In mezzo a tante tragedie, c’è un aspetto a suo modo grottesco della guerra in Ucraina. Riguarda la frenesia con cui si aumentano le spese militari (e le armi mandate al fronte) per combattere un “nemico” da cui si dipende per tutta la struttura economica. Si pagano le forniture che lo tengono in piedi e poi ci si indigna se il “nemico” si azzarda a ridurle. Intanto, nessuno può ragionevolmente dire quanto dovrà protrarsi questa guerra guerreggiata, né quanti morti dovrà esigere. Resta in piedi, malgrado acuti e ben informati strateghi la escludano, la minaccia di un olocausto nucleare. Che però è solo una possibilità, mentre l’estinzione dell’umanità per l’incombere della crisi climatica e ambientale è una certezza, ribadito e accelerato com’è dagli “effetti collaterali” del nuovo scenario bellico che si disegna in questi mesi. Guido Viale ne conclude che, a leggere certi articoli particolarmente intrisi di inviti a combattere fino “alla vittoria”, sembra di vivere in due pianeti diversi: quello dove le “ragioni” degli Stati vanno anteposte alle vite dei loro cittadini e quello dove solo la sollevazione della voce dei cittadini potrebbe ridurre alla ragione i governi degli Stati.
Nell’arcipelago del “pacifismo” (oggi “putinismo”) di chi in queste circostanze è contrario all’invio di armi all’Ucraina – la maggioranza, sia in Italia che in Europa – c’è una componente, più radicale o, se vogliamo, più irremovibile nelle sue posizioni, contraria alla guerra e alle armi sempre, perché è contraria a uccidere per motivi morali; motivi che fanno aggio su qualsiasi altra considerazione di ordine politico o sociale.
Ma ci sono altre componenti, forse meno circoscrivibili, perché fanno dipendere le loro scelte o il loro orientamento dalle circostanze, che sono contrarie ad alimentare questa guerra per considerazioni di altro genere, che afferiscono tutte agli interrogativi relativi ai suoi possibili esiti.
Anche nel vasto e vincente, anche se non maggioritario, campo di coloro che sono favorevoli all’invio di armi all’Ucraina o, addirittura, di quante più armi possibile (“Che cosa manca oggi? Armi” riferisce Adriano Sofri) c’è chi invoca innanzitutto – e gli va accreditata sincerità – ragioni di ordine morale: se uno è aggredito con le armi deve difendersi con le armi. Anzi, bisogna aiutarlo a difendersi o addirittura difenderlo noi: con le armi.
L’alternativa è la resa, che vuol dire perdita della libertà, dell’onore, della dignità, per lui o lei; e l’abbandono, per noi. Altri invece, all’interno di questo campo, antepongono la volontà o il bisogno di salvaguardare o di alterare i rapporti di forza vigenti, cioè la politica, a ogni altra considerazione.
Questo è probabilmente il motivo di fondo per cui l’indignazione che si prova per l’aggressione russa all’Ucraina non si riscontra per quella della Turchia, membro della Nato, al Rojawa (unica vera democrazia del bacino del Mediterraneo) o per l’occupazione della Palestina da parte di Israele.
A tutti va comunque dato atto, salvo prova contraria, di provare orrore per la strage di giovani vite, di donne, bambini e anziani sopraffatti dalle manovre belliche; o costretti a fuggire, a rintanarsi, a subire stupri e violenze; o a dover affrontare, nel migliore dei casi, un futuro oscuro e difficile. Anche se in alcuni queste immagini hanno il sopravvento su tutto il resto, mentre altri riescono in qualche modo a metterle da parte.
Nessuno nega a chi è aggredito il diritto di difendersi. Ma come? I fautori dell’invio di armi all’Ucraina non pensano mai che quel paese, se non ne avesse già ricevute in abbondanza prima e dopo l’inizio dell’aggressione russa, avrebbe dovuto per forza fare ricorso alle risorse della mediazione, chiamando in aiuto tutti i potenziali alleati; non per combattere, ma per richiamarli alle loro responsabilità (“l’abbaiare ai confini della Russia” di papa Francesco, ma anche di una lunga lista di “esperti” che la politica estera la conoscono e l’hanno praticata). Perché è chiaro che a monte e all’origine di quell’invasione c’è un confronto tra Nato e Federazione russa improntato all’ostilità e non certo alla collaborazione.
Queste considerazioni vanno fatte non per “scaricare” o per dividere le responsabilità, ma perché sono a base di partenza di ogni possibile piattaforma di mediazione e di risoluzione del conflitto.
Certamente, più quella guerra si protrae e incancrenisce, accumulando vittime, devastazioni, angherie e odio, più sarà difficile individuare le basi di una possibile cessazione delle ostilità. Forse è per questo che coloro che non vedono altra via per raggiungere un risultato che l’invio di sempre più armi non si pongono la domanda: dove si pensa di arrivare?
Alla vittoria? Quale vittoria? La destituzione di Putin o la disgregazione delle Federazione russa? Per perseguire – non dico raggiungere – quel risultato lo “sforzo bellico”, cioè i morti da esigere dal popolo ucraino, ma anche da quello russo, dovranno venir moltiplicati per mille.
E anche se c’è chi, come Luigi Manconi, sostiene che l’arma atomica non è una minaccia, perché anche dopo la dissoluzione dell’URSS permane comunque nel mondo un equilibrio della deterrenza che la mette fuori gioco, va ricordato che a capo della Federazione russa c’è un uomo paranoico (come tutti i dittatori), forse con i mesi contati, che desidera solo lasciare un suo segno sulla Storia (e non che sull’altra sponda la leadership brilli per lucidità). Questa è sicuramente una delle – sacrosante – ragioni che spingono molti ad approdare all’arcipelago dei “pacifisti”. Altro che putiniani!
Ma anche dando credito a posizioni come quella di Manconi, e ipotizzando che il conflitto rimanga confinato entro il recinto delle armi “convenzionali”, tra droni, laser, satelliti, razzi ipersonici, per non parlare di gas e armi biologiche di cui è difficile individuare l’origine, le nuove armi in cammino verso il fronte da entrambe le parti hanno cambiato ancora una volta le caratteristiche della guerra.
L’aspetto più grottesco di questa guerra è comunque la frenesia con cui si aumentano le spese militari e le armi mandate al fronte, per combattere e contrastare un “nemico” da cui si dipende per il funzionamento di tutta la struttura economica, pagando profumatamente le forniture che lo tengono in piedi; e poi indignandosi se solo si azzarda a ridurle o a interromperle.
Ma quale esito ci si può aspettare se Zelensky non può trattare se non dopo aver ripreso l’iniziativa sul fronte dei combattimenti e Putin nemmeno?
Quanto dovrà protrarsi questa guerra guerreggiata? E quanti morti dovrà esigere senza nessuna prospettiva precisa? Questo è un punto. Ma ce ne è un altro che domina su tutto, compresa l’eventualità di un olocausto nucleare, che è solo una possibilità; mentre l’estinzione dell’umanità per l’incombere della crisi climatica e ambientale è una certezza.
Le guerre, e particolarmente questa, sono un potente fattore di accelerazione della crisi climatica, sia sul fronte dei combattimenti, che consumano risorse, devastano il territorio e emettono gas climalteranti, sia nelle retrovie della “vita civile”, dove sta bloccando e invertendo tutte le timide misure, prospettate più che varate, di contenimento dell’aumento della temperatura planetaria: a partire dalla frenetica ricerca di nuove fonti di combustibili fossili per sostituire quelli russi.
Leggendo qualche articolo di coloro che si schierano senza se e senza ma dalla parte della fornitura di armi all’Ucraina, senza nemmeno prendere in considerazione la possibilità di promuovere subito una mediazione che, in fin dei conti, dovrebbe far capo agli stessi Governi che quelle armi le forniscono e le promettono, a me pare che stiamo vivendo in due pianeti diversi: uno dove le “ragioni” degli Stati devono prevalere sulle vite dei loro cittadini; e l’altro dove la consapevolezza e la mobilitazione dei cittadini dovrebbero ridurre alla ragione i rispettivi Governi.
Fonte: comune-info 18-06-2022