Sappiamo da decenni che il regime di apartheid instaurato dai governi israeliani nei Territori Occupati non potrebbe sopravvivere una settimana in più senza l’enorme, dispendioso quanto strategico “lavoro” sui media di mezzo mondo. È anche così che Israele vince la sua guerra insaziabile, dalla metà del secolo scorso. L’assassinio di Shireen Abu Akleh, notissima giornalista palestinese di Al Jazeera, ha sollevato grande indignazione, perché lei era straordinariamente brava e, forse, anche perché, dopo tutto, era anche una cittadina statunitense. Ma Shireen era soprattutto una giornalista onesta, dunque non nascondeva il suo punto di vista come fa chi mente spudoratamente dicendo di voler separare i fatti dalle opinioni. Basta leggere il suo bellissimo e appassionato ricordo di Jenin che abbiamo pubblicato in occasione del suo omicidio. “È la città che può alzarmi il morale e aiutarmi a volare. Incarna lo spirito palestinese che a volte trema e cade ma, al di là di ogni aspettativa, si rialza per perseguire i suoi voli e i suoi sogni”, scrive. Il suo omicidio – il proettile che l’ha uccisa ha colpito una zona precisa della testa non coperta dall’elemetto che indossava in quanto reporter in zona a rischio – è stato oggetto di molte importanti inchieste. Come sempre, Israele ha cercato di far credere che fosse rimasta uccisa da un colpo palestinese avvenuto in circostanze non precisate. Era in effetti difficile, stavolta, parlare di “scontri”. Il colpo veniva con tutta evidenza da un’unità di élite di un convoglio militare israeliano. Vicino a lei non c’erano palestinesi armati ma colleghi, tutti con la grande scritta “Press” sul giubbotto. Dai militari sono partiti all’improvviso, senza alcun preavviso, 16 colpi, non uno sfuggito per caso. Come in centinaia, forse migliaia di altre volte. Alessandro Ghebreigziabiher coglie l’occasione per una riflessione che va ben al di là di questo ennesimo assassinio a sangue freddo, per allargare il discorso sull’informazione, la guerra e il giornalismo asservito non alle ideologie ma ai soldi e al potere. Si domanda, quasi con disarmante e disarmata sincerità: ma come fate? Come fate a scrivere quel che scrivete sull’Ucraina e a scrivere (o, peggio, non scrivere) quel che scrivete di altri massacri e occupazioni in altre parti del mondo? Come fate a guardarvi allo specchio? E conclude con un interrogativo che invece, forse, investe soprattutto chi legge e ha perso la capacità di pensiero critico rispetto a quel che ci viene raccontato: perché dall’undici maggio a oggi c’è bisogno che lo dica anche il New York Times per ammettere che i soldati israeliani hanno ucciso una giornalista palestinese mentre cercava di fare il suo dovere in Cisgiordania? Ancora: se ne avete lo stomaco, leggete con attenzione, parola per parola, come Rai News, cioè l’informazione autorevole, un servizio pubblico, riesce a dare, dopo 40 giorni, la notizia della verità sul proiettile finalmente “accertata” dal New York Times. Qui vi lasciamo solo un assaggio, il sottotitolo, per non guastarvi la sorpresa e la digestione: “Non ci sono comunque prove che la giornalista di al-Jazeera sia stata colpita volontariamente scrive il quotidiano statunitense”.
Un mese e dieci giorni dopo l’ennesimo, ancora impunito, omicidio di una giornalista, vorrei parlare di giornali e più che mai di proiettili.
Di proiettili che uccidono, ma quando è il dolore di chi resta a essere ancora caldo, più che il corpo di chi scompare, risulta quasi inutile puntare il dito sul più probabile degli assassini.
Malgrado sia lì a un passo, unico ad aver potuto colpire a morte l’innocente con tale precisione e altrettanta paura. Perché per molti a questo mondo non c’è nulla di più temuto di un’anima onesta dotata di particolare coraggio.
Nondimeno, a distanza di quasi quaranta giorni e altrettante notti di tale torrida anticamera di un’imminente estate, vorrei parlarvi soprattutto di altri, apparentemente invisibili proiettili.
I proiettili dei colpevoli, che continuano a sparare imperterriti e a far male, lì dove ancora duole e così sarà per sempre, nel negare l’evidenza di un crimine che va ben oltre il singolo colpo di fucile.
I proiettili di coloro che sono testimoni oculari, che sia l’occhio o la stessa coscienza a ritrovarsi nudo di fronte al ripetuto delitto, ma sebbene abbiano il dovere di raccontarlo al mondo senza addolcir parole o attenuar colori, si permettono addirittura di farsi megafono della menzogna, del travisamento, o perfino della perversione di un cerchiobottismo da cui non smetto mai di restare inorridito. Al punto da riuscire a mettere sullo stesso piano il vivo con la pistola fumante in mano e il cadavere dell’ucciso.
Eppure alcuni si chiamano giornali, notiziari, settimanali o quotidiani, in breve stampa, altrettanto in sintesi, il nulla.
Perché a forza di silenziare la verità che infastidisce il finanziatore di turno, se oramai sei finito per prender soldi da chiunque te ne offra, cosa ti resta da pubblicare se non un grosso zero ripieno di banalità e luoghi comuni?
Ma poi devi stare attento ai proiettili di governanti e politicanti amici, di quelli complici alla luce del sole o tali a busta chiusa, di simpatizzanti con interessi strategici o i sempre comuni alleati non richiesti. Perché non sai mai cosa ti riservi il futuro o anche solo la prossima guerra, ecco.
E come non parlare di tutti gli altri proiettili, che uccidono o altrettanto dilaniano il corpo e tutto il resto, che sia tangibile o meno, e che occupano incessantemente l’intero palco. Allora per settimane intere di quel mese e dieci giorni, innanzi allo spettacolo dell’omicidio in prima pagina, non puoi fare a meno di dispiacerti per mogli e figli trucidati in modo folle e insensato, come di intere popolazioni decimate in modo lucido e ragionato.
Nondimeno, se è davvero il crudele sacrificio di vite senza colpa a essere in cima ai vostri pensieri, perché operate una scelta tra un martirio e l’altro?
Come ci riuscite?
E quando avete terminato tale iniquamente parziale compito, come fate a tornare a casa e dormire sereni?
Sono forse io a non aver ancora compreso appieno, nonostante l’età, il senso del mestiere di cronista di fatti e attualità?
In altre parole, le meno equivocabili, perché dall’undici maggio a oggi c’è bisogno che lo dica anche il New York Times per ammettere che i soldati israeliani hanno ucciso una giornalista palestinese mentre cercava di fare il suo dovere in Cisgiordania?
Non fate lo stesso lavoro?