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Cosa dovremmo intendere per «antisemitismo»? È possibile un antisemitismo dopo Auschwitz? E infine: c’è qualche differenza fra l’antisemitismo pre-Auschwitz e quello successivo al 1945?
Almeno per rimanere al caso italiano, c’è una consolidata tradizione culturale, consistente nel ritenere l’Italia immune dall’antisemitismo (Cfr..E. Ascarelli e M. Toscano, 1984, in particolare, p. 83). Dalla sottovalutazione del fenomeno, si è passati poi alla profluvie di studi sull’antisemitismo fascista: una profluvie in cui non sono mancati contributi estranei ai criteri minimi che dovrebbero guidare la ricerca storica. Infine, la scoperta che la storia d’Italia aveva visto la presenza di voci antisemite, non sempre riconducibili al pur fiorente antigiudaismo cattolico ottocentesco, si è tradotta in atteggiamenti che avevano più a che fare con l’indignazione moralistica che con gli atteggiamenti empatici che, stando alla lezione magistrale di uno dei più prestigiosi storici del Novecento, George L. Mosse – autore che, peraltro, ha fornito contributi decisivi alla storia dell’antisemitismo e del razzismo europei (cfr., E. Gentile 2007 e Aramini, 2010) -, dovrebbero guidare lo storico. Così si è trascurata l’indicazione che aveva formulato a suo tempo Renzo De Felice, «Di fronte a fenomeni come il razzismo e l’antisemitismo bisogna avere il coraggio di dire che le “scelte di campo” moralistiche sono prive di efficacia, così come del tutto inutili sono i rifiuti emotivi. Per comprenderli e contrastarli efficacemente occorre razionalità e conoscenza effettiva della loro realtà. L’indignazione, i sentimenti e i risentimenti sono più che comprensibili, ma non servono» (R. De Felice 1993, p. XI). Riconosciuto che l’indignazione non spiega sul piano storiografico i fenomeni politici, almeno per quanto riguarda l’antisemitismo è da riconoscere anche il fatto che esso si sia manifestato nel secolo dell’affermarsi delle Grandi narrazioni ideologiche si traduce nella necessità di affrontarlo sotto l’aspetto ideologico, come un qualsiasi altro universo ideologico, proprio per comprendere più a fondo la sua vocazione distruttiva. L’antisemitismo è da intendersi come un universo ideologico simile, per intenderci, al marxismo e al liberalismo. Alla stregua del marxismo, e in concorrenza con questo, sol che si pensi al nazismo e alla categoria teorico-politica di «giudeobolscevismo», esso costituisce una critica della società borghese liberale, presentando una specificità che discuterò oltre.
Le posizioni, presenti anche in alcune voci – peraltro prestigiose – della storiografia (cfr., Roberts, 1979, p. 20; Wistricht, 1971, p. XXIII), le quali tendono a presentare l’antisemitismo come un atteggiamento “irrazionale”, rischiano di precludersi la comprensione di questo fenomeno storico che ha allignato per secoli in Occidente. Si tratta di posizioni moralmente comprensibili, ma legate a una visione illuministica della cultura: questa come esercizio il cui fine è quello di elevare l’umanità, eliminando i conflitti e le violenze. Viceversa, l’antisemitismo è visto come un atteggiamento di barbarie, di regressione culturale e, in quanto tale, da respingere appunto come “irrazionale”.
Questo giudizio può essere accettabile dopo Auschwitz; ma è da riconoscere che è sterile sotto l’aspetto della conoscenza storica. Del resto, si trascura che, non solo prima ma anche negli anni del dominio nazista, in parecchie delle voci più rappresentative della cultura europea posizioni e atteggiamenti antiebraici non erano occasionali, solo che si pensi ad autori come Pound, Drieu La Rochelle, Céline. Cos’è il confuso dibattito sull’antisemitismo di pensatori come Heidegger e Schmitt – un dibattito che, in corso ormai da decenni, è tutt’altro che concluso -, se non il riconoscimento che coloro che sono considerati il maggior filosofo del Novecento e uno dei più acuti giuristi del secolo scorso avevano talvolta assunto atteggiamenti polemici verso l’ebraismo e, nel caso di Schmitt, atteggiamenti antisemiti che risultavano in linea con quanto sosteneva la propaganda nazista (Faye, 2012; Id., 2016; Di Cesare, 2014; su Schmitt, Gross, 2005; ma, più in generale, Losurdo 2001)?
Proprio perché il Novecento si è caratterizzato per l’affermarsi delle ideologie sul mercato politico, l’antisemitismo non può costituire un’eccezione nel panorama politico-culturale del Novecento. Sarebbe un’eccezione inspiegabile e insondabile, addirittura indicibile, che dovrebbe condurre lo storico, lo scienziato sociale e il filosofo a proclamare la resa epistemica davanti a questo fenomeno storico.
Naturalmente, sono comprensibili quegli atteggiamenti che tendono a negare che l’antisemitismo costituisca un’ideologia che ben si adattava alla società di massa nel secolo scorso: in forza della rottura di civiltà provocata da Auschwitz, diviene difficile pensare che l’antisemitismo disponga di una teoria politica; si pensa che i crimini contro l’umanità non rivelino alcuna ideologia. Ma il prezzo che questa posizione deve pagare è ben pesante: se così fosse – se, cioè, l’antisemitismo risultasse inspiegabile storicamente –, allora l’antisemita conseguirebbe il diritto di rivendicare il carattere metastorico delle sue posizioni – carattere che, del resto, ha sempre rivendicato.
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Ora, un altro errore da evitare nell’analisi storica dell’antisemitismo consiste nella convinzione che l’antisemitismo sia una cultura politica estranea alla modernità, poco più che un’eccezione politico-culturale residuo di altre epoche storiche e sopravvissuta negli interstizi della modernità.
Senza nulla concedere al drammatico pessimismo di Adorno e Horkheimer della Dialettica dell’illuminismo, sarebbe invece il caso di osservare l’antisemitismo come un atteggiamento di sofferenza – o meglio: di rivolta – nei confronti della modernità liberale, e dunque collegato in un intreccio dialettico con quest’ultima: l’antisemitismo trova le sue origini nella modernità liberale e pluralista appunto per opporsi a quest’ultima.
Perché considerare l’antisemitismo come un’ideologia? Come tutti gli universi ideologici affermatisi sul mercato politico occidentale, l’antisemitismo presenta una propria interpretazione della storia. Non c’è ideologia che non fornisca una propria interpretazione della storia – semmai un’interpretazione «in contropelo», per richiamare Benjamin –; e neanche l’antisemitismo sfugge a questo compito. Ogni universo ideologico necessita di presentare un’interpretazione della storia perché, per un verso, deve giustificare la propria presenza nel panorama storico in cui opera; per l’altro verso, necessita di fornire un’interpretazione del Passato come premessa per spiegare i fenomeni sociali del Presente e di delineare alcuni aspetti del Futuro. La filosofia della storia che l’ideologia elabora giustifica la presenza dell’ideologia medesima nel panorama politico-culturale in cui si trova a operare.
Quella antisemita consiste nella visione cospirazionista della Storia, fondata sulla convinzione che l’ebraismo cospiri fin dai tempi di Salomone, per instaurare la sua tirannia sull’umanità: l’epoca moderna, secondo questa visione, è quella in cui questo piano di dominio si manifesta in tutta la sua evidenza, perché l’ebraismo sta organizzando l’assalto finale contro gli ultimi capisaldi di resistenza dei non ebrei, dei gentili, degli “ariani” ecc. (Germinario, 2010, pp. 5-115). Questa convinzione rende chiaro il motivo per cui i Protocolli degli Anziani Savi di Sion costituiscono la Bibbia dell’antisemitismo (cfr. Taguieff, Paris, 2004a, e la bibliografia ivi citata), fermo restando che quel testo è solo il più famoso di una vasta, e finora non ancora del tutto censita, pubblicistica cospirazionista antisemita precedente, fiorita particolarmente nell’ultimo trentennio dell’Ottocento (cfr., Germinario, 2010, pp. 5-115).
Anche se non tutte le narrazioni cospirazioniste sono antisemite – visto che la cospirazione in altri autori è ricondotta a soggetti diversi, come i massoni e i gesuiti (almeno sul modello della cospirazione dei gesuiti, cfr., Pavone 2000; Rovello, a cura di, 2012)-, e non tutte mirano, secondo gli autori dei testi cospirazionisti, al dominio mondiale (il mito della cospirazione dei Gesuiti, risalente al XVII secolo, limita i piani di conquista alle istituzioni ecclesiastiche), l’antisemitismo è necessariamente cospirazionista. Ci può essere un cospirazionismo senza implicazioni o declinazioni antisemita; ma non si è mai dato storicamente un antisemitismo che non fosse cospirazionista. Il ruolo fondamentale svolto dal cospirazionismo – una visione che, irrisa da Benedetto Croce, era elaborata in ambito cristiano per spiegare la Rivoluzione francese (Croce, 1991, pp. 34-5) – comporta la conseguenza che non è possibile leggere l’antisemitismo come una forma di nichilismo. Anzi, proprio perché l’antisemita ricorre al mito della cospirazione ebraica, egli pretende di fornire una lettura fortemente razionalizzata della storia umana: questa, piuttosto che essere un confuso accumularsi di crisi e di violenze spesso inspiegabili, obbedisce a un disegno lucido, ancorché cinico e perverso, delineato dall’ebraismo.
Per l’antisemita la Storia ha una direzione e un senso; e hanno soprattutto un senso e una direzione le vicende umane più recenti. L’antisemitismo costituisce, quindi, una risposta al nichilismo; è l’esatto contrario di quest’ultimo, pretendendo, attraverso il cospirazionismo, di avere finalmente illuminato la verità sulle cause delle vicende umane, soprattutto quelle più dolorose. All’interno del mito – la cospirazione ebraica mondiale – si annida un’evidente offerta di razionalizzazione: c’è qualcuno – una razza, un’organizzazione segreta (I “Savi”) o un gruppo di illuminati – che tira le fila delle vicende umane e ciò che prima appariva complicato, confuso e incomprensibile, la storia umana, finalmente si rivela in tutta la sua evidenza. Col cospirazionismo antisemita più che un superamento nichilistico dei valori, si afferma il suo contrario: siamo in presenza di un vero e proprio atteggiamento gnostico, nel senso che viene offerta una conoscenza che pretende di condurre alla salvezza dell’umanità, avendo finalmente svelato sia le forze motrici nascoste della storia, i cospiratori ebrei, sia il fine nascosto che questi cospiratori hanno inteso assegnare alla loro azione nefasta, ossia l’instaurazione della tirannide dell’ebraismo.
Si ritornerà su questo aspetto. Per ora, crediamo sia sufficiente il riferimento ai Protocolli e alla visione cospirazionista della storia per comprendere la vasta udienza che quel testo continua ancora oggi a riscuotere (cfr., Taguieff, 2004b; Id., 2004c).
Probabilmente è tra i testi più diffusi e tradotti su scala planetaria. Rispetto ai testi cospirazionisti precedenti, i Protocolli presentano una specificità: quel testo non solo si rivolge a tutti i non ebrei, presentando una vocazione interpretativa “universalistica”; ma, siccome la sua udienza intende non tenere conto dell’appartenenza nazionale, della lingua, della cultura e dell’etnia del lettore, i Protocolli sono un testo che può essere utilizzato prescindendo da una sua storicizzazione (Sul carattere “universalistico” dei Protocolli, cfr., Germinario, Costruire la razza nemica cit., pp. 1 ss.). I Protocolli si ritengono abilitati a spiegare tutti i disastri della Storia, dalle guerre alle rivoluzioni e alle crisi economico-sociali, prescindendo dal periodo e dal contesto storico in cui quelle vicende si sono verificate.
Considerato che tutta la storia del mondo costituisce una cospirazione ebraica, ne consegue che tutti gli avvenimenti e le vicende, in qualsiasi luogo e tempo si verifichino, vedono la presenza ebraica. In questo senso, i Protocolli costituiscono il testo più attuale mai dato alle stampe nel corso del Novecento. Questo spiega il motivo per cui potevano essere diffusi da Alfred Rosenberg nella Germania di Weimar, nella Polonia post-comunista, a opera di circoli cattolici integralisti, e nel Libano terra di guerra fra israeliani e milizie palestinesi. Attualmente, sono diffusi sia in Occidente, spesso in edizioni clandestine e a circolazione limitata, da parte di sigle editoriali riconducibili al radicalismo di destra o da sette cospirazioniste in senso lato, sia nei paesi arabi. Qui furono introdotti da uno degli intellettuali nazisti più vicini a Goebbels, Johann von Leers: questi, sfuggito nel 1945 ai processi contro i criminali nazisti, convertitosi all’islam col nome di Omar Amin, curò in Egitto una prima edizione dei Protocolli in lingua araba (cfr. su von Leers, Rimmele, 2002, pp. 294-5).
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I Protocolli sono da considerarsi un testo militante, nel senso che inviano l lettore a mobilitarsi contro il disegno ebraico di instaurazione della tirannide ebraica. Solo che, al contrario di altri testi militanti, sol che si pensi al Manifesto di Marx ed Engels, presentano la specificità di invitare alla rivolta immediata: al lettore è trasmessa in modo implicito la necessità di opporsi all’ebraismo perché ormai le speranze di opporsi all’avvento della tirannide risultano molto poche.
Sul piano storiografico è da spiegarsi il motivo per cui il cospirazionismo storico, un atteggiamento originato, come si è osservato, nell’ambito della cultura cattolica – specialmente in quella più impegnata nella polemica contro i Lumi e la Rivoluzione francese –, costituisca uno degli assi portanti dell’antisemitismo, tanto da ritrovarsi in quello pagano dei nazisti, di Rosenberg, Goebbels ecc. Il motivo è da rintracciare nel fatto che il cospirazionismo, considerano tutta la Storia come un processo in cui gli uomini precipitano negli abissi del male, è sempre molto critico nei confronti del Presente. Non c’è cospirazionismo, insomma, che non contempli una visione pessimistica e drammatica della Storia.
La nostra ipotesi storiografica è che l’universo ideologico antisemita costituisca un’articolazione del più generale Kulturpessimismus affermatosi in Europa a muovere dall’ultimo trentennio dell’Ottocento (Baudelaire, Nietzsche, Le Bon ecc.). Non è certo un caso che proprio nel medesimo periodo storico si fossero affermati sia alcuni movimenti antisemiti – emblematico, in tal senso, era stato l’Affaire Dreyfus, verificatosi in Francia a cavallo dei due secoli – sia alcuni teorici dell’antisemitismo come Édouard Drumont e Wilhelm Marr (su Drumont, v., Kaufmann, 2008; su Marr, v. Zimmermann 1986 e Ferrari Zumbini, 2001), sia appunto le teorie cospirazioniste che denunciavano nell’ebreo il regista occulto delle crisi finanziarie ed economiche, delle guerre e delle tensioni fra Stati. Viene da osservare che l’antisemitismo costituisce non solo la versione razzista del Kulturpessimismus, ma è lo stesso Kulturpessimismus fattosi cultura politica e progetto di mobilitazione antisistemica del masse. Del Kultupessimismus l’antisemitismo condivide il giudizio drammatico sulla società borghese liberale. E tuttavia, esso prospetta anche una via d’uscita rispetto a un Kulturpessimismus che si era presentato in una declinazione incapacitante: una via d’uscita individuabile nella lotta contro l’ebraismo, ritenuto responsabile dei drammi che affliggono la modernità. Questo rivela come l’antisemitismo, per trovare udienza nel mercato politico e delle idee, deve necessariamente operare nelle situazioni di crisi culturali o economico-sociali quando cioè cala il consenso nei confronti delle istituzioni rappresentative, ovvero vengono messi in discussione i valori liberali.
Si è già detto che i Protocolli si presentano come un testo che intende rivolgersi a chi soffre alcuni aspetti della modernità, pretendendo di svelare le cause nascoste di questa sofferenza. Si può osservare come, tramontata la Grande Narrazione, il marxismo, che, per un intero secolo, si era opposta alla società borghese liberale, l’antisemitismo abbia ripreso vigore, godendo del monopolio pressoché incontrastato di essere l’unico universo ideologico ostile a questa forma storica di società.
L’antisemitismo è un universo ideologico rivoluzionario e antisistemico nel senso che intende rovesciare la società borghese liberale pluralistica non solo perché diretta dagli ebrei, quanto perché funziona secondo una logica che, a seconda dei diversi autori antisemiti, è «biblica», «talmudica», «salomonica». Alla domanda del noto yddisch Witz sui motivi per cui gli ebrei e non i ciclisti sono da ritenersi responsabili delle disgrazie del mondo (: «Un antisemita sostiene che sono stati gli ebrei la causa della Guerra. Qualcuno risponde: “Sí, gli ebrei e i ciclisti”. “Ma perché i ciclisti?”, chiede il primo. “Perché gli ebrei?” chiede l’altro» (Arendt, 1999, p.7), l’antisemita ha ben chiara la risposta: gli ebrei possono pure non avere dato vita alla società moderna e al capitalismo; tuttavia, come aveva sostenuto Sombart in Gli ebrei e la vita economica – un ponderoso testo che intendeva opporsi alla teoria di Max Weber sull’influenza della morale calvinista nella formazione del capitalismo (Sombart, 1980-1997) -, gli ebrei operano con disinvoltura nella società capitalistica perché questa funziona secondo regole morali ed economiche riconducibili alla religione ebraica.
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Ecco allora spiegati i due motivi della persistenza dell’antisemitismo dopo il 1945. Il primo è da individuare in una visione cupa e oscura della storia; questa è interpretata come un progressivo susseguirsi di catastrofi che si abbattono sull’umanità. Nelle epoche di crisi gli uomini non nutrono più alcuna fiducia nella Storia, perché sono indotti a pensare che la loro condizione futura non potrà che essere peggiore di quella che esperiscono nel Presente. Anzi, per l’antisemitismo la Storia – ossia il susseguirsi di eventi disastrosi per l’umanità – è un’invenzione dell’ebreo per instaurare la tirannide mondiale: non ci sono avvenimenti storici che non siano disastrosi e che non siano provocati dall’ebraismo ovvero da coloro che, pur non essendo ebrei, operano comunque al servizio dell’ebraismo. Per l’antisemita la storia non risolve i problemi umani, ma è una gigantesca tragedia: essa è l’hegeliano mattatoio dei popoli cinicamente quanto razionalmente gestito dall’ebraismo. Come osserva la voce narrante dei Protocolli per stabilire il suo dominio mondiale, l’ebraismo non deve recalcitrare neanche dal promuovere «una guerra universale» (“Protocolli”, 1938, p. 76). Si potrebbe osservare che l’antisemitismo trova un uditorio soprattutto nei panorami storici contrassegnati dalle crisi e dalla diffusione di sofferenze economico-sociali: è un’ideologia della crisi; e, in quanto ideologia, si assume il compito di spiegare le cause della crisi soprattutto a chi la subisce.
Il secondo motivo è da individuare nel fatto che il cospirazionismo, soprattutto nella declinazione antisemita, è un potente semplificatore delle vicende storiche.
Naturalmente, alla ricerca storica non compete dimostrare, ancora una volta, come i Protocolli costituiscano il falso più clamoroso e più palese della letteratura del Novecento. È, del resto, poco più che consolatorio riconoscere che «la mentalità cospirazionista costituisce una delle principali forme sotto le quali il mito o il pensiero magico continua a funzionare nelle moderne società che si suppone, troppo frettolosamente, disincantate» (Taguieff, 2013, p. 71). Compito della storiografia, così come delle scienze sociali in genere, è quello di delineare le cause di un successo editoriale che non ha cessato di diminuire, soprattutto negli ultimi decenni. Riassumo così il problema storiografico: perché, malgrado siano stati riconosciuti come un falso, i Protocolli vengono ristampati e diffusi, a dimostrazione che non hanno perduto di credibilità? Perché, a settant’anni da Auschwitz, persiste ancora non scalfito il mito della cospirazione ebraica?
Un confronto storiografico con i Protocolli rimanda all’analisi di come talvolta viene vissuta la modernità in alcuni settori della società. Uno degli aspetti della modernità consiste nel fatto che masse sempre più vaste vivono i processi storici come giganteschi e complicati. La modernità ha unificato il mondo; ma, agli occhi di masse che hanno smarrito le sicurezze offerte dalle Grandi Narrazioni ideologiche precedenti, ha reso complicati gli effetti di questa unificazione perché ha trasmesso agli uomini la sensazione che il mondo fosse troppo esteso per dominarlo.
Il risultato è che è diffusa la sensazione che la Storia non la si padroneggi più e che si sia inermi davanti ai suoi effetti: non ci si può opporre alla storia, perché essa coinvolge il mondo, trasmettendo all’uomo la drammatica sensazione di impotenza. Viene da osservare che nella società di massa uno degli aspetti dell’avanzata tumultuosa della modernità consiste nel fatto che gli uomini avvertono la sensazione che la loro vita sfugga alle loro decisioni e alle loro scelte, e cioè che la Storia abbia coinvolto le loro vite, le quali non posso più essere dominate. La storia la si subisce, specie nelle sue manifestazioni più devastanti, senza comprendere le cause di questa devastazione. La storia del mondo è divenuta complicata; e l’antisemita, tramite il suo modello cospirazionista, riesce a offrire una chiave di lettura credibile che annulli quella crisi senso originata dalla sensazione di impotenza davanti alla complessità dei processi storici: se nulla può più l’uomo sulla Storia, chi dirige quest’ultima, se non menti raffinate?
A questo punto, laddove nulla può la razionalità, si apre la possibilità alle scorribande della gnosi e del mito: gli avvenimenti storici risultano troppo devastanti e talmente incontrollabili per non sospettare che dietro di essi non ci sia una regia occulta che abbia pianificato quegli stessi avvenimenti.
La credibilità della narrazione antisemita reperisce, inoltre, un altro motivo decisivo. È tipico di ogni visione cospirazionista un atteggiamento, se non di terrore, certo di timore nei confronti del Futuro.
In un ambiente storico ampiamente secolarizzato, quello della modernità, il problema del Futuro si presenta in una versione drammatica, perché la scomparsa della trascendenza si traduce in un’insistente domanda di garantirsi quanto meno un Futuro mondano privo di sofferenze. Proprio perché gli avanzati processi di secolarizzazione hanno ridotto la domanda di trascendenza, lo spazio lasciato libero dalla ritirata di quest’ultima è stato colmato con la domanda di un Futuro migliore del drammatico Presente.
L’antisemitismo paventa invece il contrario, diffondendo l’idea che il Futuro scandirà l’avvento della tirannide ebraica, domandando, quindi, ai non ebrei di mobilitarsi per far fallire questo progetto. Almeno in questo senso, l’antisemitismo è una teoria politica rivoluzionaria, in quanto valorizza l’insoddisfazione e l’irrequietezza nei confronti del Presente: nulla della Jeztzeit si può valorizzare, perché questa costituisce l’ultima tappa dell’assalto finale al potere mondiale.
Conviene insistere su questo punto, perché si è in presenza delle cause sia del successo dei Protocolli, così come del successo riscosso, specie in rete, delle più svariate ipotesi cospirazioniste, sia dell’udienza attuale di alcune posizioni antisemite. Il cospirazionismo antisemita, proprio perché, come s’è osservato, tradisce una decisa, e neanche tanto implicita, declinazione gnostica, risponde al senso di smarrimento diffusosi nell’epoca storica dell’unificazione-omologazione del mondo. Un autore, Stefan Zweig, uno delle voci più rappresentative dell’alta cultura borghese europea, nonché egli stessi vittima dell’antisemitismo a causa delle sue origini ebraiche, avrebbe definito questo processo come un «monotonizzazione del mondo», in cui «Gli usi peculiari dei popoli perdono le loro caratteristiche» (Zweig, 2014, p. 70). Questo smarrimento, per un verso, si traduce nella difficoltà degli uomini di individuare le cause dei disastri sociali, delle crisi economiche e delle guerre.
Per l’altro verso, lo smarrimento trova un moltiplicatore nella diffusione della sensazione di non riuscire più a padroneggiare i fenomeni storici e sociali perché molto complessi. Come s’è osservato, i disastri sociali sono molto vasti e giganteschi per essere padroneggiati, e soprattutto per non essere stati prima pensati e poi provocati da alcuni uomini, appunto i “Savi” dell’ebraismo. Insomma, il successo permanente dei Protocolli e dell’antisemitismo muove dalla constatazione che la modernità è l’epoca in cui la Storia si è emancipata dall’uomo, presentandosi come un macigno che schiaccia quest’ultimo, ormai divenuto incapace di reagire, ossia di orientare la Storia verso una direzione delineata dall’uomo medesimo.
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Saul Friedländer, uno dei maestri della storiografia contemporanea, autore di studi decisivi sul nazismo e la Shoah, ha elaborato la categoria di «antisemitismo redentivo», intendendo con questo concetto una «forma mistica, […] la dimensione mitologica della razza»; l’«antisemitismo redentivo» presenta «una visione di stampo fortemente religioso» (Friedländer, 1998, p. 95).
Il giudizio di Friedländer è condivisibile, a condizione che si tenga presente che questa vocazione redentiva non è solo una specificità tedesca, ovvero del nazismo, ma costituisce una caratteristica specifica dell’universo ideologico antisemita, il quale ha sempre tradito la tendenza a presentarsi come una forte proposta di redenzione escatologica e quasi millenaristica, comune appunto alle altre ideologie rivoluzionarie, a cominciare dal marxismo. Se tutta la Storia è il risultato della cospirazione degli ebrei; se, poi, proprio l’epoca moderna si caratterizza come quella fase in cui la Storia è sfuggita all’uomo, allora gli uomini entreranno in un’Era di pace nel momento in cui avranno finalmente distrutto qualsiasi influenza dell’ebraismo sull’umanità.
L’antisemitismo costituisce un ingrediente decisivo nel fornire un’immagine mitica dell’ebreo, sia nel senso che si attribuisce all’ebreo poteri occulti di cui gli altri uomini non dispongono – come il potere per definizione, quello di determinare la Storia, e quindi le vite degli uomini -, sia nel senso che il carattere metastorico della potenza del nemico rimanda al carattere metastorico dell’instaurazione dell’Era di pace. Proprio perché il nemico che opprime gli uomini tradisce poteri non riconducibili all’uomo, l’Era della pace, quando l’ebreo sarà stato definitivamente sconfitto, non potrà certo corrispondere alle altre epoche che gli uomini avevano esperito in passato.
Gli stereotipi elaborati con precisione dall’antisemitismo sono stati spesso sottovalutati, perché considerati un segno palese del carattere politicamente reazionario e oscurantista dell’antisemitismo. Rispetto agli altri universi ideologici l’antisemitismo è quello che tradisce la presenza del maggior numero di stereotipi. Questa specificità trova la sua motivazione nella necessità dell’antisemita di individuare l’ebreo in una società egualitaria e uniformata come quella di massa.
D’altro canto, gli stereotipi più diffusi nell’immaginario antisemita, dall’ebreo usuraio a quello infido, dall’ebreo indotto a cotrarre e a diffondere malattie,, specie quelle venerie, all’ebreo sessualmente perversa e dedita alla prostituzione, sono tutti ripresi dalla tradizione antigiudaica cristiana medievale e rielaborati in una chiave secolarizzata, ricorrendo alle discipline moderne come la biologia, la medicina, la psichiatria ecc.
Lo stereotipo parla piuttosto del soggetto che lo elabora e lo formula, proiettando sul soggetto ridotto a stereotipo propria visione della vita, della politica e del mondo. Gli stereotipi antisemiti sono da considerarsi intimamente connessi fra di loro, poiché rimandano sempre a un’unica convinzione: l’ebreo è un parassita che sfrutta la forza e le qualità del non ebreo ai fini del dominio del mondo. Nell’universo ideologico antisemita sono quindi assenti stereotipi conflittuali fra di loro. E se i Protocolli parlano di piani per la conquista del mondo, gli stereotipi pretendono di descrivere la personalità e i tratti somatici dei conquistatori con questa ulteriore specificità: non solo gli stereotipi non devono confliggere, ma sono tenuti anche a confermare l’aspetto diabolico di quel piano. Se è diabolico il piano di conquista del mondo, la conseguenza è che tutti gli stereotipi antisemiti mirano a delineare gli aspetti negativi dell’ebreo.
La lconvinzione che l’ebreo si alimentasse di sangue cristiano nei giorni della Pasqua ebraica non è uno stereotipo isolato: esso rimanda a quello delle ebree che seducono i gentili, ricorrendo alla loro bellezza, al fine di impoverirli e di annullare la loro volontà, ovvero all’ebreo finanziere che sfrutta economicamente l’ o. In tutti i casi si tratta di stereotipi che convergono verso la medesima convinzione: le forze dell’uomo, siano esse biologiche o economiche sono utilizzate dall’ebreo per rafforzarsi; e il rafforzamento può essere biologico, attraverso il ricorso al sangue non ebreo (Jesi, 1993; Tokarska-Bakir, 2015), o economico, attraverso il ricorso al denaro degli ariani, cosi come il potere conseguito dall’ebraismo può essere economico-politico o psicologico; anzi, nell’antisemitismo il controllo della mentalità e delle azioni dei non ebrei è ritenuto ben più importante della potenza economico-finanziaria. Ora, la diffusione di stereotipi antisemiti è stata così pervasiva che a si ritrova addirittura nell’alta letteratura europea, da Proust alla Némirovsky, lo stereotipo dell’ebreo finanziere e speculatore procede spesso di pari passo a quello della bella ebrea, spesso dedita alla prostituzione e alla seduzione degli ariani (cfr., Germinario, 2011, pp. 9-141).
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Come s’è appena osservato, l’antisemita trova udienza nei periodi di crisi; e il motivo risiede nel fatto che queste paventano una situazione futura disastrosa, almeno nel senso che si teme che una soluzione della crisi possa avvenire a scapito di settori di popolazione che, fino ad allora, avevano goduto di una condizione di vita soddisfacente.
Proprio perché legge la modernità come l’epoca dell’instaurazione della tirannide ebraica, l’udienza dell’antisemitismo è incrementata dal fatto che il suo paradigma cospirazionista riesce a presentare il Futuro come un peggioramento delle condizioni del Presente.
In questo senso, l’antisemita riesce a intercettare quell’aspetto della modernità caratterizzato dall’incertezza verso il Futuro. Mentre nelle classi dirigenti, e nella loro cultura e mentalità, la modernità è esperita come l’epoca di un benessere diffuso destinato a protrarsi addirittura a svilupparsi anche nel Futuro, nelle classi subalterne e nei ceti medi (direi, soprattutto in questi ultimi) la modernità, ossia la società borghese liberale e pluralista, è vissuta sempre come un’epoca di instabilità; di più: questa forma storica di società è vista come instabile e precaria perché è la stessa logica capitalistico-finanziaria che la governa a produrre movimenti tellurici, impoverendo molti e arricchendo pochi. In questo senso, fin dalla seconda metà dell’Ottocento, l’antisemitismo ha costituito una cultura politica che, piuttosto che nelle classi dirigenti, alligna nelle classi subalterne, sia perché tradizionalmente più disponibili alla mobilitazione politica, sia perché indotti a osservare con timore, se non con ostilità, gli sviluppi della modernità, identificando in questo sviluppo le origini delle crisi economico-sociali (qualche cenno in tal senso in Merker, 2009, pp. 124 sgg.).
La ricomparsa dell’antisemitismo dopo il 1945 trova la sua causa proprio in questo motivo: sia prima che dopo il 1945, l’antisemita ha sempre ambito rivolgersi alle classi subalterne, o almeno a quei settori di queste che temevano di perdere il loro status in seguito al verificarsi di crisi economico-sociali; l’irrequietezza e l’insoddisfazione che l’antisemita tenta di intercettare e di capitalizzare sono provocate proprio dal timore che il Futuro sia peggiore del Presente.
Linee di continuità e di rottura si sovrappongono fra l’antisemitismo pre-1945 e l’antisemitismo post-1945.
Intanto, a quali motivi addebitare la constatazione che l’antisemitismo, dopo il 1945, non presenta più riferimenti all’”arianesimo”, un concetto ormai presente solo nei settori minoritari del radicalismo di destra.
Un primo motivo è da individuare nel fatto che a vicenda del nazismo aveva squalificato il concetto di “arianesimo”; esso risultava troppo legato alla cultura razzista nazista per potere essere utilizzato anche dopo, senza suggerire l’identificazione con quella vicenda. Un recupero del concetto di “arianesimo”avrebbe comportato una perdita di credibilità ovvero una riduzione dello spazio d’udienza nel mercato politico, essendo ancora viva, nella coscienza pubblica europea, la memoria del totalitarismo nazista.
Ciò ha implicato una scissione dell’antisemitismo dalla memoria del nazismo, nel senso che si è preteso di praticare l’antisemitismo senza condividere il nazismo. Quest’ultimo era giudicato come una vicenda che aveva quasi squalificato una cultura che da secoli era stata presente in Europa, condannandolo alla damnatio memoriae. Come a dire che quello nazista era stato un antisemitismo duro, culminato nelle persecuzioni e nella Shoah, a fronte di un antisemitismo morbido che poteva esibire una tradizione culturale rispettabile, dall’antigiudaismo cristiano a diverse voci della cultura.
Il secondo motivo ha un’importanza non meno decisiva e cruciale del primo. Si è già osservato come l’antisemitismo, fino al 1945, fosse stato un fenomeno politico quasi tutto concentrato in Europa, con alcune proiezioni negli USA. Dopo il 1945 ha assunto un respiro planetario, addirittura radicandosi nei paesi arabi. Ora, la categoria di “arianesimo” era troppo legata alla cultura politica europea per potere essere trapiantata in altri continenti e in altre culture. Il richiamo all’”arianesimo” implicava una gerarchizzazione razziale che avrebbe rischiato paradossalmente di collocare altre etnie e culture, cui ci si rivolgeva, su posizioni inferiori o comunque subordinate. Il concetto di “arianesimo” non si addiceva alle culture e alle etnie extraeuropee perché risultato di una cultura europea che, fin dalle origini, era stato utilizzato sia in chiave antisemita sia per gerarchizzare su posizioni inferiori le culture ed etnie extraeuropee medesime.
C’è poi un’altra rottura fin troppo evidente: dopo il 1945, l’antisemitismo ha rinunciato a differenziare l’ebreo, ricorrendo alla procedura della somatizzazione e agli argomenti biologici. Questi argomenti non sono scomparsi; ma non rivestono più il ruolo centrale che avevano ricoperto nella tradizione antisemita.
Nella tradizione politico-culturale antisemita pre-1945 era esistita un’enorme pubblicistica che tendeva a differenziare l’ebreo, addebitandogli tratti somatici deformi, se non mostruosi; ovvero dell’ebreo era necessario diffidare, perché emanava un fascino seduttivo difficile da contrastare da parte del non ebreo. La medicina ottocentesca di orientamento positivista aveva poi fornito il suo contributo decisivo, denunciando nell’ebreo l’inclinazione razziale a contrarre specifiche malattie, dal diabete all’isteria. Per la cultura occidentale di orientamento razzista, la differenza doveva essere ben visibile; e quest’obiettivo diventava fondamentale man mano che si sviluppava la società di massa: se, nell’epoca dell’avvento della società di massa, ormai tutto era uniformato nella conformazione fisica e somatica, a quale criterio ricorrere per rintracciare l’ebreo?
Così come nel caso del più generale razzismo si è rinunciato alla gerarchizzazione delle razze quale risultato finale delle procedure di somatizzazione (cfr., Taguieff, 1994), allo stesso modo, nel campo dell’antisemitismo si è rinunciato alla caratterizzazione fisica – o almeno questa non è stata più chiamata a ricoprire un ruolo centrale e determinante -, insistendo in modo più accentuato sulle differenze mentali e culturali, ma rilette in una chiave di determinismo naturalistico.
Beninteso, l’antisemitismo, persino quello nazista, fondato su un impianto rigorosamente biologico, aveva sempre contemplato un filone argomentativo “culturalista”, spesso trascurato dagli studi storici. Dopo il 1945, in forza, appunto, della rottura di civiltà provocata dal razzismo biologico, questo filone “culturalista” ha preso il sopravvento. Se il teorico nazista Alfred Rosenberg aveva sostenuto che la razza era il corpo e questo era lo specchio dell’anima, per l’antisemitismo post-Auschwitz l’anima è la razza: sono la cultura, la mentalità, le usanze e i costumi – in una parola: la psiche – a differenziare l’ebreo dal non ebreo.
L’antisemitismo, in quanto forma di razzismo, ha sempre la necessità di differenziare; solo che, al contrario del razzista, il quale può sempre richiamarsi alle differenze somatiche (colore della pelle ecc.), la differenziazione in chiave antisemita diviene ancor più problematica per la difficoltà di distinguere l’ebreo dal non ebreo. È una difficoltà dovuta alla constatazione che, nella società di massa, in seguito ai processi di omologazione e di democratizzazione, le differenze, persino quelle fisiche e somatiche, tendono ad annullarsi. Questa è stata una delle accuse che l’antisemitismo ha sempre rivolto alla modernità: essendo questa l’epoca dell’affermarsi dell’omologazione e dell’indifferenziato, riesce difficile distinguere l’ebreo dal non ebreo; da qui, essendo state screditate e usurate all’indomani di Auschwitz la logica della differenza biologica e somatica, la scelta di privilegiare e di insistere sugli aspetti psichici e culturali delle differenze.
L’antisemitismo contemporaneo ha abbandonato del tutto il determinismo naturalistico che lo aveva contraddistinto dopo il 1945?
È appena il caso di rilevare che, cultura, mentalità, psiche ecc. non sono suscettibili di modifiche; scompare la Natura, ma ricompare comunque la logica naturalistica, perché è il caso di dire che le differenze culturali sono naturalisticamente fondate. L’antisemitismo, che sia biologico o “culturalista”, come ben aveva intuito Emmanuel Levinas, quando il nazismo era da pochi mesi salito al potere in Germania, non ammette storicità per il razzizzato. «L’essenza dell’uomo – aveva osservato Levinas – non è più nella libertà, ma in una sorta di incatenamento. […] L’uomo non si trova più davanti a un mondo di idee in cui può scegliersi, con una decisione sovrana della sua libera ragione, la propria verità – egli è già legato ad alcune fra quelle, com’è legato fin dalla sua nascita a tutti coloro che sono del suo stesso sangue»(Levinas, 1996, pp. 32-3).
Proprio perché l’antisemita non ammette la libertà umana di scegliere, non ammette la Storia; o meglio: non ne ammette la positività, in forza del fatto che gli ebrei, ricorrendo alla cospirazione, hanno declinato la Storia come un mattatoio, un teatro in cui i pochi dominano e tiranneggiano (gli ebrei) mentre tutti gli altri uomini (i gentili, gli ariani, i non ebrei in genere) sono stati ridotti in una condizione di schiavitù. Se l’antisemita ammettesse una positività della Storia, la sua narrazione non avrebbe più alcuna ragion d’essere, perché dovrebbe riconoscere alcuni aspetti positivi della Storia, rinunciando al drammatico pessimismo che contraddistingue la visione che ha di quest’ultima. Sia pure sotto una dimensione più “culturale” che biologica, l’ebreo è ciò che è stato; e né la storia, né il confronto con l’altro potranno modificare ciò che si è: la razza culturale, come quella biologica, è data una volta per tutte e la storia e le vicende dell’individuo non sono autorizzate a modificarla.
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I temi su cui ha insistito l’antisemitismo nel settantennio fra la fine della seconda guerra mondiale e i nostri giorni sono stati soprattutto tre: la negazione della Shoah, ossia il negazionismo, l’ostilità nei confronti dello Stato d’Israele, l’”antisionismo”, la critica della presenza ebraica nelle alte sfere della politica e dell’economia.
I primi due temi hanno confermato la capacità dell’antisemitismo di rinnovarsi adeguandosi al periodo storico in cui opera: un’ideologia rivoluzionaria può reperire udienza e mercato politico se non rivela elasticità nel richiamarsi all’effettualità storica. Se nel tardo Ottocento l’obiettivo polemico erano la famiglia Rothschild e le sue attività finanziarie nei diversi paesi europei, a Weimar era la figura di Walter Rathenau e per i nazisti era il “giudeobolscevismo”, dopo il 1945 si è inteso negare la Shoah oppure respingere l’esistenza stessa dello Stato d’Israele, identificandolo con l’ebraismo, soprattutto con quello della diaspora.
In questa sede, i due temi c’interessano per un aspetto storiografico. Se pure si tratta di temi originali rispetto al bagaglio di accuse della tradizione antisemita, essi sono stati comunque rielaborati ricorrendo al classico paradigma antisemita.
Emblematico, in tal senso, è stato il negazionismo, declinato come espressione del radicalismo di destra dopo il 1945. Il negazionismo ha costituito la “storiografia” del radicalismo di destra – con qualche proiezione in sette minoritarie del radicalismo di sinistra –, tendente a modificare la memoria storica europea del nazismo (cfr., Vercelli, 2013; Germinario, a cura di, 2013 e Id., 2017).
La negazione della Shoah è stato il tema occasionale per ribadire la tradizionale accusa agli ebrei di essere produttori di menzogne associata a quella di dominare le istituzioni in cui si produce cultura, dalle scuole ai giornali, fino agli altri mezzi d’informazione: col richiamo alla Shoah gli ebrei, con la complicità attiva o passiva della cultura europea e in particolare della ricerca storica, hanno dato vita alla menzogna più colossale del Novecento, ossia alla credenza che fra il 1939 e il 1945 il nazismo avesse proceduto ala realizzazione del disegno di sterminare l’ebraismo europeo.
L’obiettivo di questa menzogna, secondo la pubblicistica negazionista, era quello di colpevolizzare l’Europa. L’accusa agli europei di avere prima coltivato per decenni, se non per intere epoche storiche, l’antisemitismo, e poi di avere agevolato, o comunque assunto un atteggiamento di indifferenza davanti alle varie tappe che avevano scandito lo sterminio nazista, dalle leggi di Norimberga alle deportazioni, fino all’opera di sterminio vero e proprio, secondo i negazionisti si traduceva in acquiescenza e in un atteggiamento di subordinazione delle società europee nei confronti dell’ebraismo europeo e dello Stato d’Israele.
Tuttavia, il negazionismo rivelava anche un altro obiettivo, politicamente ben più ambizioso, consistente nel delineare un’ostilità irriducibile nei confronti del pluralismo e della democrazia, perché rivelava come l’antisemitismo avesse sempre contenuto una profonda vocazione antidemocratica. Mettere in discussione la Shoah e i suoi terribili effetti significava rivalutare i fascismi e il nazismo, ossia ridiscutere le basi antifasciste e universalistiche su cui erano stati edificati i sistemi politici europei – almeno quelli dell’Europa occidentale – dopo la seconda guerra mondiale. In altri termini, il negazionismo mirava ad opporsi alla memoria storica delle istituzioni pluraliste europee, quale tappa iniziale per ridefinire l’opposizione alla democrazia: sistemi politici fondati su una gigantesca menzogna dovevano essere abbattuti; la democrazia, insomma, sia nei suoi aspetti istituzionali sia nei suoi aspetti culturali, era un inganno che illudeva i governati.
L’”antisionismo” è stato un lemma se non inventato, certo utilizzato nel secondo dopoguerra nei paesi del blocco comunista per eliminare le elite ebraiche; esso era stato molto in utilizzato soprattutto nei primi anni Cinquanta, ad opera della classe dirigente stalinista, soprattutto per eliminare fisicamente o emarginare altri dirigenti di origine ebraica, accusati di rapporti con lo Stato d’Israele e le potenze occidentali. La critica del “sionismo”, del “cosmopolitismo”, dello “sradicamento”, elaborata negli anni dello stalinismo del secondo dopoguerra, era rimasta una caratteristica prolungatasi nei decenni successivi in tutti i paesi del blocco comunista fino agli inizi dell’era di Gorbaciov (Rapoport, 2002).
L’”antisionismo” di provenienza sovietica non poteva ignorare almeno due aspetti. Il primo era che negli ambienti del marxismo fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento – un ambiente politico-culturale in cui si era formata la prima generazione dei dirigenti dei partiti comunisti – si era sviluppato un intenso dibattito sulla “questione ebraica” al punto che, in sede storiografica, si è parlato di un «marxismo ebraico» (Traverso, 1990, p. 113). Inoltre, nel movimento comunista, soprattutto nei primi decenni, e con alcune proiezioni anche nel secondo dopoguerra nei paesi sovietizzati (Cecoslovacchia, Romania, Polonia ecc.) era molto rappresentata nei gruppi dirigenti la componente di origine ebraica: l’ebraismo dell’Est aveva trovato nella militanza marxista e comunista una difesa di impostazione universalistica a fronte dei pogrom e delle discriminazioni, talvolta anche legali, che da secoli pesavano sulla minoranza ebraica.
Il secondo aspetto consisteva nel fatto che, almeno durante i primi anni successivi alla Rivoluzione d’ottobre, i bolscevichi, su impulso di Lenin, avevano assunto posizioni molto dure nei confronti dell’antisemitismo diffuso nella Russia zarista, interpretato come una delle più significative declinazioni dell’oscurantismo della politica degli zar e dell’influenza, giudicata reazionaria ed espressione delle classi possidenti russe, della Chiesa ortodossa. Non potendo ricorrere al lemma di “antisemitismo” perché questo evocava sia la vicenda del nazismo sia la tradizione antigiudaica delle Chiese ortodosse, la cultura politica comunista aveva sostituito quel lemma con quello di “antisionismo”. Questa sostituzione tradiva la difficoltà dei regimi comunisti nell’affrontare il problema del rapporto con lo Stato d’Israele e con le sinistre non comuniste, non foss’altro perché lo stesso sionismo, che aveva dato vita a quello Stato, si era collocato nel panorama del socialismo europeo, traendo non pochi spunti da quest’ultimo.
D’altro canto, la critica sovietica al “sionismo” mutuava dall’antisemitismo europeo alcuni stereotipi antisemiti, come il “cosmopolitismo” e lo “sradicamento” ebraici: cos’erano, queste, se non la riproposizione delle vecchie accuse dell’antisemitismo europeo all’ebraismo di non avere alcun senso di appartenenza nazionale? Ricorrendo a questi stereotipi, le campagne di stampa contro le minoranze ebraiche intercettavano l’antisemitismo diffuso in diversi settori della società dell’Est Europa, soprattutto nelle fasce rurali.
Concetto politicamente trasversale, rispetto alla divisione assiale Destra/Sinistra, ed emigrato dalla sinistra di orientamento stalinista alla destra radicale e ai settori della sinistra radicale, l’”antisionismo” si è rivelato un modo per criticare non solo le politiche dello Stato d’Israele – tutte le scelte politiche, dei governi laburisti come di quelli di destra –, sostituendo il lemma, ormai squalificato nelle coscienze e nel dibattito pubblico europeo, di “antisemitismo”.
Soprattutto nei settori del radicalismo di destra – il maggior imprenditore politico, almeno in Europa, dell’antisemitismo dopo il 1945 – e nel fondamentalismo islamico, l’”antisionismo” ha sostituito l’”antisemitismo”; e per “antisionismo” è da intendersi nulla più che la posizione tesa a negare l’esistenza dello Stato d’Israele.
Ma, anche in questo caso, l’antisemitismo rielabora la sua critica del “sionismo”, ricorrendo alle categorie e al paradigma della propria tradizione teorico-politica. Israele è uno Stato razziale; e il sionismo è presentato come una vera e propria politica razziale che da sempre era stata una caratteristica dell’ebraismo: lo Stato d’Israele è riletto come espressione di una razza, quella degli ebrei, i quali si sono sempre pensati e hanno operato come una razza unita e solidale, prescindendo dall’appartenenza nazionale o dalla collocazione sociale di un singolo ebreo.
Questa era stata una delle convinzioni fondamentali della tradizione teorico-politica antisemita. Era una convinzione presente, ad esempio, in Édouard Drumont e soprattutto in Dietrich Eckart, teorico dell’antisemitismo tedesco, che lo stesso Hitler, negli anni di Weimar e del Kampfzeit aveva considerato il suo principale maestro in materia di antisemitismo. Se per Drumont il popolo ebraico era costituito da «membri [che] erano solidali tra di loro da un capo all’altro dell’universo» (Drumont, 1902, p. 28), Eckart aveva fatto osservare a Hitler «il loro [degli ebrei] senso di responsabilità della famiglia, il loro sobrio modo di vivere, la loro disponibilità nel fare sacrifici e, soprattutto, il loro mutuo sostentamento!» (Eckart, 2008, p. 5).
Nell’”antisionismo”, soprattutto in quello praticato nei settori del radicalismo di destra, lo Stato d’Israele mira a distruggere le altre razze per imporre il proprio dominio razziale. Non a caso, proprio nei Protocolli era stata delineata la strategia per eliminare le altre razze.
La differenza è che, se in quel testo la distruzione dei “gentili” era affidata alla diffusione dell’alcol, alla perversione sessuale e alla promozione della degenerazione dei costumi, tutti settori che, secondo la voce narrante, avrebbero dovuto vedere la regìa ebraica tesa a instaurare «Il Re di Israele», il quale sarebbe divenuto «il vero Papa dell’universo: il Patriarca della Chiesa Internazionale» (I “Protocolli” dei “Savi Anziani” di Sion, 1938, rispettivamente p. 118, 125), a muovere dalla fondazione dello Stato d’Israele la distruzione delle altre razze ha trovato un riferimento istituzionale, per cui questo Stato è stato presentato come lo strumento privilegiato per realizzare questa strategia politica.
Almeno fino all’avvento del nazismo, il quale avrebbe impresso una decisa decantazione pagana, l’antisemitismo europeo aveva rivelato una presenza di teologemi (cfr., De Michelis, 2001, pp. 13-46) che, come nel caso dei Protocolli e un po’ in tutta la letteratura cospirazionista, avevano rafforzato la sua vocazione escatologica e soteriologica. L’antisemitismo post-1945 ha intensificato il suo paganesimo, eliminando qualsiasi riferimento di natura religiosa: l’ebraismo non è più impegnato nella prova di forza per imporre agli altri popoli la propria religione, ma per il dominio politico-economico mondiale, quale risultato della contaminazione dell’incrocio delle razze e delle etnie. Tra i registi del progetto di contaminazione delle razze figurano società definite «mondialiste», come la Commissione Trilaterale, con a capo la massoneria ebraica, il B’nai B’rith.
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A partire dall’esplosione nel 2008 della crisi economica molto duri sono stati gli attacchi contro lo speculatore Bernard Madoff e la banca Goldman Sachs (cfr., Taguieff, 2013, pp. 145-7).
Mentre gli attacchi contro le speculazioni di Madofff e la Goldman Sachs hanno rivelato un aspetto monotematico, insistendo sui temi economico-finanziari, ben più importanti, sotto l’aspetto storiografico, sono risultati gli attacchi contro George Soros, in quanto hanno tradito la presenza di alcuni degli aspetti più significativi dell’antisemitismo contemporaneo. Soros sembra incarnare quasi tutti gli stereotipi dell’antisemitismo: ebreo originario dell’Est Europa poi trapiantato a New York – dunque, nulla più che uno sradicato –, finanziere dedito alle speculazioni borsistiche, membro fondatore di organizzazioni umanitarie e universalistiche.
È appena da rilevare che le accuse al finanziere George Soros, presentato spesso come il promotore occulto dei processi migratori in Occidente costituisce poco più che un corollario di questa teoria. Un richiamo per tutti; ecco come viene presentato Soros in «Il Primato Nazionale», mensile espressione dell’organizzazione del radicalismo di destra italiano CasaPound, nonché aperto alle posizioni “sovraniste”: «sapientemente Soros ha cercato, nei 34 anni di vita della sua filantropica Open Society Foundations (fondata nell’orwelliano 19849 di indottrinare l’Occidente secondo il suo pensiero basato sulla “società aperta”, stravolgendo e strumentalizzando il concetto coniato da Karl Popper. Per raggiungere l’obiettivo, il magnate ha usato le ricchezze derivanti dalle speculazioni che ha operato in diverse nazioni (anche in Paesi in via di sviluppo) finanziando le organizzazioni governative e non, le associazioni, gli oppositori dei governi “nemici” […]. Favorire e non controllare l’elevato flusso migratorio, abolire ogni forma di nazionalismo (da questo deriva l’europeismo sorosiano), chiedere ossessivamente diritti civili per gli stranieri senza una reale integrazione […]» (Totolo, 2018, p. 12).
La figura di Soros ha sostituito i Rothschild; ma la sua attività politica risulta ben più pericolosa di quella dispiegata a suo tempo dalla famiglia Rothschild. Se nell’Ottocento dietro le crisi finanziarie e le speculazioni borsistiche l’antisemitismo denunciava sempre la regìa dei Rothschild, nell’ultimo ventennio gli ebrei mirano a distruggere la compattezza delle razze in Occidente ricorrendo, volta a volta, alla speculazione finanziaria e all’emigrazione di intere popolazioni. Nell’ultimo ventennio Soros ha operato per distruggere l’Occidente, provocando le speculazioni finanziarie e i processi migratori: si “avvelenano” le altre razze per realizzare finalmente il dominio incontrastato dell’ebraismo.
Non è questa la sede per approfondire il tema. Qui è sufficiente notare che, in materia di economia politica, la tradizione antisemita aveva distinto fra un “capitale produttivo” (raffenden Kapital), in genere identificato col capitalismo industriale, e un “capitalismo parassitario” (schaffende Kapital), identificato nella finanza e nella circolazione monetaria. L’antisemitismo si era schierato per le ragioni del primo contro quelle del secondo: «Gli ebrei come agenti della circolazione – aveva sostenuto Horkheimer, in un breve saggio sull’antisemitismo nazista – sono senza potere poiché la moderna struttura dell’economia pone tutta la sua sfera fuori corso» (Horkheimer, 1978, p. 53-4). Ritenendo quest’ultimo una forma di ricchezza sradicata, perché la circolazione del denaro valicava luoghi e confini nazionali, rendendosi indipendente dal controllo della politica e dello Stato, si perviene all’inevitabile conclusione che la circolazione dei grandi capitali finanziari è ebraica per definizione. Mentre il capitale produttivo era localizzato nel territorio nazionale, quello finanziario era mobile: il denaro era inafferrabile perché non conosceva frontiere. Insomma, il finanziere poteva pure non essere un ebreo; in ogni caso, i comportamenti rispondevano a una logica ebraica, essendo mutevole e indifferente al radicamento. Com’è stato notato in un saggio molto acuto sotto l’aspetto storiografico, a proposito dell’antisemitismo nazista (ma con lo sguardo rivolto alla rinascita dell’antisemitismo dopo il 1945), «L’antisemitismo moderno è […] una forma particolarmente pericolosa di feticismo. La sua forza e la sua pericolosità, risiedono nel fatto che esso propone una visione del mondo capace di spiegare e dare forma ad alcune forme di insoddisfazione anticapitalista, lasciando il capitalismo intatto e attaccando le personificazioni di questa forma sociale» (Postone, 2014, p. 42).
E siccome nell’epoca moderna finanza e rivoluzione procedono di pari passo, nel senso che, come stabilito nella logica del complottismo storico, la prima promuove le seconde (cfr., a titolo d’es., Preziosi, 1920, pp. 204-211) – come a dire che ogni rivoluzione, a cominciare da quella bolscevica, non costituisce altro che un rafforzamento della Finanza -, Soros è il supremo regista occulto dei movimenti che hanno costellato la politica mondiale dell’ultimo trentennio. Quello di Soros, infatti, consiste nello «sfruttamento e il finanziamento degli oppositori locali per favorire il regime change (dal polacco Solidarnosc, passando per la georgiana “Rivoluzione delle Rose” e le “Rivoluzioni colorate”, fino alle “Primavere Arabe”)» (Totolo, 2018, p. 9).
Ciò significa che il pericolo rappresentato da Soros non isulta limitato solo ai circuiti della finanza e dell’economia, come nel caso dei Rothschild o di Goldman Sachs. Nel caso dell’azione di Soros, si tratta di un pericolo ben più mortale per l’Europa, essendo di natura etnico-culturale in nome dei valori cosmopoliti: Soros è il cinico esecutore dello spietato disegno ebraico di imbastardire razze e culture, favorendo appunto l’immigrazione da Asia e Africa in Europa. Il progetto di imbastardimento costituisce l’obiettivo preliminare del più generale disegno di dominio economico: una volta distrutte le specificità culturali e dissolte le frontiere politiche e naturali, sarà stato facilitato il perseguimento dell’obiettivo di dominio mondiale.
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Ma è il caso di ricorrere alle lenti della storiografia per rileggere le cronache di un antisemitismo più o meno nascosto degli ultimi decenni. A quali cause storiche si è dovuta la sotterranea persistenza prima e la venuta allo scoperto dopo di posizioni antisemite?
Intanto, c’è un aspetto da rilevare. Il timore che le culture e le etnie europee possano essere “contaminate” da soggetti provenienti da paesi e continenti extraeuropei rimanda non solo a una visione statica dell’identità: questa è data una volta per tutte dalle origini e non accetta confronti e incroci con altre culture. Non a caso, nella tradizione teorico-politica razzista e antisemita era ricorrente l’affermazione che Dio aveva creato le razze e Satana aveva creato gli incroci razziali. L’uomo è cultura; e i rapporti fra gli uomini sono rapporti fra culture che, essendo radicate in un luogo perché risultato di generazioni precedenti, sono irriducibili l’una all’altra: le culture si possono comparare, ma non possono contaminarsi senza che siano snaturate le loro specificità.
Questa posizione, che in qualche occasione non recalcitra dall’ammantarsi di un storicismo deteriore, tradisce il suo obiettivo più ambizioso: la polemica contro la “contaminazione”, e gli “incroci” fra culture, così come quella, più o meno esplicita, contro l’ebraismo non è altro che la tradizionale critica contro l’universalismo. Già nel Mussolini incamminatosi lungo i sentieri dell’antisemitismo aveva avuto occasione di osservare che concetti come quello di «genere umano» appartenevano a «parole […] troppo evanescenti»( Mussolini, 1951-1990, v. XXIX, p. 190). Ad avviso del più originale teorico dell’antisemitismo fascista, il filosofo Julius Evola, il razzista «riconosce la differenza e vuole la differenza. Esser differenti, esser ognuno sé stessi, non è un male, ma un bene» (Evola, 1994, p. 23). Ed è indicativo che sempre Evola delineasse come l’obiettivo del razzismo fosse quello di ridiscutere un concetto, quello di “umanità”, su cui avevano insistito la tradizione giudaico-cristiana e la cultura dei Lumi. In quello che sarebbe rimasto uno dei pochi saggi dell’antisemitismo fascista degni di figurare in un’ipotetica galleria dei contributi teorico-politici più significativi dell’antisemitismo europeo, Evola coglieva pienamente nel segno, quando osservava che per la «dottrina razzista, l’umanità, il genere umano è un’astratta finzione» (Ivi, p. 13). Per Evola, – che su questo anticipava quasi alla lettera l’ultimo Hitler, disposto a riconoscere che «L’’umanità’ cui si rivolge il nazionalsocialismo è soltanto l’umanità tedesca» (Hitler, 2013, p. 34) – ammettere il concetto di “umanità” implicava il necessario rifiuto di riconoscere le differenze culturali e razziali. Quando poi le differenze sparivano, si rendeva impossibile non solo una gerarchizzazione degli uomini, ma la differenziazione delle razze, col risultato finale di rendere ingovernabile la società.
L’antisemitismo aveva ereditato dal razzismo l’orrore per le contaminazioni e gli incroci. Tra i temi più agitati nella cultura politica antisemita era presente la convinzione che una delle tattiche privilegiate dall’ebraismo per realizzare il dominio del mondo consisteva nel favorire gli incroci razziali al fine di indebolire il senso di appartenenza razziale: è un tema, come s’è appena visto, dominante nella polemica e nelle accuse contro George Soros. Lo stesso ebraismo, secondo l’antisemitismo, a cominciare da quello nazista, più che una razza costituiva una Gegenrasse, l’antirazza, ossia un incrocio fra le altre razze, a causa del nomadismo che aveva caratterizzato l’ebraismo europeo, l’ebreo assimilava le altre razze, incrociandosi con esse, per meglio ebreizzarle.
Questo tema s’incrocia con quello della razza come legame culturale: gli uomini possono legarsi tra di loro e stabilire relazioni non suscettibili di conflitti in forza dell’appartenenza a una medesima cultura, mentalità, religione ecc. L’uomo è una specifica cultura, ossia ciò che si aggiunge al Bios, la quale viene condivisa con altri uomini di un territorio o di una nazione; e le culture non possono incrociarsi senza snaturarsi.
In questo senso, l’antisemitismo contemporaneo non insiste più tanto sulla differenziazione fra “ariani” e semiti, se non in alcuni dei circuiti del radicalismo di destra più fedeli all’esperienza nazista, in quanto ha proceduto a una culturalizzazione della divisione fra ebrei e non ebrei.
La conseguenza è che l’approccio naturalistico ha subito modifiche e rielaborazioni, ma è comunque sopravvissuto pressoché intatto. Se prima del 1945 la differenza fra “ariani” e semiti era biologica, come stabilito dalle legislazioni nazista e fascista, e le differenze culturali, spirituali e di mentalità erano richiamate solo a ulteriore certificazione di queste differenze, dopo il 1945, con una rapida accelerazione soprattutto negli ultimi decenni, la divisione irriducibile è divenuta culturale. Se prima gli ebrei erano accusati di avvelenare le razze sotto l’aspetto biologico, incrociandosi con queste ultime, ora le avvelenano sotto l’aspetto culturale, favorendo i processi migratori in nome di quei valori e principi cosmopoliti e universalistici, a cominciare dai diritti umani e dal principio di uguaglianza, che, prima che essere stati promossi dalla cultura liberale prima e a quella democratica dopo, erano stati elaborati dall’ebraismo.
E tuttavia il concetto di “cultura” è stato declinato all’interno di un paradigma deterministico e naturalistico: siccome ogni uomo ha una propria cultura, data appunto dalle sue origini, e i rapporti sociali tra gli uomini possono verificarsi solo all’interno della medesima cultura, quest’ultima non può subire modifiche né contaminazioni o incroci con altre culture, senza snaturarsi impoverirsi.
Qui non solo il naturalismo, eliminato in seguito al disastro di Auschwitz, risulta confermato, procedendo a una naturalizzazione della cultura; ma si conferma il tradizionale giudizio dell’antisemitismo sulla modernità liberale come epoca storica del caos, economico e soprattutto razziale, degli incroci, del nomadismo, in una parola: dello sradicamento degli uomini, i quali vengono privati della loro cultura d’origine.
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