Il lavoro cos’è? E’ un’attività propria dell’uomo, dove l’individuo esprime le sue capacità? E’ una condanna ad essere sfruttati da un padrone? E’ un fattore secondario della vita di una persona? E’ la cosa più importante della vita di una persona? Il lavoro perché esiste? Non potremmo farne a meno? Tutte queste sono domande pertinenti anche se alcune, a prima vista, non sembrano essere tali. Guardiamo allora alle cose come stanno, da noi, nel nostro mondo, nella nostra civiltà. Una cosa è certa: noi trascorriamo la maggior parte del nostro tempo di vita al lavoro. Dunque disfarsene è impossibile ma la possibilità di disfarsene, di renderlo superfluo, è stata presa in considerazione da molti pensatori, anzi, se pensiamo all’automazione, è un argomento di grande attualità. Se parliamo del lavoro nel futuro, i tentativi di renderlo superfluo e di sostituirlo con delle macchine saranno sempre più numerosi. Ma ci sono alcuni lavori dove l’automazione non arriva, almeno finora.
La stragrande maggioranza delle persone lavora per vivere, più precisamente, lavora per guadagnare i soldi con i quali si procura i mezzi di sussistenza, i consumi, le vacanze, le cure quando si è malati, i bisogni della famiglia ecc..
Quindi la prima definizione esatta del lavoro è quella di una “prestazione a favore di terzi in cambio di una retribuzione”. E’ uno scambio: energia fisica o intellettuale applicata a determinati processi in cambio di denaro. Un lavoro non retribuito non può esser chiamato lavoro. Oppure deve sempre essere specificato: lavoro “gratuito”, lavoro “volontario” ecc.. Ma lavoro e basta, senza altri aggettivi, è solo quello pagato.
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Scegliere il proprio lavoro
Ma il lavoro non si trova in natura, non ti viene incontro. Al lavoro ci si deve preparare, poiché non è possibile eliminarlo – a parte il caso di persone che nascono ricche e possono vivere di rendita tutta la vita – bisogna prepararsi a trovarlo, bisogna imparare a cercarlo, soprattutto bisogna sforzarsi d’immaginare quale lavoro potrebbe essere più adatto a noi stessi, quale lavoro ci piacerebbe fare. Bisogna dunque interrogare se stessi, conoscere meglio se stessi, le proprie inclinazioni, le proprie qualità, i proprio punti forti e quelli deboli, bisogna guardarsi in maniera distaccata, impietosa.
Per prepararsi al lavoro occorre imparare, occorre apprendere, occorre studiare. Il lavoro se non è accompagnato da conoscenza non è lavoro. E qui le cose cominciano a diventare complicate. Cosa studiare, come studiare, perché studiare….Diventano MOLTO complicate perché ormai non esiste più una correlazione diretta tra percorso di studi e lavoro, com’era fino a una trentina d’anni fa dove chi aveva studiato da perito faceva il perito e chi aveva studiato medicina faceva il medico. Qui si apre la pagina enigmatica del “mercato del lavoro”.
Il mercato del lavoro
Cosa s’intende con questa espressione? E perché lo chiamiamo “mercato”? E’ la stessa cosa che andare a fare la spesa sulle bancarelle? No, non è la stessa cosa ma chiamarlo “mercato” è giusto. C’è un mercato quando c’è qualcuno che offre qualcosa in vendita e quando c’è qualcuno che vuole comperare. Noi in che posizione ci troviamo? In quelli che vendono o in quelli che comperano? Noi in genere siamo tra quelli che vendono. Vendono che cosa? Vendono le proprie competenze, vendono il proprio tempo, vendono la loro disponibilità. Per poter vendere abbiamo detto che c’è bisogno di avere qualcosa da vendere, le nostre competenze, ma c’è bisogno anche di sapere chi sono e cosa vogliono gli eventuali compratori. In termine tecnico si dice: bisogna conoscere la domanda di lavoro, bisogna avere delle cognizioni sulle esigenze dei compratori, bisogna cercare di capire di quali competenze hanno bisogno. E bisogna più o meno sapere anche quanto sono disposti a pagare per avere le tue competenze. Come si fa a saperlo? Ci sono due strade: una è quella di affidarsi a organismi che istituzionalmente funzionano da mediatori tra la forza lavoro disponibile e la domanda delle imprese del territorio. In alcuni casi, piuttosto frequenti, è la scuola o l’università, in particolare l’università, che si occupa di indirizzare i giovani che hanno terminato un percorso di studi verso possibili occupazioni o almeno suggeriscono ai giovani che hanno concluso gli studi dove e come orientarsi, in molti casi organizzano essi stessi direttamente degli stages presso aziende o amministrazioni pubbliche.
La seconda strada, più consigliabile, è quella di farsi una propria idea della situazione, cominciando proprio a scuola. Si deve imparare com’è fatto il territorio in cui si vive, dal punto di vista economico. Un po’ di geografia economica non fa mai male, i ragazzi uscendo dal liceo o dagli istituti tecnici debbono avere un’idea delle industrie esistenti sul territorio, delle imprese del terziario, cioè dei loro possibili datori di lavoro. E se la scuola non ci pensa, gli studenti queste cognizioni, queste informazioni, comincino a procurarsele da soli, utilizzando Internet. Ci sono istituti che si occupano specificamente di censire le aziende presenti sul territorio e non è difficile poi, sempre via Internet, sapere, almeno grosso modo, andando sui loro siti, cosa fanno queste aziende e da qui poter immaginare di che competenze hanno bisogno. Non fidatevi solo degli annunci di lavoro, cercate di cavarvela da soli. https://www.infojobs.it/offerte-lavoro/lombardia-milano/
Il curriculum, che tormento!
Di solito, un giovane o una giovane che cercano lavoro iniziano raccogliendo indirizzi, poi sparano curricula a destra e a manca e aspettano. Come si scrive un curriculum? Se uno non ha mai fatto nulla prima di aver finito gli studi, il curriculum è molto breve, in pratica riporta soltanto l’elenco degli attestati scolastici, magari qualcuno ci mette anche gli hobby e qualcun’altro si scopre ancor di più mettendoci le sue inclinazioni o aspirazioni. Ma c’è anche chi mette nel cv tutto l’elenco dei “lavoretti” che ha fatto per pagarsi gli studi o le vacanze. In generale c’è l’illusione che più roba si mette dentro un cv più attira l’interesse di chi lo legge. Io penso che sia il contrario. Bisogna tener presente che in genere le aziende, industriali o terziarie che sia, sono sommerse da domande di lavoro e se hanno bisogno di assumere qualcuno in genere lo dicono apertamente, mettono una specie di bando sul loro sito, specificando la qualifica e talvolta la mansione, cercando di essere più essenziali possibile. Oppure affidano l’incarico a qualche società di consulenza di trovare le persone adatte. Scoprono dunque le loro intenzioni il meno possibile. Quindi anche chi cerca lavoro dovrebbe dire solo l’essenziale, sapendo però che il passo successivo, quello del colloquio, è il più importante e talvolta ha un valore decisivo. Per voi potrebbe essere interessante, sempre tramite Internet, andare a vedere degli schemi di colloquio. Il mestiere del reclutatore, è un mestiere piuttosto diffuso, ci sono grandi società che si dedicano a fare questo servizio per le aziende e spesso mettono in rete dei fac simile di questionari per simulare un colloquio di assunzione. Assumere personale qualificato è un problema complesso, occorrono degli specialisti dentro o fuori l’azienda.
Assumere personale non qualificato è più semplice, in molti casi basta la fedina penale pulita. I Centri per l’Impiego e molte istituzioni pubbliche, dei Comuni, delle Regioni, oppure le associazioni padronali e imprenditoriali (Confindustria, Confartigianato ecc.) offrono servizi di orientamento a chi sta cercando lavoro per la prima volta oppure vuole cambiare lavoro. Tutto questo complesso e affollatissimo mondo di servizi per l’impiego non riesce però a evitare che tantissimi giovani italiani debbano passare molti anni della loro vita lavorativa in una condizione difficile e penosa di precarietà.
Saper lottare per un lavoro migliore
Il problema oggi, il dramma potremmo dire, non è quello di iniziare a lavorare ma di capire cosa succederà dopo aver iniziato. Situazione di precarietà vuol dire trovarsi nella condizione di dover ricominciare daccapo molto spesso, vuol dire passare da un contratto a tempo determinato a un altro. Sono state inventate diverse tipologie di contratto di lavoro, sempre tese a garantire flessibilità all’azienda, a scapito della sicurezza e della stabilità del dipendente. Perché accade questo in Italia? Dipende dalle forze spontanee del mercato oppure da scelte precise fatte dalle classi dirigenti del nostro Paese? L’uno e l’altro. Cominciamo dalle scelte precise.
Gli anni 70 sono stati anni di grandi conflitti sul luogo di lavoro, in particolare gli operai hanno voluto affermare il loro potere in fabbrica. Perché? Perché volevano farsi rispettare. Negli anni 50 e 60 c’era poco rispetto per il lavoratore manuale, c’erano condizioni umilianti, persino andare al gabinetto era un problema. Le fabbriche lavoravano su produzioni di grande serie con catene di montaggio, i ritmi di lavoro erano massacranti, molti non ce la facevano più e dovevano mollare, la donna non era rispettata malgrado fosse spesso in maggioranza sulle catene di montaggio. Ci fu quindi una rivolta, i sindacati lanciarono una serie di scioperi che ebbero grandissimo seguito ed ottennero condizioni migliori nei contratti collettivi, il Parlamento votò nel 1970 lo Statuto dei Lavoratori dov’erano previsti una serie di diritti degli operai e degli impiegati che le aziende avrebbero dovuto rispettare. Tra queste nuove norme c’erano anche quelle che prevedevano alcune tutele “forti” contro il licenziamento, il famoso articolo 18. Quindi la classe operaia godette di un potere contrattuale considerevole e questa situazione durò per circa dieci anni, mettendo in difficoltà i profitti delle aziende. Il capitalismo italiano a quel punto avrebbe avuto due strade davanti a sé: quella di accettare la sfida e di trovare un nuovo equilibrio con un grande salto tecnologico e organizzativo oppure quella di cercare di resistere senza fare grandi cambiamenti ed aspettare che la spinta dei lavoratori si esaurisse per stanchezza. Scelse purtroppo la seconda strada, utilizzando a man bassa lo strumento della Cassa Integrazione, riformata nel 1975, con la quale poteva scaricare parte delle difficoltà dell’azienda sulla fiscalità generale, in pratica mettendo fuori i lavoratori per dei lunghi periodi senza licenziarli e in certi casi pagandoli per anni e anni pur essendo a zero ore. Ma questa era una soluzione transitoria, la strada maestra per depotenziare il ruolo della classe operaia fu quella di cambiare sistema produttivo: non più un sistema fondato sulle grandi fabbriche ma sulla piccola e media impresa e sul sistema di subappalti. In pratica l’impresa restringeva la sua struttura al minimo essenziale ma “dava fuori il lavoro”, affidandolo a fornitori esterni e creando quindi una galassia di microimprese. In questo modo si otteneva il massimo di flessibilità – parola-chiave dell’industrializzazione italiana degli anni 80 e 90. Da un lato questa scelta ha permesso uno sviluppo molto accelerato, dall’altro però ha condannato l’Italia ad accontentarsi di una struttura industriale a basso contenuto tecnologico. L’innovazione tecnologica ha bisogno di ricerca e di una forte cooperazione con l’Università, ma la ricerca ha bisogno di fondi, ha bisogno di capitali che possono produrre profitti solo a lungo termine. La piccola-media impresa non ha questi capitali, dunque l’Italia ha acquistato una formidabile flessibilità ma ha dovuto rinunciare alle alte tecnologie. Poi è arrivata la globalizzazione ed ha dato il colpo di grazia al nostro sistema manifatturiero, innanzitutto mettendo fuori mercato la nostra industria di base – siderurgia e chimica – e poi creando una concorrenza con la nostra forza lavoro. Molte industrie italiane hanno spostato gli impianti nei paesi a basso costo del lavoro, hanno potuto farlo anche perché, lavorando con tecnologie elementari, non avevano bisogno di forza lavoro qualificata. Terzo fattore che ha indebolito la nostra struttura produttiva (e quindi la domanda di lavoro) è stata l’acquisizione da parte di gruppi stranieri di importanti aziende italiane, in particolare del settore alimentare, tessile, della moda, del lusso, della grande distribuzione oltre a numerose aziende meccaniche e chimico-farmaceutiche. Altre grandi industrie sono state rovinate dai loro manager e proprietari – la stessa Fiat – che oggi, grazie a Marchionne, sta rinascendo – la Parmalat e altre ancora. Quindi il panorama industriale italiano oggi si presenta molto deteriorato rispetto a quello degli anni 70. Se si pensa che, in seguito alla crisi del 2008 non ancora superata pienamente, l’Italia ha perduto circa il 25% della sua capacità produttiva, ci si rende conto che la domanda di lavoro espressa dal sistema delle imprese è del tutto inadeguata sia quantitativamente che qualitativamente all’offerta. Noi abbiamo una forza lavoro più scolarizzata di una volta, abbiamo un esercito di laureati che si presenta su un mercato dove spesso basta ed avanza un diploma per essere assunti e dove comunque, anche se si cercano dei laureati specializzati in determinate materie tecniche, non si hanno le risorse per pagarli adeguatamente. Infatti non sono le grandi imprese a trainare l’occupazione in Italia, ma le piccole imprese, quelle sottocapitalizzate e spesso in posizione di mera subfornitura nei confronti di altre imprese, di solito straniere. La precarizzazione dei rapporti di lavoro, la precarietà lavorativa dei giovani, non sono altro che la conseguenza di un modello economico e produttivo che ha bisogno di estrema flessibilità per poter stare in piedi, che ha bisogno di mantenere basso il costo del lavoro e quindi, poiché l’imposizione fiscale è pesante, addotta come unica strategia per stare a galla quella di pagare il meno possibile i dipendenti ed i collaboratori. Sono imprese che non hanno i capitali per fare investimenti, molto spesso dipendenti in maniera drammatica da un sistema bancario che è tutt’altro che solido.
L’Italia non è messa bene, ma Brescia….
Non entro nel merito del sistema formativo, può darsi che in questi anni si sia deteriorato anche il sistema universitario e dell’istruzione professionale, per cui i laureati che escono dalle nostre università non valgano niente – non lo credo, perché quando vanno all’estero si fanno valere e spesso sono meglio di tante altre nazionalità. Sta di fatto però che l’idea che circola nell’ambiente imprenditoriale italiano è che la preparazione e la motivazione dei giovani italiani lasciano sempre a desiderare e quindi sono loro che debbono migliorare, non le imprese. Io penso invece il contrario. Sono state le scelte disastrose compiute dalla classe dirigente italiana negli anni 80 e 90 che hanno portato allo smantellamento del nostro apparato industriale, come ha dimostrato un sociologo e storico di grande valore, recentemente scomparso, Luciano Gallino (“Il costo umano della flessibilità“, 2001, “La scomparsa dell’Italia industriale”, 2003, “L’impresa irresponsabile”, 2005, “Lo scandalo del lavoro precario”, 2014).
A che punto siamo adesso? Ci sono segnali di ripresa e questo è un fatto positivo, ma dobbiamo recuperare molto terreno prima di tornare al livello del 2007. Un documento recente dell’Istituto di Statistica lo dice chiaramente:
Negli anni 2009-2013 (…) le difficoltà delle imprese italiane nel competere sui mercati internazionali sono particolarmente evidenti per le produzioni tradizionali del Made in Italy, nelle filiere del mangiare-vestire-abitare, in un periodo caratterizzato da una crescita della domanda estera per questi prodotti superiore a quella media delle importazioni mondiali (…) Le vendite italiane all’estero sono state relativamente deboli in quasi tutte le categorie di servizi, con l’eccezione dei servizi di costruzione e di quelli della manifattura in conto terzi. In particolare, le esportazioni italiane di servizi ad alta intensità di conoscenza e valore aggiunto, che hanno un peso crescente nella struttura degli scambi internazionali, risultano relativamente poco sviluppate e hanno avuto una dinamica modesta nel periodo considerato (…) Dal 2015 i segnali di ripresa ciclica dell’economia italiana sono accompagnati da una dinamica positiva dell’export, nonostante il rallentamento del commercio mondiale, e da un migliorata capacità di penetrazione in alcuni mercati chiave. Il contenimento dei prezzi al consumo e del costo del lavoro ha determinato un progressivo recupero di competitività (…) Nel corso del 2016, le vendite di beni (meno quelle di servizi) hanno mostrato un andamento positivo; tra i servizi si segnala una dinamica modesta nelle attività a elevata intensità di conoscenza.
fonte: Istat, Rapporto sulla competitività dei settori produttivi. Edizione 2017.
Va detto subito però che voi che abitate a Brescia o nel territorio che gravita su Brescia, siete relativamente avvantaggiati rispetto a tanti altri vostri colleghi che abitano in città della stessa dimensione (lasciamo da parte Roma e Milano, che hanno caratteristiche un po’ particolari e irripetibili). Brescia è una delle poche aree rimaste in Italia ad avere un’incidenza del manifatturiero industriale relativamente alta: in termini di valore aggiunto l’industria incide a Brescia per il 35,3% mentre la media italiana è del 23,2% e quella della Lombardia del 26,6%. Dove c’è industria c’è lavoro e dove c’è industria è probabile che ci siano anche servizi a valore aggiunto. Tuttavia è inutile nascondersi che la situazione del mercato del lavoro in Italia resterà critica per qualche anno ancora, malgrado i segnali di ripresa.
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Pronti a gestire la precarietà
Quindi occorre attrezzarsi per affrontare un periodo di precarietà, una volta terminati gli studi. Molti approfittano di questo periodo d’inevitabile precarietà per fare delle esperienze all’estero. A questo proposito cosa posso dirvi? La conoscenza dell’inglese, una buona conoscenza, è indispensabile ormai, ma non deve rappresentare l’unico motivo per andare all’estero. Certamente, se vogliamo parlare di lavoro, di opportunità di trovare un impiego, sapere bene il russo, il cinese o l’arabo è molto meglio che sapere l’inglese, che ormai più o meno la maggioranza dei giovani conosce. Vivere un po’ all’estero è comunque consigliabile ma anche in questo caso occorre avere le idee chiare. Evitare di andare dove ci sono troppi italiani, perché inevitabilmente sarete portati a fare gruppo con loro. Sappiate però che andare un certo periodo all’estero non vi dà particolari garanzie di trovare un lavoro quando tornate, anzi. Un vantaggio in questo senso lo potete avere solo se acquisite delle conoscenze specifiche, delle competenze specialistiche. Ma ho visto molti giovani andare all’estero e non tornare più, spesso per condurre anche là fuori una vita da precari. Un sito dove potete trovare testimonianze e consigli sul vivere all’estero è www.repubblicadeglistagisti.it.
La vergogna del lavoro gratuito
Purtroppo c’è di peggio del precariato ed è il lavoro gratuito. Qui le insidie possono venire proprio da Internet. Tramite Internet vi possono far lavorare gratis e voi ci cascate senza accorgervi. Pensate a quanti pseudoconcorsi d’idee vi vengono proposti. Anche aziende di grande nome possono mettere su Internet una proposta del tipo: “chi inventa lo slogan più azzeccato per la nostra campagna pubblicitaria, vedrà il suo slogan pubblicato sul nostro sito con la sua foto” e simili. Per avere visibilità migliaia di persone si mettono all’opera sapendo di lavorare comunque gratis per qualcuno che invece dall’idea vincente trae profitto. Il lavoro gratuito è sempre più diffuso e quel che è peggio, sempre più accettato dai giovani come una cosa ovvia. Non so quanti di voi sono andati a vedere l’Expo a Milano nel 2015. Se vi ricordate, gli organizzatori lanciarono un appello per reclutare dei volontari, non mi ricordo se erano mille o duemila. Io misi su You Tube (lo potete vedere ancora) un controappello nel quale invitavo i giovani a non aderire al richiamo di Expo. Non si lavora gratis per chi dal tuo lavoro ricava un profitto. In questo modo si offende il volontariato, quello vero, che tanti giovani fanno per delle cause giuste e nobili: aiutare e soccorrere i terremotati, gli anziani, i disabili. Il volontariato è un gesto di generosità, di solidarietà, soprattutto di solidarietà verso gli altri. Il lavoro gratuito per chi da quel lavoro ricava un profitto o comunque un utile non è solidarietà, è pura stupidità. Ciò malgrado, migliaia di giovani si sono presentati per lavorare gratis all’Expo e credo che la maggioranza oggi sia disposta a farlo in moltissime altre occasioni, semplicemente per avere visibilità o per stare insieme alla gente. Lo giustificano dicendo che così fanno esperienze utili, che in tal modo arricchiscono il curriculum, tutte motivazioni che in realtà nascondono l’incapacità a misurarsi con il mercato del lavoro in maniera seria, scegliendo la soluzione più facile e più masochista. Purtroppo lavorare gratis è proprio delle professioni più qualificate, si comincia all’università e si lavora gratis per anni, per restarci dentro come ricercatore o futuro docente. Ci sono medici che lavorano per anni gratuitamente dentro cliniche universitarie e questo è davvero mortificante. Nel mondo degli eventi culturali è molto frequente, nei Musei, agli spettacoli. Il risultato è che “con la cultura non si mangia”, come ebbe a dire un Ministro. Il che significa la morte della cultura, anzi della produzione culturale, la cultura viene concepita solo come merce di consumo e gli stessi Musei rischiano poco alla volta di far parte della movida.
Concorrenza tra giovani: che schifo!
Ma c’è un’altra cosa che mi sta a cuore dirvi, oltre al lavoro gratuito. Se la condizione dei giovani rispetto al lavoro oggi in Italia è una delle peggiori d’Europa, se, come ebbe dire una volta il Governatore della Banca Europea Mario Draghi, in Italia ci sono i salari d’ingresso più bassi d’Europa, una parte della responsabilità ce l’hanno i giovani stessi, che praticano un devastante individualismo. Ciascuno pensa solo per sé e vede nel vicino un possibile concorrente, non una persona con i suoi stessi problemi. Questo porta a una concorrenza al ribasso, lo si vede oggi in tante professioni, in particolare nei lavoratori autonomi, nei tecnici, nei settori del futuro (telecomunicazioni, informatica, media) con il risultato che le condizioni di lavoro, non soltanto le retribuzioni, diventano sempre più degradate anche quando non si lavora in nero ma con regolare contratto (orari di lavoro oltre le 12 ore giornaliere, straordinari non pagati, lavoro nei giorni festivi, niente pause per mangiare, niente assicurazioni sul rischio). Tra l’altro, con l’abolizione dei voucher, si lavorerà in nero molto più di prima. Non bisogna quindi farsi concorrenza al ribasso, bisogna ritrovare la solidarietà tra chi lavora, accettando di assumersi dei rischi. “Se faccio storie, non lavoro più” è una frase che si sente sempre più spesso. “Se protesto mi licenziano”. Milioni di operai sono stati licenziati perché protestavano per avere condizioni più umane di lavoro ed era gente con figli a carico, che morivano di fame. Ma se non avessero fatto così non avrebbero mai raggiunto quella dignità e quel rispetto che alla fine sono riusciti ad ottenere. Se lo hanno fatto loro, che erano in condizioni economiche difficilissime, spesso analfabeti o avendo fatto appena le elementari, non potete farlo voi che vivete in famiglie dove non si muore di fame ed avete un grado d’istruzione superiore? La concorrenza al ribasso tra giovani è una delle maggiori piaghe della nostra società, finché dura questo comportamento la precarietà non solo non diminuisce ma peggiora. Che serve acquisire delle competenze se poi siamo disposti a svenderle?
Lavorare in proprio
Un modo per superare la precarietà può essere quello di mettersi in proprio, di diventare un lavoratore autonomo. Le istituzioni, la stessa Unione Europea, incoraggiano giovani e non più giovani a fondare delle start up. Negli Stati Uniti ormai un lavoratore su quattro è un freelance. Qui il problema dell’individualismo e della concorrenza al ribasso è ancora più acuto e rischia di impedire lo sviluppo di attività che invece avrebbero potuto crescere. Se per caso doveste scegliere questa strada, vi suggerisco di rivolgervi alla nostra associazione, ACTA, l’associazione dei freelance (www.actainrete.it ) che da una decina d’anni non solo si batte per i diritti dei lavoratori autonomi ma cerca di combattere la tendenza all’individualismo esasperato. Ha ottenuto già dei successi insperati, facendosi ascoltare dal governo ed ottenendo dei miglioramenti sul piano previdenziale e assistenziale. Tutti in ACTA lavorano come volontari. Uno dei fattori-chiave di successo di chi lavora in proprio è la possibilità di mettersi in rete, di costruire alleanze e opportunità di mercato con altri. ACTA ha costruito una rete internazionale, è sister organisation della grande associazione americana Freelancers Union che ha più di 300 mila soci, ha contribuito a fondare un’associazione europea che riunisce freelance di undici paesi. Vi può dare dei buoni consigli quando siete agli inizi. Il lavoro in proprio comporta dei rischi, ovviamente. Se qualcuno si mette in proprio offrendo solo le proprie competenze via Internet, senza fare investimenti che necessitano di un piccolo capitale, come affittare un ufficio, comperare dei macchinari, per mal che gli vada rimane al punto di prima. Ma chi ha affittato un ufficio, acquistato dei computer oppure ha aperto un piccolo negozio, lo ha arredato, ha comperato della merce e gli affari vanno male, alla fine non solo si ritrova disoccupato ma anche indebitato. Pertanto anche in questo caso occorre studiare bene il mercato, trovare quella nicchia dove c’è meno concorrenza ma soprattutto informarsi bene sulle problematiche fiscali e ricordarsi che tutti i soldi incassati da un lavoratore autonomo con le fatture sono delle somme al lordo delle tasse. In Italia purtroppo le tasse sono molto alte e il lavoratore autonomo quando incassa 100 euro rischia di doverne versare la metà allo stato. Per quelli che pensano di fondare subito una microimpresa, di costituire una start up, è necessario disporre di un capitale iniziale e sapere come si tiene un bilancio o come si progetta un piano d’impresa, un business plan. Ci sono delle istituzioni finanziarie che possono fornire un supporto, è il cosiddetto “microcredito”. Possono prestare dei soldi a tassi d’interesse non da strozzini e possono anche aiutarti nella gestione finanziaria. Le grandi banche in genere non fanno questo servizio, tendono a prestare soldi solo a chi può dare in garanzia dei beni. Per questo sono larghe di manica coi costruttori, con gli immobiliaristi, perché la banca che presta i soldi per costruire una casa si tiene come garanzia la casa stessa. Risultato: abbiamo molte aziende che potrebbero sviluppare dei prodotti interessanti e competitivi che non ricevono soldi dalle banche e immobiliaristi che costruiscono palazzi e grattacieli senza criterio, destinati a restare sfitti o invenduti, che ricevono dalle banche più soldi di quelli richiesti. Così le nostre città si riempiono di costruzioni inutili e le banche vanno in sofferenza, perché non riescono a rientrare dei loro prestiti. Fondamentali per la riuscita di un’iniziativa indipendente sono le reti di conoscenza, i contatti, e le capacità relazionali con i clienti. Ma più importante di tutto è l’attaccamento, l’amore, per il proprio lavoro, si deve scegliere una professione che piace molto, che ti gratifica, per poter sopportare gli orari di lavoro molto lunghi, i tempi di pagamento molto dilatati, in cambio di una certa autonomia e libertà. I lavoratori autonomi di nuova generazione utilizzano moltissimo gli strumenti informatici. Ed è proprio sull’uso di Internet che vorrei lanciarvi l’ultimo messaggio.
Saper usare Internet
La vostra è un generazione di nativi digitali, siete diversi dalla generazione dei vostri genitori, il mondo cambia a una velocità impressionante e gli stili di vita, soprattutto quelli condizionati dagli strumenti digitali, cambiano ancora più in fretta. Una volta si cominciava con il primo computer a entrare nel mondo virtuale di Internet, oggi con i telefonini di ultima generazione si entra in rete subito e si naviga per quell’oceano d’informazioni, di immagini, dove c’è di tutto e il contrario di tutto. Ci sono delle cose importanti ed interessanti e c’è tanta, tantissima spazzatura. C’è qualcuno che vi insegna come orientarvi in questo caos? Avete in mano uno strumento mediante il quale potete sapere delle cose importantissime, procurarvi delle competenze pari a quelle che potreste acquisire leggendo i libri di un’intera biblioteca e con una facilità e una velocità molto superiore di quella di una sala di lettura. Eppure tutte queste potenzialità non le sfruttate, non le sapete sfruttare e fate con il telefonino delle cose banali, mandare un sms, spedire una foto, ascoltare una canzone, chattare con un amico. Sostanzialmente il telefonino vi serve per passare il tempo, senza rendervi conto che state diventando sempre più soli, anche i giochi – che di solito si fanno in squadra – finite per farli da soli. E magari poco per volta cominciate a credere che la realtà virtuale che vivete con Internet sia più autentica della realtà concreta che sta attorno a voi. Vi sembra più naturale chattare con un cinese che non avete mai visto dall’altra parte del globo che scambiare due parole con il vicino che sta seduto in metropolitana accanto a voi. Eppure saper usare bene questi strumenti è importantissimo, anche per il vostro lavoro di domani, oltre che per la vostra vita quotidiana. Anch’io uso il computer come voi usate il telefonino, cioè lo uso in maniera elementare, come fosse una macchina da scrivere, lo uso per la posta elettronica e per fare delle ricerche. Non uso i social network. A me basta così, ormai la mia vita professionale è alle mie spalle, io mi sono formato nei licei di una volta e nelle biblioteche, ho insegnato a scuola, all’Università, in Italia e all’estero, e poi ho fatto 30 anni di esperienza come consulente dove ne vedi di tutti i colori. Ma ho anche avuto una breve esperienza, durata solo due anni, in una grande azienda che è stata la prima in Italia e produrre calcolatori elettronici, antesignani dei computer portatili. In quei due anni ho fatto amicizia con tanti colleghi che poi hanno continuato a lavorare nel campo dell’informatica e quindi per tutta la vita si sono tenuti aggiornati sulle tecnologie hardware e sui programmi software. Anzi, alcuni sono diventati famosi perché hanno scritto o tradotto i manuali più diffusi su come si programma o come si usano programmi come Windows e altri (adesso siamo arrivati all’ultima versione di Windows, la 10). Mi sono quindi rivolto a uno di loro, prima di venire qui e gli ho chiesto: “Tu che sei un superesperto, che cosa diresti a dei ragazzi delle scuole sui 16/17/18 anni a proposito dell’uso di Internet? Li metteresti in guardia dai rischi, dai pericoli che ci sono nell’entrare in rete senza sapere come muoversi, navigando….a vista?” E lui mi ha risposto: “Ma perché li vuoi spaventare? Loro nemmeno si pongono questi problemi. Però è vero che avere una maggiore familiarità con le tecniche ed i linguaggi del computer ti aiuta ad uscire da quella specie di dipendenza che si crea quando hai a che fare con dei sistemi così grandi e complessi che ti senti schiacciato e diventi un fruitore passivo e come tale finisci per ingoiare tutte le pietanze che ti vengono servite. Ti sembra di essere un soggetto attivo – o proattivo come si dice adesso – invece sei semplicemente un oggetto e finisce che nasce in te una specie di sentimento di soggezione verso un qualcosa di troppo grande per te, e d’ignoto, davanti al quale ti senti una briciola e quindi sei portato a fare tutto quello che questa potenza occulta ti dice di fare. Se vuoi comunicare con un tuo amico lo puoi fare solo con il linguaggio di questa potenza occulta, solo con i mezzi di comunicazione che questa potenza ti offre, se vuoi comperare qualcosa lo puoi fare solo attraverso i suoi canali ecc. ecc.. Diventa, senza che tu te ne accorga, una forma di dipendenza, mentre Internet e il WEB sono stati pensati come strumenti per dare a tutti maggiore libertà”. “E allora, tu cosa consiglieresti?” E lui mi ha risposto: “Io consiglierei a tutti, ma soprattutto ai più giovani, di entrarci dentro, di non essere dei fruitori passivi di Internet, di non starci di fuori ma d’imparare a lavorare con questi strumenti. Di cominciare a programmare, a costruirsi un proprio sito, per esempio. Dieci anni fa era una cosa difficile e complessa, oggi ci sono dei manuali che t’insegnano a farlo in maniera che un ragazzo o una ragazza di 15 anni, che sappia leggere e scrivere e conosca un po’ d’inglese, ci riesca, anche se non è uno ‘smanettone’, uno di quelli che sanno fare col computer delle cose incredibili e magari si divertono a fare gli hacker ed entrare nelle banche dati del Pentagono.” Io vi riporto quello che lui mi ha detto e che mi ha fatto pensare “alla mia età certamente non ho più bisogno di saper fare queste cose ma se fossi una giovane o un giovane di 15/16 anni mi ci butterei in un modo o nell’altro perché il mondo di domani verrà plasmato ancora più di oggi da queste tecniche. Anche e forse soprattutto nel mondo del lavoro”. Pensate a quelle aziende che invece di fare degli investimenti pazzeschi in macchinari, capannoni, magazzini per poter cominciare a produrre e cominciare a guadagnare solo dopo anni e anni necessari ad ammortizzare il capitale, diventano ricche in pochissimo tempo semplicemente perché hanno sviluppato un’app. Aziende come Uber, nata nel 2009 e vale già 20 miliardi di dollari. Pensate come lavora la gente per Uber o per le tante società di consegna a domicilio dei pasti (Glovo, Fodoora, Deliveroo ecc.). Lo chiamano il capitalismo delle piattaforme. E questo è solo l’inizio, chissà cosa inventeranno domani per sfruttare meglio la gente, il lavoro. Siete dei nativi digitali e non potete più tirarvi indietro. E non dimenticate che anche per lavorare nelle aziende più tradizionali, quelle dei miei tempi, è necessario ormai saper usare le nuove tecnologie in maniera disinvolta. Chissà quanta gente vi ha detto queste cose, io spero di avervi chiarito meglio PERCHE’ è necessario farle.
Dieci consigli per cavarsela bene
In conclusione, quali sono le cose importanti da ricordare? Primo: acquisire una sicura competenza ed imparare ad organizzare il pensiero in modo da sfruttare al massimo le informazioni che si accumulano, è importante sapere tante cose ma è assai più importante saper collegare tra loro le cose che si sanno. Secondo: conoscere il territorio in cui si vive, cercare di capire da soli quali sono le opportunità di lavoro e le competenze richieste prima di rivolgersi a degli enti che si occupano di orientamento al lavoro. Terzo: non accettare mai condizioni di lavoro umilianti, non accettare MAI di lavorare gratis, tenere presente che se si lavora gratis per un padrone il padrone successivo vi dirà: “e perché da me vuoi essere pagato? Mi credi più scemo del tuo padrone di prima?”, se vi propongono uno stage gratuito, ricordatevi che in Italia le Regioni hanno fissato dei minimi retributivi per gli stagisti. Soltanto se lo stage è inserito in un percorso di studi, per esempio un master, può essere gratuito. Quarto: ricordatevi che la concorrenza al ribasso nei confronti dei vostri coetanei è la cosa più stupida che si possa fare, perché troverete sempre qualcuno pronto a fregarvi il posto accettando di essere pagato meno di voi. Quinto: guardate su Internet le pagine delle società che reclutano personale, talvolta vi danno dei consigli su come presentarsi a un colloquio, altre volte vi fanno vedere un fac simile di questionario, quando scrivete un curriculum o quando parlate di voi per una possibile assunzione siate riservati, loro cercano di capire chi siete ma voi dovete cercar di capire loro come si muovono, potete fare anche voi delle domande. Sesto: quando il personale di un’impresa vi guarda dall’alto in basso e vi fa capire che valete poco, ricordatevi che se siamo in questa situazione difficile la responsabilità è in buona parte delle imprese stesse, quando vi parlano d’innovazione cercate di capire meglio di che innovazione si tratta, può darsi che sia tutta fuffa. Settimo: sapendo che, finiti gli studi, per la maggioranza di voi si apre un periodo di precarietà, cercate di programmare il modo migliore per affrontarla, se intendete andare all’estero pensate a delle soluzioni un po’ originali, qualcosa di diverso dal lavare i piatti in un ristorante di Londra o dal frequentare un costoso master alla London School of Economics. Ottavo: se decidete di mettervi in proprio, pensateci molto molto bene, se vi va bene riuscite appena a sopravvivere, i primi anni, se vi va male tornate disoccupati come prima e per di più indebitati, rivolgetevi sempre e comunque a ACTA, che vi può indirizzare anche verso altre associazioni, più specificamente dedicate a singole professioni. Nono: non dimenticate mai che avete la fortuna di vivere in una delle poche aree industrializzate d’Italia e certe opportunità di lavoro che vi si offrono qui nel Bresciano non le trovate altrove. Decimo: Last but not least impadronitevi dei linguaggi del computer, sappiate che ormai la rete è controllata da grandi corporations, che ne minacciano l’autonomia e la libertà, ma il modo migliore per difendersi e riacquistare una propria indipendenza è quello di entrare nel mondo dei linguaggi informatici e possederne almeno i rudimenti, restarne di fuori vi può creare un forte handicap. Ricordatevi che dentro la rete sono accumulate informazioni che potrebbero riempire centinaia di biblioteche, non c’è solo Wikipedia. Saper sfruttare questo patrimonio significa già aver fatto un bel passo in avanti. E per finire: buona fortuna!
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