Non credo esista chi in questi ultimi anni non abbia pronunciato la parola populismo. Sulla bocca di tutti nella storia, anzi nella cronaca italiana attuale, resta una parola di difficile definizione, di sfocata accezione. Nasce per designare un movimento culturale e politico russo di fine ottocento, antecedente alla rivoluzione di ottobre, volto al miglioramento della arcaica società di servi della gleba (le anime) ed inteso ad un socialismo rurale di stampo direi Tolstoiano, in opposizione sia all’asfissiante oppressione burocratica zarista, sia all’emergente industrializzazione occidentale. Per estensione si tramuta in un atteggiamento idealistico che esalta il popolo come unico depositario di valori totalmente positivi. Più recentemente e con un preciso riferimento al mondo latino americano e in specie al peronismo argentino disegna una specifica prassi politica, caratterizzata da un forte, diretto rapporto tra il capo carismatico e le masse popolari, che appare in grado, usufruendo a questo specifico fine dell’appoggio della borghesia capitalistica, di mediare la transizione dall’economia agricola a quella industriale. Molto più recentemente il populismo ha preso ad indicare una sorta di “disturbo, se non proprio malattia, delle nostre democrazie occidentali. Le quali sembrano andare incontro ad una dolorosa perdita di rappresentatività, cui fa seguito la contrapposizione tra la gente comune e l’ élite, tra popolo e casta, tra demos e cratos. Il binomio destra—sinistra si tramuta in quello basso—alto. La difesa di una massa, rappresentata come omogenea, dallo sfruttamento che viene da sopra, crea presto un altro fronte di difesa verso un pericolo che si vede situato ad un livello inferiore: gente comune versus stranieri, migranti, immigrati: neo occupanti uno spazio vitale e incedibile. Il populismo deriva nel sovranismo con estrema facilità. Oggi, quando viene usata, la parola populismo sembra avulsa da qualsiasi sottinteso dottrinale e riferirsi semplicemente al modo istintivo, pressappochista, sintetico, demagogico e opportunista di alcuni leader politici di rivolgersi al proprio pubblico. Questo fenomeno è stato facilitato in primo luogo dall’enorme sviluppo dei “social” che permettono una comunicazione non solo capillare, quanto,in un certo senso, personale e partecipativa. Secondariamente dalla fine di un’attività politica di “apparato” che non consentiva deroghe da un percorso e una una prassi severa e, diciamo pure, istituzionalizzata. Il leader populista è un demagogo che promette l’impossibile facendolo apparire di facile attuazione e strumentalizza la paura esacerbando pericoli e negatività. Le promesse sono spesso in contraddizione perché il leader populista ha la capacità invidiabile di prendere una parte per il tutto e quindi vedrà solo le esigenze e gli oscuri desideri dei panettieri se parla ai panettieri e solo quelle degli avvocati se parla agli avvocati. Non è più l’attrazione delle moltitudini indotta da un carisma che lascia intravedere la realizzazione di un sogno, ma un metodo per acquisire consenso: attraverso una ossessiva presentazione e offerta di sé e attraverso l’appoggio verbale totale e incondizionato a qualsiasi richiesta che appaia come l’espressione di un disagio. Questo nuovo populismo non tiene in alcun conto né le questioni generali di metodo politico, né le contraddizioni che emergono. Si tratta di un procedimento molto meno spontaneo di quanto si immagini e richiede la consulenza di fior di esperti in tecniche della comunicazione, per ottenere i migliori risultati. Laddove per risultato si intende la crescita nei sondaggi e la vittoria elettorale. I professionisti ad hoc sono utilissimi per acquisire meriti mentre si mangia la pizza ed evitare scivoloni quando si commenta una notizia. L’abilità consiste nel rendere le parole più importanti dei fatti, il messaggio subliminale attinente all’ego molto più importante di ogni visione programmatica sul futuro, quando pure sussista un programma di cui la propria persona non sia conditio sine qua non. Il populismo moderno è un codice normativo di autoaffermazione attraverso l’ossessiva ricerca di consenso e visibilità, conseguenza probabilmente inevitabile della straordinaria efficacia degli attuali sistemi di trasmissione delle informazioni (parole ed immagini) in tempo reale e in quantità stratosferica. La verità si sottomette all’abbondanza, alla replicazione, alla falsificazione. Senza dubbio Internet e con esso tutti i social network, le app, le piattaforme hanno dato vita, al principio di questo XXI secolo dell’era cristiana, ad una nuovo capitolo della storia dell’uomo, come lo furono ad esempio l’età del ferro o quella della rivoluzione industriale. A questo proposito consiglierei a chi ancora non lo ha fatto la lettura (semplice, appassionante e formativa) del notissimo corposo saggio di Yuval Noah Hararari (storico, docente alla Hebrew università di Gerusalemme e magnifico divulgatore) intitolato “Sapiens. Da animali a dei”, edito in Italia da Bompiani a partire dal 2014. Su YouTube le sue lezioni hanno registrato centinaia di migliaia di visualizzazioni. Appunto. A parer mio (un parere molto sommesso) capita spesso che si elimini tutta la fatica necessaria a costruire qualcosa da poi dire (spesso ci vuole una vita intera e spesso non si raggiunge mai il risultato) e si passi direttamente al costruire attraverso ciò che si dice. Il punto focale di questo metodo è tenere il sé al centro dei propri pensieri. La forza di questo metodo si realizza quando gli altri (i seguaci clientes) hanno la sensazione di poter interloquire alla pari, interagire direttamente col capo. Il populismo, in quella che io ritengo essere la sua attuale accezione lessicale, è un analogo moderno dell’antico sistema democratico ateniese, al quale siamo enormemente debitori, innanzitutto per essere stato il primo sistema repubblicano della storia, e poi per averci reso così come siamo: artefici consapevoli del proprio destino e ribelli a qualsiasi potere teocratico assoluto. Tuttavia si trattava pur sempre di una repubblica assembleare e, dati i tempi, piuttosto priva di intermediazioni organizzate e molto fidente sulla buona oratoria, al momento di prendere decisioni. Come nei discorsi infiammati di allora, la retorica populista è articolata in sezioni di cui le principali sono: strumentalizzare fatti e accadimenti, strumentalizzare persone e parole, ignorare il nemico finché non lo si può distruggere (il termine odierno è asfaltare), infangare l’avversario, mostrarsi, mostrarsi e mostrarsi. Riporre in sé verità e compiacenza. Si tratta dunque di un codice divulgativo, di uno stile all’interno del quale la gestione degli avvenimenti e delle istanze sociali avviene prevalentemente attraverso avvisi, slogan e advertisement, mentre le azioni rimangono sullo sfondo spesso incomplete, oscure, parziali e interessate. Oggi ritengo che il termine implichi un problema preciso di informazione, anche di gestione ovviamente, ma di gestione attraverso l’informazione. Il popolo dei populisti ha una dimensione correlata al numero dei like e i don’t like non godono di vita propria. Già al tempo di Pericle i sofisti insegnavano ai giovani ateniesi della buona società a ottenere il consenso su tematiche indifendibili. L’arte retorica era considerata una acquisizione fondamentale nell’esercizio politico. È vero che gli ateniesi non possedevano smartphone, ma il loro mondo era molto più piccolo e bastava la voce per farsi sentire.
La comunicazione istantanea sui social network come twitter, facebook e youtube, non aliena da alcuni eccessi e molte cialtronerie, ha uno scopo preciso. Essendo emotiva, sintetica, spesso grossolana e “dialettale in senso lato”, cioè popolare, rassicura o assicura “il popolo” sul proprio pensiero reale profondo. È come se si dicesse: “io sono così, sono come voi, questo è quello che penso davvero. Quando mi vedete in circostanze ufficiali, conferenze stampa, raduni istituzionali, televisione, interviste, sappiate che io sto operando un compromesso, nascondo una parte di me in vista del fine ultimo, per il vostro bene.”
Si realizza così un duplice effetto: i followers si sentono soddisfatti e protetti dai cinguettii e i meno informatizzati sono portati piuttosto a dare fiducia all’atteggiamento rassicurante, al “doppiopetto” sempre indossato al cospetto di media tradizionali come la televisione e diventare nel caso un po’ meno ostili e un po’ più attendisti (quieti moderati in attesa). La ricerca parossistica dei like produce invece un paradosso: il capo diventa follower dei suoi followers. Il popolo comanda, era ora!
Stiamo regolarmente assaporando il passaggio dall’opinione pubblica all’emozione pubblica e la colonizzazione della sfera pubblica da parte di quella privata. Imperano il gossip e la dimensione intima della politica, la sindrome narcisistica che affligge ormai gli individui e che come effetto produce il loro concentrarsi sul qui ed ora e sulla gratificazione immediata a scapito del passato e del futuro, l’imporsi di un universo simbolico-cognitivo di slogan nel quale ormai si fatica a distinguere cos’è reale e cos’è invece falso o artefatto, la trasformazione dei “condottieri” politici in seguaci preoccupati solo di inseguire e assecondare il loro pubblico, una sorta di sottinteso ridimensionamento delle autorità istituzionali, culturali e addirittura scientifiche nel nome di una visione orizzontale e radicalmente egualitaria dei rapporti sociali.
È un fatto infine che la politica abbia ormai da anni adottato le tecniche verbali e posturali dell’intrattenimento televisivo, sino a restare vittima di un linguaggio sempre più semplificato e di un modo di agire che non puntano più al convincimento attraverso la ragione ma alla seduzione attraverso lo spettacolo. Un popolo senza ideali non ha prospettive per esaminare le sue mancanze.
Il populismo è una degenerazione (forse una conseguenza triste) dell’idea di popolare (pop) la cui migliore connotazione consiste nella comprensibilità, trasmissibilità e condivisione di modelli culturali (pattern) espressi attraverso singole epifanie, in grado di determinare un flusso, una corrente, una tendenza, un trend. Naturalmente la parola popolare è neutra, non contiene in sé null’altro che la sua ampiezza e non entra nel merito dei messaggi condivisi.
C’è stato un tempo e dei luoghi in cui Verdi era senz’altro pop, mentre più recentemente Elvis Presley è stato un emblema globalizzato del pop ed antichi canti popolari sono stati declassati a folklore. L’antirazzismo è un sentimento pop (come il suo contrario), la cura della propria immagine corporea è oggi molto pop, l’idea di patria è meno pop di un tempo non lontano e per un certo tempo il fascismo (sistema partito) è stato davvero molto pop in tutt’Italia. Moda e Ideologie sono creazioni mentali che trovano il loro senso nella determinazione che pongono a diventare pop utilizzando tutti i mezzi di comunicazione possibile. Indipendentemente dal miglioramento che sono in grado di determinare o dalle tragedie che si potranno verificare. Il pop muta le attitudini di intere popolazioni, cambia l’aria che la gente respira. Il pop ha la caratteristica di autolegittimarsi, di essere il nuovo vitale che sostituisce il vecchio morente e il bello col brutto, il giusto con l’ingiusto, l’utile con l’inutile. Il pop attribuisce grandezza morale a se stesso e laddove non realizza un atto, mette in funzione un desiderio. Quando spesso sentiamo parlare di tramonto delle ideologie (di solito in articoli che esprimono giudizi sul movimentato e in gran parte tragico secolo breve) siamo di fronte ad uno degli aspetti della coscienza collettiva; la stiamo osservando mentre sostituisce il vecchio pop con un altro, nuovo e confacente. Certo, per molti è uno shock; non è facile assistere indifferenti al crollo di un castello di valori ai quali eravamo così abituati da considerarli irrinunciabili. Però non dobbiamo dimenticare che se ci aspetta un periodo di pragmatismo sgangherato, questo è una creazione della nostra mente esattamente come ciò che lo ha preceduto. Ci vuole acume per accettare nuove categorie di pensiero e intravederne le molteplici potenzialità. La coscienza collettiva rinnova la casa: un po’ di cose le prende qua e là, un po’ sono state appena inventate e costruite, nuove di zecca e si sa che il nuovo è dotato di un grande fascino, un po’ di roba invecchiata e scrostata la dà via, la distrugge, la nasconde sotto un tappeto. L’importante è respirare aria nuova, ringiovanire, avere a disposizione un ambiente abbastanza sgombro da poterci sistemare nuovi meravigliosi acquisti. Poi, gli storici esamineranno il cambiamento e lo divideranno per epoche. È la storia, ragazzi! In questo modo tutto succede. La rivoluzione francese e le guerre napoleoniche hanno cambiato il mondo quando hanno cambiato il pop.
Via il secolo dei lumi, il positivistico trionfo della ragione, avanti tutta con l’aspirazione all’infinito, la comunanza al dolore, la passione, lo sturm und drang. La poltroncina preferita di Voltaire se l’è presa un rigattiere a buon prezzo; Pangloss, nel migliore dei mondi possibili, non sa più dove recarsi. Neppure lui ce la può fare col Faust, e la profonda tristezza di Leopardi lo lascia basito ma gli risulta incomprensibile.
La comunicazione sembra che si avvii a svolgersi su canali sempre più stringati. Incapace di approfondirsi sui contenuti e di sviluppare una relazione in cui il dare e l’avere mettono a nudo porzioni importanti del sé, si contenta di accrescere la vastità della rete, di essere in contatto istantaneo per quanto superficiale. Funziona attraverso l’ossessiva moltiplicazione dei bit. Alla base c’è una ideologia del risparmio psichico. Io mi ricordo quando telefonare personalmente a qualcuno era un modo semplice, spigliato, elegante e poco faticoso di mantenere una relazione, evitando la lettera, che da allora cominciò a morire, e che richiedeva una elaborata espressione di concetti e una descrizione cesellata delle emozioni. Quello che era scritto durava a lungo, come una pietra modellata. Era la fatica dello scrivere che dava importanza alla parola scritta. Non aveva senso comunicare sciocchezze e l’insincerità era (paradossalmente) più difficile da nascondere in uno scritto che si poteva rileggere. Sembra strano, ma mentire per iscritto è addirittura più difficile che mentire a voce. La falsità di un sorriso e l’artificiosità di una rassicurazione balzano fuori dalle lettere vergate ancora più che dal suono della voce e dalla mimica. Il sottinteso, il non detto, ciò che non c’è, assume in una lettera una presenza ingombrante e ne corregge il centro di gravità come se fosse una specie di antimateria, a prescindere da livello scolastico e capacità linguistiche dello scrivente. Oggi una telefonata è il massimo che ci possiamo attendere quando non si è vicini; ed è già tanto. Ḗ un grande segno di disponibilità e di impegno, perché normalmente si ricorre ai messaggini, emotivamente assai meno complicati. Vanno di gran moda i messaggi di gruppo e le chat, così si prendono svariati piccioni con una fava: primo ci illudiamo sul reale spessore affettivo di un modo di relazionarsi che è poco più che virtuale e, secondo, abbiamo la coscienza a posto perché abbiamo comunicato a moltissimi il fatto di esserci e questo solo ci importa. Ma esserci per che cosa? Di chi ci stiamo prendendo cura realmente? Se vogliamo essere amici di qualcuno, davvero è sufficiente mandare messaggi che non entrano da nessuna parte?
La resistenza dell’uomo a comportamenti non omologati ha qualcosa di istintivo e auto protettivo, determinato da memi culturali non semplici da catalogare, ma per alcuni versi analoghi ai “geni” che sottintendono allo sviluppo di quelle strutture sensitive riflesso motorie che negli stormi di uccelli e nei banchi di pesci determinano pressoché istantanei spostamenti di gruppo, utili a disorientare predatori in caccia e creatori di fantastiche rappresentazioni, dotate di una bellezza che definirei onirica.
È molto difficile ad esempio sottrarsi agli imperativi della moda, solo alcuni vecchi possono permetterselo, forti del fatto che godono di un’immagine del sé difficile da modificare. L’assuefazione visiva ad una foggia, benché temporanea, benché strampalata (cito nei fenomeni recenti di diffusa memoria le zampe di elefante, gli spalloni superimbottiti e le scarpe per due terzi fatte di lunghe punte non abitabili), ripone in sé il sentimento di una sicura normalità e fa dei non supini, individui distinguibili, fuori dal gruppo, esposti al costante pericolo della predazione. La diffusione di un’idea dominante rende assai difficile opporvisi. Le maggioranze silenziose sono appunto silenziose ed è sbagliato cercare in esse giudizi individuali che non hanno o non sono in grado di esprimere, benché sempre lì, sempre presenti, quando la storia obbliga ad un altro volteggio. Quando si esprime un giudizio complessivo su opinioni o comportamenti individuali o di gruppo o addirittura coinvolgenti intere popolazioni, bisogna sempre storicizzare. Uno dovrebbe onestamente chiedersi se nel millenovecentotrenta sarebbe stato un fascista e di quanto entusiasmo, e cosa davvero avrebbe pensato della “razza ebrea” negli anni immediatamente successivi.
Il conformismo è la regola, non l’eccezione, e la Storia assolve o condanna a seconda dei casi, purtroppo, per definizione, a posteriori. Il conformismo ha una duplice connotazione: da una parte viene considerato in sé spregevole, perché contravviene alla nostra personale idea di individuo, di libertà, di scelta morale, dall’altra identifica e delinea il gruppo e le sue condotte corali, all’interno delle quali esso si difende e prospera meglio di un singolo individuo isolato. Il mercato (questa entità astratta e globalizzata intesa al profitto ricavato dalla vendita di beni di consumo) utilizza molto bene entrambi gli aspetti, solleticando insieme l’individualità di una scelta e la piacevole sicurezza di appartenere ad un gruppo.
Una mia adorata nipotina di quindici anni, mi ha raccontato quanto le piace andare con gli amici nei ristoranti che servono il pokè (un piatto di origine hawaiana). “Cos’è il pokè?” le ho chiesto. “È una base di riso – mi ha spiegato – ma anche di orzo o quinoa o altri cereali. Poi ti portano una serie di piattini: verdure crude e cotte, spezzatino di tante carni e pesci, spezie e salse tantissime e tu ci metti sopra quello che vuoi e te lo mangi” “Sembra buono – le ho detto – perché ti piace?” “Nonno, è bellissimo, mangi quello che piace a te, ma mangi la stessa cosa dei tuoi amici, stai davvero con loro!”
Un’altra volta mi ha fatto vedere come sul sito apposito avesse acquistato un paio di Nike (scarpe) scegliendosi i colori e il materiale di ogni componente. Così aveva le Nike che avevano tutti, ma le sue erano solo sue, superpersonali.
Le leggi del commercio sono un ambito in cui si produce un anticonformismo molto conformista. E, tirando ancor più la corda si può benissimo arrivare ad affermare che ogni anticonformismo alla lunga non fa che produrre comportamenti conformi. Le avanguardie artistiche ne sono un postulato chiarissimo. È come se l’ anticonformismo sia giustificabile solo in presenza di un prezzo molto forte che bisogna essere disposti a pagare. Il cinismo non c’entra in questa visuale. Se mai si pone un problema logico e ideologico di base, nella necessità di conciliare questi due aspetti: quello della coscienza morale e della libertà individuale e quello della appartenenza ad una specie animale (con comportamenti in gran parte programmati) e insieme ad un aggregato culturale (con comportamenti altrettanto programmati). Credo che la soluzione al problema sia complicata dal fatto che se si miscelano queste due sostanze (libertà individuale e conformismo culturale) ne vien fuori che una scelta conforme viene comunque considerata dal singolo individuo come criticamente vagliata, espressione di una volontà libera di scegliere. Nel senso comune la libertà è vista come possibilità di seguire o negare una propria volizione. Ricordiamoci per un attimo la visione di Sartre, che riponeva l’angoscia esistenziale all’interno di questa ineluttabile necessità, sempre e comunque, di effettuare una scelta. Forse è necessario accontentarsi di un compromesso.
Vorrei fare una breve digressione, ne ho davvero bisogno. Ogni comportamento deve avere necessariamente una base biologica (neuronale in primis, ma non solo) da cui originarsi e le strutture biologiche sono tali in quanto correlate ad una funzione.
In termini grossolani potremmo dire che in un organismo complesso le funzioni viscerali sono essenzialmente automatiche, mentre quelle relazionali, behaviouristiche, sono sottoposte ad arbitrio. Quindi, per quanto concerne la libertà, sarebbe meglio chiamarla sensazione o sentimento di libertà (è dubbio che il concetto assoluto di libertà abbia nel mondo un corrispettivo che non sia un’approssimazione) che noi graduiamo sulla base della possibilità che ci viene concessa di tramutare la nostra volontà in un’azione, dopo aver espresso il nostro giudizio morale (nelle antinomie accettazione-rifiuto, desiderio-possesso, eros-tanatos) su una questione qualsiasi. La conoscenza dei neuroni specchio si è molto arricchita da quando sono stati scoperti. In principio sono stati presi come substrato neurologico dell’imitazione e del meccanismo di facilitazione nel comportamento animale. Ma il prepararsi ad un’azione che si vede compiere significa comprenderne la natura e il significato prima che essa si compia e sta alla base della comunicazione e dell’empatia, una delle principali caratteristiche umane di cui si riscontrano tracce evidenti anche in molti primati. In quest’ottica, e determinato comunque da una storia personale, il conflitto tra conformismo ed anticonformismo sembra poco più che il depositarsi profondo, nella coscienza ed oltre, del desiderio prodotto o dalla mancanza o da una sottile critica interpretativa dell’appartenenza ad un gruppo, frutto probabile della sofisticata attività dei nostri neuroni specchio e della elaborazione ideativa della corteccia prefrontale.
Il conformismo da cui siamo affetti è deleterio o salvifico a seconda delle occasioni. Poiché l’individuo umano è una unità in una piccola bolla di altre unità, contenuta in una bolla più grande a sua volta inclusa in insiemi crescenti di bolle e super bolle, spesso intersecate tra loro, il suo anticonformismo assume (mediamente, sui grandi numeri) un aspetto particolare che definirei panurgico (termine poco presente in italiano, molto in francese). Panurge nel terzo libro di Rabelais, è un malandrino, truffaldino che ne combina di cotte e di crude senza mai vacillare nella fedele devozione al proprio padrone Pantagruele. Il panurgismo è dunque un anticonformismo di superficie, edonista e ipocrita, perché mai mette in discussione la presenza di ciò che davvero ci comanda, e mai è davvero disponibile a mettersi in gioco autonomamente, a pagare l’intero prezzo dell’essere contro.
I migliori tra gli uomini conoscono troppo bene la natura umana per illudersi che si possa rapidamente evolvere da uno stato di supina subordinazione ai luoghi comuni a quello di una mente autonoma critica e consapevole. Ciò che fanno è mantenere intatto il vigore polemico per denunciare quelle derive civili delle quali la loro personale sensibilità rende osservatori. Non molto più di questo si può ottenere da un autentico spirito libertario e riformatore.
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Il pensiero è biografia. Lo stupore del mondo è il mio stupore!
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