifornire di materiale umano fresco, classi, nazioni, il mondo». Ma questo saccheggio delle idee marxistiche ai fini nazionalistici ha il torto di tutti gli adattamenti arbitrari; manca di una base storica, non poggia su nessuna esperienza tradizionale[4].

 

Avviene sempre così. Perché un fatto ci interessi, ci commuova, diventi una parte della nostra vita interiore, è necessario che esso avvenga vicino a noi, presso genti di cui abbiamo sentito parlare e che sono perciò entro il cerchio della nostra umanità. …quando abbiamo sentito che i turchi avevano massacrato centinaia di migliaia di armeni, abbiamo sentito quello strappo lancinante delle carni che proviamo ogni volta che i nostri occhi cadono su della povera carne martoriata e che abbiamo sentito spasimando subito dopo che i tedeschi avevano invaso il Belgio? É un gran torto non essere conosciuti. Vuol dire rimanere isolati, chiusi nel proprio dolore, senza possibilità di aiuti, di conforto. Per un popolo, per una razza, significa il lento dissolvimento, l’annientarsi progressivo di ogni vincolo internazionale, l’abbandono a se stessi, inermi e miseri di fronte a chi non ha altra ragione che la spada e la coscienza di obbedire a un obbligo religioso distruggendo gli infedeli[5].

 

Nel corso del 1917 gli avvenimenti subirono un’accelerazione impressionante: le due rivoluzioni russe, l’entrata in guerra degli Stati Uniti, la disfatta italiana a Caporetto, le giornate di agosto a Torino. Gramsci diventa segretario della Sezione torinese del Psi e direttore de «Il Grido del Popolo»; nel mese di novembre partecipa alla riunione clandestina della sinistra socialista a Firenze dove conosce Bordiga.

Riflette sui motivi per cui scoppiano le guerre:

 

I socialisti affermano che le guerre sono un portato dei sistemi di privilegio. Essendo oggi classe privilegiata la borghesia, essendo il capitalismo la forma economica specifica che il privilegio ha oggi assunto, i socialisti affermano che oggi la guerra è una fatalità borghese. (…) il conflitto esiste perenne, ma non è perennemente di fatto; perché tale diventi è necessaria una iniziativa umana, è necessario ci sia chi giudichi essere arrivato il momento dell’azione, il momento utile per la realizzazione di un nuovo privilegio, oppure per impedire che un privilegio acquisito decada a beneficio altrui, e la guerra scoppia. (…) troppo pochi sono ancora gli uomini che si preoccupino veramente di ciò che accade loro d’intorno, che si preoccupino di non lasciar aggruppare dei nodi che poi domanderanno l’intervento della spada per sciogliersi e faranno diventare di fatto la guerra che è immanente nella società attuale. (…) Perché c’è chi lavora sempre, continuamente per iniziare le guerre. Perché c’è chi getta continuamente delle scintille sulle polveri infiammabili, e opera fra gli uomini, e suscita dubbi, e semina il panico. Perché ci sono i professionisti della guerra, perché c’è chi dalla guerra guadagna, anche se la collettività, le collettività nazionali non ne ricavano che lutti e rovine. (…) Poiché è pur necessario che la guerra scoppi in un certo momento, bisogna impedire che questo momento arrivi mai[6].

 

Già all’inizio del 1918, con la guerra ancora in corso, lo sguardo di Gramsci si dirige sul dopoguerra, in specie sulla proposta wilsoniana di Società delle Nazioni:

 

Woodrow Wilson è arrivato alla presidenza degli Stati Uniti per rappresentarvi gli interessi politici di un ceto capitalista che è la quintessenza del capitalismo: i produttori non protetti, e che non possono essere protetti; gli industriali che esportano, che hanno bisogno di nuovi mercati, che possono essere danneggiati nel loro vigoroso e spontaneo sviluppo dai protezionismi degli altri paesi. La loro ideologia politica è la democrazia liberale e liberista, che nelle penultime elezioni ha sconfitto la democrazia radicale, affaristica, trustaiola, protezionista. Per questa borghesia Lega delle Nazioni vuol dire dissolvimento delle reliquie politiche del feudalismo. L’economia borghese ha in un primo momento dissolto le piccole nazionalità, i piccoli aggruppamenti feudali: ha liberato i mercati interni da tutte le pastoie mercantili che inceppavano i traffici, che impedivano alla produzione di trasformarsi e di espandersi. L’economia borghese ha così suscitato le grandi nazioni moderne. Nei paesi anglosassoni è andata oltre: all’interno la pratica liberale ha creato meravigliose individualità, energie sicure, agguerrite alla lotta e alla concorrenza, ha discentrato gli Stati, li ha sburocratizzati: la produzione, non insidiata continuamente da forze non economiche, si è sviluppata con un respiro d’ampiezza mondiale, ha rovesciato sui mercati mondiali cumuli di merce e di ricchezza. Continua ad operare; si sente soffocata dalla sopravvivenza del protezionismo in molti dei mercati europei e del mondo. Le lotte di tariffe non la sollecitano: le sa, per esperienza pratica, dannose ad ambe le parti belligeranti. Crea l’ideologia pacifista di Norman Angell, ma si addimostra capace di far la guerra e di perdurarvi tenacemente non meno dei più agguerriti Stati militareschi[7].

 

Dopo il 4 Novembre 1918, a Milano e a Bologna,si manifestò un’insorgenza di espliciti atteggiamenti antisocialisti da parte di interventisti, esaltati dalla notizia della conquista di Trento e Trieste. In particolare, a Bologna gli interventisti sfondarono le linee di sbarramento della polizia e invasero Palazzo d’Accursio.[8] La situazione nella città di Torino appariva ancora più grave. Tali episodi testimoniano bene il clima di contrapposizione che si viveva in seno alla società e lo sbilanciamento delle forze statali verso una parte precisa. Nei giorni successivi al 4 novembre, le strade erano invase da cortei di operai che, chiuse le fabbriche, sfilavano con bandiere rosse in contrapposizione alle manifestazioni di carattere nazionalistico. Questa la ricostruzione dei fatti da parte di Antonio Gramsci:

 

Subito dopo l’armistizio si verificò a Torino una serie d’avvenimenti: […][9] Gli operai venivano aggrediti, percossi, sputacchiati, feriti proditoriamente. Fu possibile a un avventuriero (riconosciuto, più tardi, come un lestofante dalle medesime autorità militari e giudiziarie) tenere da padrone per otto giorni le vie e le piazze di Torino, arringare i soldati di recente tornati dal fronte e sobillarli a organizzare pogroms contro i socialisti; un ardito, in via Roma, per mostrare la sua bravura, entrò in una vettura tranviaria dal finestrino e pugnalò il primo che ebbe la disgrazia di capitare sotto la punta del suo pugnale; un altro ardito, in piazza Castello, per mostrare froebelianamente a un gruppo di curiosi “come lavorano gli arditi”, tagliò la faccia a un disgraziato fermo sul marciapiede; fu organizzato un pogrom contro la Camera del lavoro; al pogrom parteciparono carabinieri e agenti di polizia. […][10]. Il palazzo era gremito; vi erano donne e bambini. Gli ufficiali fecero la sassaiola controle finestre. Il palazzo fucircondato. Le donne furono terrorizzate; i bambini strillavano. Icarabinieri e gli agenti irruppero nei locali operai. Tutti i presenti furono brutalmente percossi; le donne furono bestialmente malmenate. La forza pubblica si assicurò che nessuno degli operai avesse armi di qualsiasi genere. Dal portone fino a via Valfrè fu costituito uno stretto passaggio tra due ali di carabinieri, di questurini […][11]. Gli operai, le mogli, le sorelle, le figlie degli operai, tutti i presenti nei locali di corso Siccardi furono spinti tra le due ali, e furono sistematicamente percossi a pedate, a pugni, a randellate, […][12]. Il tranviere Cerea fu massacrato dagli agenti della forza pubblica; gli fu schiantato il fegato. Gli operai vollero accompagnarlo in corteo al camposanto. Si trovò un funzionario sciacallo che prese le redini dei cavalli del carro funebre e tentò di sciogliere l’immenso corteo.

 

E prosegue l’articolo rimproverando il silenzio dei «tre giornali torinesi» che non hanno fatto alcun cenno a «questi episodi macabri, degni di epoche barbariche, cannibalesche». Il giornalismo, infatti, è un mezzo di dominio «spirituale» della borghesia sulla classe proletaria, accanto ai mezzi di dominio materiale che sono lo Stato economico capitalista e lo «Stato poliziesco che dal governo centrale si dirama in una gerarchia di prefetti, di questori, di poliziotti, di ufficiali di carabinieri, in una gerarchia militare che dallo stato maggiore arriva fino al soldato inquadrato nella sua disciplina».[13]

In questo clima, perciò, prendeva consistenza l’atteggiamento di connivenza fra organi dello Stato e forze reazionarie, esaltate dalla vittoria e, poi, da imprese come quella dannunziana a Fiume. Di lì a poco sarebbe nato il movimento fascista che, abbandonati i presupposti sansepolcristi del 1919, si sarebbe ben presto orientato verso posizioni esplicitamente antioperaie e antisocialiste. Già fra il 1918 e il 1919 i giornali di partito si facevano cassa di risonanza dei dubbi e degli interrogativi sulla condotta degli organi dello Stato. Così Gramsci:

 

Perché, se un gruppo di piccoli operai disoccupati, se un gruppo di giovani socialisti entusiasti osano avventurarsi nelle vie con un piccolo vessillo ed emettono un qualche grido, le carceri si spalancano ad inghiottire i criminali violatori di decreti, di bandi, di regolamenti: l’amministrazione della giustizia si sgranchisce le membra anchilosate e procede per direttissima, sbucano i testimoni che giurano su oltraggi alla forza pubblica, su ribellioni, sassate, matricidi, stupri, rapine, e fioccano i mesi e gli anni di reclusione?[14]

 

Si trattava dunque di fare i conti con apparati dello Stato e forze della società complici e, allo stesso tempo, con il nerbo della reazione, non certo identificabile con una «gazzarra infantile» di studenti, come acutamente seppe capire Gramsci. Gli avvenimenti dell’ultima parte del 1918, dopo l’armistizio, prefigurarono chiaramente ciò che sarebbe avvenuto nel biennio successivo. La guerra civile[15] era ormai nelle cose.

L’analisi del fenomeno della guerra è rimasto un motivo costante della riflessione di Gramsci. Numerosi i luoghi dei Quaderni del carcere in cui l’intellettuale analizza, approfondisce ed elabora il fenomeno bellico nella sua genesi, nelle sue leggi storiche e nelle conseguenze sul mondo sociale e politico della singola nazione e a livello interstatale. In questo senso, Leonardo Rapone ha richiamato l’esigenza di cogliere il nesso, ancora non «adeguatamente sottolineato», «tra la guerra e l’elaborazione gramsciana», arrivando a sostenere che dalla meditazione gramsciana sopra e durante la guerra «derivano diversi punti fermi che sorreggeranno la sua azione politica e l’andamento delle sue riflessioni anche negli anni in cui sarà alla testa del Pcd’I e poi nelle meditazioni del carcere»[16].

Nell’impostazione gramsciana sul tema della guerra si ritrovano i principi basilari della teoria del generale Karl Von Clausewitz, di cui è noto il motto «la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi»[17], e il cui pensiero gli era noto più per l’interpretazione diffusa in ambiente marxista[18] che per l’effettiva conoscenza dei suoi scritti. Infatti, in Italia[19] il Vom Kriege arrivò soltanto nel 1934, con la pubblicazione di Clausewitz e la guerra odierna, del colonnello viterbese Emilio Canevari. E il fatto è appuntato nei Quaderni da Antonio Gramsci in una nota, di cui non sfugge il tono sarcastico, nella quale osservava che in un articolo dell’ammiraglio Sirianni il nome era sempre riferito come «Clausenwitz»[20]. La guerra diventa momento di precipitazione del conflitto a livello internazionale tra classi dirigenti e a livello interno tra classi sociali.

Sul piano dell’analisi storica, il lemma «guerra» compare in riferimento a due conflitti: i moti politici e militari del Risorgimento e la prima guerra mondiale.

Nel periodo compreso tra questi eventi militari, dal 1848 al 1918, la guerra è stata identificata da Gramsci come il mezzo di gestione dei conflitti nelle relazioni interstatali, coloniali e sociali. La guerra, che ha origine nelle lotte dei gruppi dominanti in una nazione[21] tendenti a mantenere il proprio dominio sull’assetto sociale, si è poi propagata all’intera popolazione. Decisiva è, secondo Gramsci, l’influenza che sull’organizzazione della guerra, la composizione sociale degli eserciti e la natura della direzione politica del conflitto ha l’assetto produttivo. Mentre i conflitti risorgimentali si manifestavano nell’ambito di un paese a sistema agricolo, l’Italia del 1914-1918 ha conosciuto la rivoluzione industriale e i suoi effetti. Nelle società moderne, liberali e poi tayloriste, del XIX e del XX secolo la razionalizzazione della produzione è un fattore importante che investe tutti gli aspetti dei rapporti tra Stati, anche quello dei rapporti di forza che trova il terreno ultimo nel conflitto armato.

Permane nei Quaderni l’ottica internazionale da cui Gramsci analizza la guerra. Tutte le guerre comportano una trasformazione dei rapporti internazionali e la formazione di un nuovo ordine politico interno. Così la prima guerra mondiale ha determinato un nuovo assetto di relazioni interstatali con la nascita della Società delle Nazioni. Scrive Gramsci:

 

E tuttavia tutti riconoscono che la guerra del ’14-18 rappresenta una frattura storica, nel senso che tutta una serie di quistioni che molecolarmente si accumulavano prima del 1914 hanno appunto fatto «mucchio», modificando la struttura generale del processo precedente: basta pensare all’importanza che ha assunto il fenomeno sindacale , termine generale in cui si assommano diversi problemi e processi di sviluppo di diversa importanza e significato (parlamentarismo, organizzazione industriale, democrazia, liberalismo, ecc.), ma che obiettivamente riflette il fatto che una nuova forza sociale si è costituita, ha un peso non più trascurabile, ecc. ecc. (Q15, 59, 1824)

 

Gli effetti della guerra investono tutta la popolazione, che vede cambiare costumi e abitudini tradizionali:

 

Tra gli effetti della guerra, in tutte le sue accezioni di guerra di posizione, di movimento e sommersa, Gramsci contempla anche il cambiamento dei costumi e delle abitudini dell’intera popolazione. Gramsci si occupa in particolare dell’epoca dell’industrialismo, durante la quale la produzione bellica registra trasformazioni inaudite: dall’uso della cavalleria, retaggio della guerra moderna, si passa alla guerra di trincea, simbolo della guerra industriale, mentre la produzione viene riorganizzata in base al taylorismo. La razionalizzazione del nuovo sistema di produzione capitalistico torna utile in tempo di guerra, quando la popolazione viene messa indiscriminatamente al lavoro nelle industrie chimiche, del legno, del tessile, senza dimenticare quella metallurgica e meccanica. La guerra permette il frazionamento della popolazione in esercito combattente (i maschi adulti) e in esercito di riserva (gli adolescenti, le donne, gli anziani). In tempo di guerra, la fabbrica diventa uno degli agenti utili all’instaurazione dello stato di mobilitazione permanente tra la popolazione, permette di applicare le sanzioni del codice militare ai soggetti che in tempo di pace non rientrano tra i soggetti reclutabili, impone la rotazione tra gli uomini al fronte e quelli in fabbrica, permette di punire i comportamenti devianti (renitenza alla leva, scioperi, assenteismo) con i codici militari.[22]

 

È importante la riflessione condotta nei Quaderni sul concetto polisemico di «guerra di posizione», con il fluttuare dal piano militare a quello politico e viceversa di strumenti propri della filosofia della praxis attraverso i quali definire le strategie militari degli eserciti moderni nella prima guerra mondiale e le modalità della lotta tra classi sociali. La guerra di posizione non avviene solo in tempo di guerra, ma esiste in tempo di pace sotto forma di assedio reciproco tra classi, caratteristico delle società capitalistiche, in cui «le superstrutture della società civile sono come il sistema delle trincee nella guerra moderna»[23]. Dunque la guerra di posizione, coinvolgendo l’intera popolazione attraverso la produzione e la mobilitazione psicologica e ideologica, rivela a Gramsci la propria esplicita natura politica[24]. Gli eserciti si sono certamente combattuti con le armi, dal crescente potenziale distruttivo, ma anche con le risorse umane e tecniche disponibili con l’industrializzazione del processo produttivo. Scrive Gramsci in carcere:

 

Avviene nell’arte politica ciò che avviene nell’arte militare: la guerra di movimento diventa sempre più guerra di posizione e si può dire che uno Stato vince una guerra in quanto la prepara minutamente e tecnicamente nel tempo di pace. La struttura massiccia delle democrazie moderne, sia come organizzazioni statali che come complesso di associazioni nella vita civile costituiscono per l’arte politica come le «trincee» e le fortificazioni permanenti del fronte nella guerra di posizione: essi rendono solo «parziale» l’elemento del movimento che prima era «tutta» la guerra ecc. (Q13, 7, 1566-7)

 

L’elemento centrale della guerra di posizione è individuato da Gramsci nella conflittualità al fronte sotto forma di scontro bellico e nella società sotto forma di lotta per l’egemonia. È dunque la società civile il terreno di scontro politico e militare tra classi antagoniste che lavorano alla «realizzazione di un apparato egemonico, [che] in quanto crea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza, è un fatto di conoscenza, un fatto filosofico»[25]. Da qui la connessione della nozione di guerra di posizione con una delle principali categorie del pensiero politico gramsciano, quella di «egemonia». Con queste premesse la ricostruzione della storia culturale e politica europea dal 1789 all’avvento del fascismo che Gramsci conduce operando con lo schema concettuale guerra di posizione-guerra di movimento ha come obiettivo polemico il Croce autore della Storia d’Europa del secolo XIX e della Storia d’Italia dal 1871 al 1915[26]. Attraverso l’uso storico del concetto di guerra di posizione Gramsci intende individuare il «momento ideologico» dello storicismo crociano, che privilegiando un’interpretazione della storia in termini etico-culturali non scorge l’elemento di natura conflittuale che ha condotto all’assetto politico europeo:

L’analisi della restaurazione dell’ordine dopo i moti della Rivoluzione francese e dell’avventura napoleonica, dopo la rivoluzione europea del 1870 (che ebbe nella Comune di Parigi il momento politico più «visionario»), oppure dopo la fine della prima guerra mondiale, che ha portato in Italia all’affermazione del fascismo, permette a Gramsci di identificare una fase ulteriore della guerra di posizione, quella economica. La restaurazione obbediva, a parere di Gramsci, alla necessità di gestire la trasformazione della struttura economica in termini riformistici. L’obiettivo politico della riforma economica in senso liberale era quello di evitare «cataclismi radicali e distruttivi in forma sterminatrice» del sistema sociale, che avrebbero danneggiato l’egemonia esistente. Il fascismo e la sua economia «corporativistica» sarebbero, a parere di Gramsci, una nuova forma di «rivoluzione passiva» elaborata dalle classi dirigenti italiane per neutralizzare il rischio di una crisi economica disastrosa e la conseguente precipitazione del conflitto sociale. La guerra di posizione è la forma essenziale in cui si dà la rivoluzione passiva del liberalismo ottocentesco prima e del fascismo novecentesco poi. In questo senso, per Gramsci la Rivoluzione francese deve essere intesa come una guerra di movimento alla quale sarebbe seguita la lunga guerra di posizione del liberalismo. La rivoluzione bolscevica è un’altra forma di guerra manovrata, a cui è seguita la nuova guerra di posizione europea inaugurata dall’avvento del fascismo italiano.[27]

È evidente come in Gramsci l’uso della terminologia militare consenta di analizzare anche i grandi fatti della politica (della storia politica da cui si evincono i concetti della teoria politica?) tenendo, però, presente che

 

…i paragoni tra l’arte militare e la politica sono sempre da stabilire cum grano salis, cioè solo come stimoli al pensiero e come termini semplificativi ad absurdum: infatti nella milizia politica manca la sanzione penale implacabile per chi sbaglia o non obbedisce esattamente, manca il giudizio marziale, oltre al fatto che lo schieramento politico non è neanche lontanamente paragonabile allo schieramento militare. Nella lotta politica oltre alla guerra di movimento e alla guerra d’assedio o di posizione, esistono altre forme (Q1, 133, 120).

 

L’autore ringrazia la professoressa Gioia De Laurenziis per il contributo decisivo fornito alla stesura di questo testo.

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NOTE

[1] Sulla questione si veda L. Rapone, Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo (1914-1919), Carocci, Roma, 2011, pp. 11-37. Il clima generale non era condizionato soltanto dallo scoppio della Guerra e dalla posizione che l’Italia avrebbe dovuto assumere; c’erano già stati episodi di protesta sociale dal 7 al 14 giugno 1914 con la Settimana Rossa anticipata il 6 gennaio 1913 dall’eccidio di Roccagorga con 7 morti e diversi feriti. Scriverà Gramsci in carcere: “Passato e presente. Avvenimenti del giugno 1914.

… quegli avvenimenti avevano un grande valore perché rinnovavano i rapporti tra Nord e Sud, tra le classi urbane settentrionali e le classi rurali meridionali. Se il fatto che dette origine agli avvenimenti si ebbe ad Ancona, bisogna ricordare che l’origine reale fu l’eccidio di Roccagorga, tipicamente «meridionale», e che si trattava di opporsi alla politica tradizionale di Giolitti, ma anche dei governi di tutti gli altri partiti, di passare immediatamente per le armi i contadini meridionali che elevassero anche una protesta pacifica contro il mal governo e le cattive amministrazioni degli amici di tutti i governi” (A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975; d’ora in avanti citati indicando il Quaderno, il numero del paragrafo e quello della pagina: in questo caso Q8, 119, 1010).

[2] A. Gramsci, La luce che si è spenta, firmato Alfa Gamma in «Il Grido del Popolo», 20 novembre 1915 in Ead., Cronache torinesi (1913-1917), a cura di S. Caprioglio, Einaudi, Torino, 1980, pp. 23-26; d’ora in avanti CT con il numero di pagina.

[3] A. Gramsci, Cristianissimi in «Avanti!», 29 marzo 1916, nella rubrica «Sotto la Mole», in Ead., CT, pp. 224-225.

[4] A. Gramsci, Lotta di classe e guerrain «Avanti!», 19 agosto 1916, nella rubrica «Sotto la Mole», in Ead., CT, p. 499.

[5] A. Gramsci, Armenia in «Il Grido del Popolo», 11 marzo 1916 in Ead., CT, p. 184.

[6] A. Gramsci, Il canto delle sirene in «Avanti!» (firmato Alfa Gamma), 10 ottobre 1917 (l’articolo, a firma A. G., era comparso su «Il Grido del Popolo»del 6 ottobre 1917 ma interamente censurato) in Ead., La Città Futura (1917-1918), a cura di S. Caprioglio, Einaudi, Torino, 1982, pp. 382-387; d’ora in avanti CF con il numero di pagina.

[7] A. Gramsci, La Lega delle Nazioni in «Il Grido del Popolo» (firmato A. G.), 19 gennaio 1918 in Ead., CF, pp. 569-572.

[8] Episodio che non può non evocare quelli che saranno i fatti di Palazzo d’Accursio, a Bologna, del 21 novembre 1920, quando i fascisti si mobilitarono per impedire la cerimonia d’insediamento della nuova amministrazione comunale socialista.

[9] Tre righe censurate.

[10] Quattro righe censurate.

[11] Tre righe censurate.

[12] Una riga censurata.

[13] Non firmato, Una lezione agli operai, in «Avanti!», ed. piemontese, 8 dicembre 1919, nella pagina di «Cronache torinesi». Ora in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1920, a cura di V. Gerratana e Antonio A. Santucci, Einaudi, Torino, 1987, pp.358-360.

[14] A. Gramsci, Gazzarra infantile, in «Avanti!», ed. piemontese, 19 dicembre 1918, in Ead., Il Nostro Marx, a cura di S. Caprioglio, Einaudi, Torino, 1984, pp. 452-53.

[15] L’espressione «guerra civile» è qui utilizzata in riferimento all’uso dei contemporanei e non come categoria analitica sulla quale gli storici propongono diverse interpretazioni.

[16] L. Rapone, Antonio Gramsci nella Grande Guerra, in «Studi Storici», 2007, n. 1, pp. 5-96.

[17] K. Von Clausewitz, Della guerra, Mondadori, Milano 1970-19823, p. 38.

[18] Sull’interesse di Lenin per Clausewitz cfr. C. Ancona, L’influenza del ‘Vom Kriege’ di Clausewitz sul pensiero marxista da Marx a Lenin, in «Rivista storica del socialismo», 1965, pp. 129-154; A. Glucksmann, Il discorso della guerra, trad. it., Feltrinelli, Milano 1969; oltre a Lenin, Note al libro di Von Clausewitz «Sulla guerra e la condotta della guerra», Edizioni del Maquis, Classici del Marxismo, n. 5, Milano 1970. Reprint in Lenin, L’arte dell’insurrezione, Gwynplaine, Camerano, 2010.

[19] L’unica traduzione italiana integrale del Vom Kriege è ancora quella pubblicata nel 1942 dall’Ufficio Storico del corpo di Stato Maggiore del Regio Esercito, con la firma del generale e senatore Ambrogio Bollati (1871-1950) e di Canevari.L’edizione proposta da Mondadori nel 1970 riprende integralmente questaprima edizione critica italiana.

[20] Q17, 42, 1942.

[21] Q9, 70, 1141-2 (prima stesura); Q13, 34, 1631 (stesura definitiva).

[22] R. Ciccarelli, Guerra, in G. Liguori, P. Voza (a cura di), Dizionario gramsciano 1926-1937, Carocci, Roma, 2009, p. 379.

[23] Q13, 24, 1615.

[24] Sulla convinzione di Gramsci circa una migliore comprensione da parte di Lenin della natura politica della guerra di posizione rispetto a Trockij, teorico della guerra di movimento, cfr. la nota carceraria intitolata Guerra di posizione e guerra manovrata o frontale, Q7, 16, 865-7.

[25] Q10 II, 12, 1250. Si noti anche qui la rilevanza dell’apporto teorico di Lenin.

[26] Su queste questioni mi permetto di rimandare alla mia Prefazione al libro di Afonso Mário Ucuassapi, Il pensiero politico di Antonio Gramsci. Per una rivalutazione dei concetti di egemonia e società civile, Mimesis, Milano-Udine, 2019.

[27] R. Ciccarelli, Guerra di posizione, in Dizionario gramsciano, cit., p. 384.