E si vendicarono di loro solo perché credevano in Dio, Potente e degno di lode. Corano, lxxxv
La guerra scoppiò quando stavamo per intraprendere la via del ritorno. A torto ne avevamo sottovalutato la minaccia, sebbene i preparativi fossero già più che visibili all’inizio della nostra spedizione. Superare i controlli militari alle frontiere era stato un gioco da ragazzi; alcuni regali tanto gradevolmente accettati quanto giudiziosamente offerti avevano avuto ragione di ogni ostacolo, e pensavamo che, pure stavolta, non si trattasse che di una semplice partita di poker all’orientale.
All’alba, nel deserto assolutamente quieto, fummo risvegliati dalle cannonate in lontananza e dai primi combattimenti aerei. Con i nostri due camion, ci accampammo in una delle regioni più desolate di quella terra celebre e sconosciuta in cui ci eravamo così imprudentemente addentrati. Il nostro materiale di fortuna era improvvisato quanto il piccolo gruppo che formavamo. Le scorte erano sul punto di terminare. Ci sarebbe stato difficile riattraversare le linee, in quel momento spiegate su un campo di battaglia che senz’altro si sarebbe rettificato e spostato di ora in ora. In pratica, eravamo prigionieri della penisola del Sinai.
Tra di noi ci conoscevamo appena, essendoci incontrati per caso durante uno scalo nel Dodecaneso, dove avevamo lasciato le nostre mogli ad attenderci. Non disponevamo di alcun mezzo per rassicurarle sulla nostra situazione, fattasi critica. Avevano acconsentito a malincuore alla nostra partenza precipitosa, decisa da un colpo di testa, una sera che era scorso troppo vino greco, tra uomini riunitisi all’occasione e fraternizzanti per un bisogno d’avventura che era di certo l’unico tratto che ci accomunasse.
Ciò che in ciascuno era di singolare non tardò a mostrarsi nel corso del viaggio. In realtà eravamo estranei gli uni agli altri. Io non legavo che con Jacques, un francese del Libano. Aveva la passione della caccia, il che mi faceva orrore. Al volante del camion, mi lanciavo ai suoi ordini all’inseguimento di gazzelle che lui massacrava a colpi di mitraglietta. Facevo di tutto perché mancasse più bersagli possibile. A ogni gazzella risparmiata, mi ricopriva d’ingiurie, che mi provavano non solo la sua amicizia per me, ma anche la sua bontà nei confronti di tutte le creature. Adesso, che si uccidevano degli uomini, Jacques s’indignava. Non osavo dirgli che non provavo meno vergogna per la morte delle gazzelle.
Con la fretta di riguadagnare le isole, ma non sapendo bene per quale strada, esitavamo a rimetterci in cammino. Ci avevano parlato di quella montagna delle Campane, dove la sabbia diffonde tutt’attorno delle sonorità meravigliose. In base all’eco assordante e discontinuo dei combattimenti, elaborammo un itinerario che cambiava rotta al minimo salto di vento. La nostra acqua si esauriva a vista d’occhio. E fu Jacques il cacciatore che ci trasse d’impiccio, con lo stesso sistema con cui Mosè, secondo Tacito, salvò gli Ebrei dal morire di sete a quelle uguali latitudini. Jacques non aveva letto Tacito, ma, come molti cacciatori, amava e capiva gli animali. Quando passò un branco di gazzelle, mi ordinò di mettermi sulle loro tracce e di aumentare l’andatura. Obbedii. Le gazzelle spaventate non galopparono abbastanza svelte da seminarci. Ci guidarono verso una piccola oasi, da dove la nostra irruzione le fece sloggiare senza che queste avessero avuto il tempo di fermarsi per bere. Volli scendere e cercare la fonte che si nascondeva sotto l’erba.
“No,” disse Jacques, “prosegui nella stessa direzione. Loro sanno dove andare. Se non ci fosse un’altra vena d’acqua davanti a loro, sarebbero tornate indietro. La strada delle bestie è la stessa di quella degli uomini.”
Somigliava veramente a Mosè mentre seguiva la pista di quegli asini selvatici. E le sue osservazioni, o la sua fede, alla fine ci condussero, come Mosè, in vista di una roccia miracolosa, dalla cui cima sgorgava, incredibile, una cascata d’acqua rimbombante. La raggiungemmo attraversando un paesaggio completamente nuovo, irto di gebel aridi e cangianti che parevano interdirci l’accesso. Quella non era la Terra Promessa, ne era l’annuncio e il baluardo: era impossibile che lo splendore di quell’acqua non avesse, molto tempo prima di noi, attratto degli uomini in quel luogo. Ma com’erano riusciti a sopravvivere, paurosamente tagliati fuori dal mondo, come sentivamo d’esserlo sempre un po’ di più a ogni giro di ruota che scuoteva il nostro camion? Man mano che avanzavamo, il suolo si faceva più roccioso, ma anche la vegetazione più folta e soffice, così fresca che gli anemoni del deserto vi fiorivano ancora in quel principio d’estate.
Le gazzelle, che evidentemente lì non avevano più nulla da temere, né da desiderare, si erano disposte a semicerchio e ritornavano pigramente verso di noi, come per invitarci al loro brindisi d’acqua pura.
“Vedi,” dissi, “sono migliori di noi. Hanno ricambiato il male con il bene.”
“Non le ucciderò più,” brontolò Jacques. “Stai tranquillo. D’altro canto ho finito ieri le mie ultime cartucce.”
Mi confessò che mi aveva trascinato in quell’escursione solo con mire pacifiche. Ne fui molto felice. Meno felice però di quanto non lo fummo di scendere e di inginocchiarci in mezzo alle bestie sul bordo del ruscello. Il dissetarci, il bagnarci con piacere non durò che un minuto. Perché il vero miracolo accadde allora. Credemmo a stento ai nostri occhi. Ai piedi della roccia grondante d’acqua, vicino al bacino che quest’ultima aveva scavato, si apriva, proprio di fronte a noi, una specie di portale sormontato da un’insegna senza tempo, rozzamente scolpita in bassorilievo nella pietra: rappresentava una testa umana a due profili addossati, figura abbastanza simile a Giano.
Senza pensarci, uscendo dall’acqua gelata, ci dirigemmo sotto l’androne oscuro che, forse opera della natura, ci indicava nondimeno l’intervento dell’uomo. Sento ancora quel freddo inatteso che scendeva dalla volta rocciosa avvolgendoci intensamente. Dopo una ventina di passi, andammo a cozzare contro una porta di legno, aspra e salda. Bussammo, certi che dall’altra parte non ci sarebbe stato nessuno a rispondere. Un battente della porta girò subito sui cardini.
“Benvenuti coloro che vengono nel nome del Signore.”
La voce, nonché la sagoma in una lunga tonaca nera che si stagliò in controluce in un rettangolo di luce abbagliante, era quella di un giovane. La prontezza del gesto e del saluto ci sorprese talmente da renderci per un lungo istante incapaci di proferire parola. Il nostro ospite ci introdusse in una corte interna, quadrata, un chiostro o un caravanserraglio abbandonato, senz’altro segno di vita che la vibrazione prodigiosa dell’azzurro, del calore e del silenzio. Il silenzio, soprattutto, era così intenso e nitido che ci domandammo se laggiù la guerra fosse già finita, o se la nostra corsa ce ne avesse allontanati più di quanto avessimo supposto. Anche il canto della cascata, una volta richiusa la porta, era cessato, smorzato dallo spessore della roccia che ce ne separava. Intuimmo soltanto, dietro i piccoli edifici con le finestre sbarrate che circondavano la corte, delle presenze vigili. In fondo s’innalzava una chiesa con un minareto, a sua volta dominata da uno sperone di roccia incredibilmente alto. Si aveva la sensazione fisica di trovarsi realmente in capo al mondo, all’ultimo avamposto, veramente in salvo da tutto.
Il nostro ospite ci scortò sino a due celle ben ordinate, spoglie e fresche come cisterne.
“Qui sarete come a casa vostra.”
Il suo bel volto luccicava nella penombra, messo in risalto da una barba corta e riccia. In contrasto con la sua toga da monaco, come copricapo indossava il velo bianco dei beduini, stretto da un doppio giro di corda nodata.
“C’è la guerra,” disse infine Jacques, tanto per dire qualcosa.
“Lo sospettavamo,” rispose il giovane monaco. “Ci vuole qualcosa di molto grave per far sì che le gazzelle si spingano fin qui. È il punto estremo del loro tragitto, l’ultimo posto dove sono certe di trovare da bere, dopo che sono state cacciate dalle loro tappe abituali da qualche violenza. Così, ce le ritroviamo qui ogni volta che la pace del deserto viene turbata: una volta ogni cent’anni, secondo i nostri archivi e le nostre tradizioni; ora, ogni dieci o quindici anni, a dire dei nostri vecchi. Apprendiamo solo tramite loro le notizie di fuori, o meglio che ci sono notizie, e sono sempre cattive notizie. Periodicamente ci ricordano il disordine del mondo. Per me, è la loro seconda visita. La prima ebbe luogo al tempo del mio noviziato: mi relegarono nella mia cella per guarirmi dalla curiosità. Oggi, sono stato incaricato di spiare il loro arrivo, annunciato da alcuni segnali. Per questo le vostre camere sono pronte. Gli uomini stanno sempre alle costole delle gazzelle, come queste in pericolo, e per gli stessi motivi, e ci confermano il loro messaggio, spesso con meno precisione.
“In effetti”, dissi, “ecco le notizie. Ve lo ripeto, c’è la guerra. La guerra nel Sinai, capite? Non solo la guerra contro le gazzelle, ma la vera guerra, che non è certo migliore, fra gli uomini.”
“È la stessa cosa”, disse. “Gli uomini sono feroci, le gazzelle anche, e pure i monaci si fanno la guerra, per quel poco che cedano al mondano. Il mondo è il regno di Satana, lo abbiamo appreso una volta per tutte. La vostra guerra non è che un incidente assolutamente ordinario. A che scopo preoccuparsene?”
“Preoccupiamoci almeno dei quattro compagni che abbiamo abbandonato nel deserto, e che saranno in ansia per noi, come noi lo siamo per loro.”
“Andate a cercarli domani mattina. Saranno i benvenuti qui. Paura? Non avete avuto paura quando vi siete imbarcati tutti e sei in questo frivolo pellegrinaggio. Che follia queste passeggiate nel deserto!”
Era esattamente la stessa cosa che avevano pensato le nostre mogli inascoltate, folli anch’esse, che passeggiavano per le isole. No, la saggezza non era di questo mondo. Lo scoprivamo qui, fuori dal mondo. Jacques ne sembrava meravigliato, lui, che più di noi, gli apparteneva.
“Domani mattina?” disse con un improvviso senso d’inquietudine. “Avete una buona carta della regione?”
La risposta fu che non esisteva. Le autorità di governo, i geografi più qualificati, ignoravano persino l’esistenza del convento. L’ubicazione ne era segreta, le vie d’accesso non sarebbero mai state divulgate.
Al colmo dello stupore, esclamammo all’unisono:
“Ma allora, come si arriva da voi?”
“Non vi si arriva. Vi si è inviati dalla Provvidenza, quando lo ritiene giusto e come lo ritiene giusto.”
“E come si va via di qui?”
“Con lo stesso mezzo. Qualcuno non se ne va mai. Altri se ne vanno per sempre. Nessuno tra coloro che sono partiti è tornato alla sua vita. Nessuno ne ritrova il cammino. Parecchi hanno tentato, da ciò che si racconta.”
“Andiamo bene!” disse Jacques.
“Non sarà,” dissi, “che ci raccontate storie? Per una incredibile casualità, o per un errore di orientamento di cui benediremo ugualmente il cielo, non saremo più semplicemente arrivati nel famoso convento di Santa Caterina, che, lui sì, figura in tutte le carte? O forse in una delle sue dipendenze?”
Il monaco alzò un poco le spalle.
“Santa Caterina,” disse, “è molto cambiato dai tempi di Giustiniano. Adesso è un centro turistico. La nostra presenza risale a molto prima. Da noi la regola non è mutata. L’abbiamo ereditata direttamente dall’età apostolica, come attesta il nostro nome. Voi vi trovate nel monastero dei Due San Giovanni.”
Ci ricordammo del bassorilievo bifronte dell’entrata. A nostra volta, un po’ emozionati, ci presentammo.
“Jacques,” ripeté il monaco. “Qual è il vostro santo patrono? Giacomo il Maggiore o Giacomo il Minore?”
“Non ne ho la minima idea,” esclamò Jacques, scoppiando a ridere.
“La questione è molto seria,” replicò pensoso il monaco.
Temendo di averlo scandalizzato, lo interrogammo sugli usi del luogo, che desideravamo osservare puntualmente. Ci indicò l’orario delle funzioni, ma ci dispensò dall’assistere a tutte; erano di una lunghezza spaventosa e duravano perfino tutta la notte. La foresteria dove alloggiavamo, il refettorio, i parlatori, una parte della biblioteca e un piccolo giardino erano a disposizione degli ospiti; le ali dell’edificio riservate ai monaci erano munite di cancelli, sottoposte alla clausura e alla legge del silenzio. Era proibito uscire dalla cinta dopo il tramonto.
“A parte questo, siete completamente liberi. La campana vi chiamerà all’ora di cena. Sua Beatitudine il nostro padre igumene vi darà per prima cosa la sua benedizione, che riceverete inginocchiati sul selciato. Non dimenticate che dopo il concilio di Laodicea, Sua Beatitudine, l’igumene del più antico dei monasteri autocefali, ha la precedenza sul patriarca di Costantinopoli, privilegio che del resto Ella non esercita. In caso di bisogno, comunicate tramite cenni con gli altri monaci e non parlate che al vostro servitore. Io solo sono autorizzato a rispondervi a voce. Sono il frate ospitaliere. Il mio nome è Giovanni. Frate Giovanni.”
“E voi,” disse, “che patrono avete scelto? Giovanni il Battista o Giovanni l’Evangelista?”
Mi fissò.
“È una questione più che seria, è terribile,” disse impallidendo. “Ne dipende la mia salvezza eterna, e il destino del mondo vi è legato. Io consacro la mia vita a cercare di risolverla. Ed è per questo motivo che sono entrato nel convento dei Due San Giovanni.”
A tavola, ci servirono delle lenticchie assai opportune. Era però giorno di digiuno. I monaci si accontentarono di un’oliva e di un fico, mentre un lettore, dall’alto di una cattedra dorata, salmodiava in modo mirabile in una lingua sconosciuta. Frate Giovanni non mangiò nulla, forse per punirsi d’aver chiacchierato troppo.
*
L’indomani, alzati di buon mattino, decidemmo che Jacques andasse senza di me alla ricerca dei nostri compagni. Con un favore senza precedenti, il padre igumene, la sera precedente, gli aveva promesso una guida fidata, e aveva pure indetto in nostro onore un quarto d’ora di conversazione generale durante la ricreazione che seguiva la cena. I monaci erano troppo disavvezzi alle parole inutili per averne ancora qualcuna da scambiare tra loro. Tutti ci si avvicinarono, indegni protagonisti di una festa così inconsueta, con quell’umiltà deferente che i santi sono avvezzi mostrare verso i peccatori. In tutte le lingue orientali, ci sussurrarono sorridendo dei brevi complimenti, in mezzo ai quali afferrammo una sola domanda, che ricorreva in ogni bocca:
“Come sta il papa di Roma?”
Rispondemmo, per ogni evenienza, che stava bene.
“Sta bene?”
“Sta molto bene.”
Ne sembrarono molto lieti. Li accompagnammo per un attimo alla loro funzione notturna. Poco dopo, ci mettemmo a letto, e il ritmo delle loro melopee, attraversando i muri, popolò il nostro primo sonno.
Quando il camion fu pronto a partire, frate Giovanni ci portò la guida prescelta. Era il più anziano dei monaci, completamente sordo, che, non avendo messo piede fuori dal convento da oltre cinquant’anni, non possedeva alcuna cognizione topografica al di fuori dei ricordi della sua infanzia di beduino. Pur non avendo mai visto neanche un’automobile, non dimostrò alcun timore quando lo facemmo salire al fianco del conducente e il veicolo si mise in moto.
“Rientriamo a pregare per loro,” mi disse frate Giovanni.
Mi condusse verso la chiesa. In quell’istante la paura, armata di tutti quei ragionamenti che la rendono invincibile, m’invase. Una guida fidata: è facile a dirsi. Ma quella guida non aveva la minima idea di dov’erano accampati i nostri amici. A che poteva servire una guida senza una meta e senza alcun riferimento? E come Jacques l’avrebbe orientata, a meno che non ricordasse lui stesso il tragitto? Noi avevamo seguito le gazzelle, ora scomparse, senza distinguere nulla in un paesaggio dove nulla era distinguibile, se non la prima vena d’acqua verso cui le gazzelle erano corse invano. Ma tutte le oasi, come tutti i deserti, si assomigliano, e quella non ci aveva svelato il suo nome. Confessai a frate Giovanni i miei timori e la mia stupidità, prontissimo a rimproverargli la medesima stoltezza dei monaci.
“Preghiamo,” ripeté. “Dio è grande, e l’arcangelo Gabriele protegge il giovane Tobia.”
Tanto candore m’indispettì. Mi unii tuttavia alla preghiera dei monaci, cosa che ebbe l’effetto di sopire la mia inquietudine. Finii per eluderla passando la giornata a visitare il convento, le sue iconostasi, le collezioni di smalti, d’avorio e di altri oggetti preziosi, le indecifrabili meraviglie della sua biblioteca e della sua pinacoteca. Era un convento copto, dove mi colpivano però alcune anomalie, per quanto profano che fossi. Vi si percepiva un non so che di tormentato e contraddittorio, che trascendeva l’ordine delle cose e il comportamento umano. Ogni cosa spirava un fasto misero, d’aspetto non soltanto eterogeneo, ma violentemente contrastante, come di proposito. Legioni d’angeli e di santi erano dipinte su icone risplendenti, ma in atteggiamenti di sfida e rivalità, piuttosto che di concittadini del cielo. Una stessa figura era di volta in volta epurata sino al sublime e materializzata sino al grottesco. Innumerevoli ritratti del Battista e dell’Evangelista esprimevano un antagonismo particolarmente acuto, che talvolta li dissociava l’uno dall’altro, tal’altra ciascuno da sé medesimo. E persino il diavolo era stato destinato da alcuni miniaturisti ai più strazianti supplizi, e da altri invece rimosso dall’inferno e posto in buona compagnia alle porte del paradiso. Nel grande parlatorio da cerimonia, un’incisione su legno ai limiti dell’osceno, simbolizzante la turpitudine della Chiesa romana, spiccava accanto a una vecchia fotografia di Pio ix colorata a mano.
Allo stesso modo, fra i monaci che incontravo, non ce n’era uno che non si distinguesse vistosamente per un qualche dettaglio dell’abito, o per qualche differenza di condotta ancor più discordante. Taluni si abbracciavano, altri nemmeno si salutavano, e i ruoli s’invertivano per un nonnulla. Nel refettorio, certi passaggi della lettura provocavano qua e là dei sogghigni soffocati, che interrompevano sospiri d’estasi.
Riconobbi il prologo del Vangelo secondo Giovanni in un testo che fu cantato successivamente in greco, in siriano, in arabo, in copto e in altre lingue, solennemente, alla funzione di mezzogiorno. Tutti i monaci intonavano quel testo maestoso, ma metà di loro si rimetteva a sedere per intonare il versetto iniziale: “In principio era il Verbo…” e per rialzarsi attendeva che echeggiassero le parole: “Ci fu un uomo mandato da Dio; il suo nome era Giovanni…” L’altra metà dei monaci eseguiva le stesse movenze, ma nell’ordine inverso. Quanto a me, secondo i ricordi della mia infanzia, me ne stetti costantemente in piedi dall’inizio alla fine. Solo il padre igumene e frate Giovanni tennero lo stesso atteggiamento rispettoso. Ma non vidi ciò che fecero quando m’inginocchiai al verso quattordicesimo: “E il Verbo si fece carne, e dimorò tra noi.” La mia fede, comunque, era ben tiepida. Non avevo da offrire a Nostro Signore che la mia genuflessione, misera vestigia della mia devozione.
Dopo il riposo pomeridiano, confidai a frate Giovanni le mie crescenti perplessità.
“Non vi stupite di nulla,” mi disse. “Questo convento non ha eguali. Inflessibile per quanto riguardo la disciplina, la nostra regola autorizza e anche incoraggia la più ampia libertà d’opinione. Noi conserviamo la liturgia e i testi sacri senza cambiarvi una virgola, ma è permessa qualsiasi interpretazione. Vi sono fra noi gnostici, messaliani, manichei, ebioniti e origenisti, tutti più o meno ariani, di cui alcuni mezzo maomettani. Il papa di Roma, a sua insaputa, conta qui degli ardenti fautori di cui parecchi sono antipapisti, e degli avversari irriducibili di cui alcuni sono, in via di principio, papisti.”
“Voi praticate,” gli dissi, “uno strano ecumenismo.”
“No, perché noi confrontiamo le dottrine, ma non le mescoliamo. Ognuno di noi è pronto a morire per la fede che gli è propria. Speriamo che l’unica verità emergerà un giorno vittoriosa da tutte queste diatribe. Queste ultime si riducono semplicemente a una sola: bisogna seguire Giovanni il Battista o Giovanni l’Evangelista? È questo l’enorme problema che incessantemente abbiamo di fronte. I nostri sforzi sono indirizzati a chiarirlo, per quanto poco ciò sia, secolo dopo secolo. Dalla fondazione, il nostro convento non ha avuto altro fine. La mia vocazione si confonde con la sua, poiché questo misterioso nome di Giovanni mi è stato, come il suo, imposto dal cielo.”
Discusse a lungo su quest’argomento, con una foga che mi sembrò prossima al delirio. Per me, tutto ciò era oscuro e privo di grande interesse. Eppure, mio malgrado, l’ascoltai, un po’ affascinato.
Anzi, le cose si chiarivano l’una con l’altra; cominciavo pian piano a capire. Quei monaci che, sui loro stalli, si erano alzati per onorare il nome di Giovanni il Battista, avevano espresso la propria disapprovazione rimettendosi subito a sedere non appena, subito dopo, si era cantato: “Non era lui la luce, ma per rendere testimonianza alla luce”. Essi volevano pertanto che Giovanni fosse la luce. Si opponevano a coloro che, non vedendo in lui nulla di meno e nulla di più che il Testimone e il Precursore, adoravano il Verbo incarnato come la sola vera luce e si costituivano con questo discepoli di Giovanni l’Evangelista. Ora, se il Verbo è Dio, Giovanni non è che uomo privilegiato. Di conseguenza, i settari del Battista dirottavano verso l’eventuale perfettibilità dell’uomo, promosso al rango divino, il culto che i discepoli dell’Evangelista riservavano all’assoluta perfezione di Dio fattosi uomo. Per gli uni, la fonte di salvezza era nell’uomo; per gli altri, solo in Dio.
Mi proposi di osservare meglio gli intrallazzi dei monaci, al di sotto della puerile e passionale rivalità di cui intravedevo a poco a poco le profondità d’un conflitto certamente molto grave, quando la funzione del vespro, dov’ero andato a meditare, fu bruscamente interrotta da un evento che non speravo così repentino: dei colpi di clacson impazienti risuonarono all’esterno. I monaci non brontolarono, per quanto nuovo fosse per loro quel concerto infernale, così lieto invece per me. Con un gesto della mano, il padre igumene ordinò a frate Giovanni di uscire con me. Il frate di vedetta, sceso di precipizio dall’alto della sua roccia, stava già richiudendo il grosso portale quando arrivammo nel cortile dov’erano fermi i due camion. Mi lanciai ad abbracciare i miei amici. Erano tutti grondanti d’acqua fresca, avendo a loro volta compiuto il rito preliminare del battesimo nella cascata. Pensai che quella cascata forse non si trovava lì per una pura e felice coincidenza, ma piuttosto di proposito, per indicare che nessuno entrasse nel territorio dei due san Giovanni senza che la fonte l’avesse innanzitutto obbligato a purificarsi nelle acque del Giordano, dispensatrici dell’iniziazione.
Solo, il vecchio monaco guida era rimasto sul sedile dove l’avevamo lasciato. Jacques mi disse che non si era mosso per tutta la giornata, rifiutando di bere e mangiare, sprofondato nelle sue preghiere, non aprendo bocca e sollevando appena il dito per dirigere la marcia con una sicurezza tuttavia infallibile.
Mi avvicinai al secondo camion per riprendere i bagagli che io e Jacques vi avevamo lasciato il giorno prima. Jacques mi raggiunse in tempo.
“Fermo, pazzo! Vuoi farti ammazzare? Aspetta che se ne occupino i preti!”
Il vecchio monaco si era già avvicinato a frate Giovanni e gli spiegava l’accaduto. I miei amici me la riassunsero in poche parole. Dentro al camion c’era una mezza dozzina di arabi, che avevano raccolto nel deserto mezzo morti di sete, errabondi, distrutti, brucianti di febbre, ma sempre con l’occhio vigile e il coltello in mano. Erano riusciti a calmarli un poco soltanto consegnandogli fino all’ultima goccia della nostra razione d’acqua, che avevano trangugiato d’un sorso. Senza l’intervento del vecchio monaco, la faccenda rischiava veramente di prendere una brutta piega. Il guaio era che, nonostante la nostra sollecitudine, o forse a causa di questa, gli arabi continuavano a scambiarci per un commando nemico incaricato di farli prigionieri. Ed era vero che il nostro vestiario si prestava all’equivoco. La tonaca dei monaci cristiani gli ispirava fiducia.
Trasportammo gli arabi più malconci in una sala assai ampia che facesse da infermeria. Frate Giovanni li sistemò tutti, mentre i miei compagni si dividevano le celle vicine. Ci chiamò presto in aiuto, chiedendo le bende e le medicine di cui la nostra farmacia da viaggio era ancora fornita. Gli arabi gli raccontavano le proprie disgrazie sia con voce calma, sia con crisi di rabbia e d’odio. Paralizzato alla vista delle ferite, dei piedi insanguinati e di tanta miseria, si chinò verso di me e mi disse all’orecchio: “Il regno di Satana! Il regno di Satana!”
Un arabo si strappò le vesti di dosso e si rotolò sul pavimento. Gli altri continuavano a bere senza interruzione direttamente dalle brocche che gli riempivamo. Ci demmo il cambio per assistere frate Giovanni, che vegliò per tutta la notte.
Non dirò che l’invasione dei turisti europei contribuì alla tranquillità del convento più di quella degli arabi in ritirata. Al contrario. In pochi giorni, gli arabi si erano abituati a disagi di cui l’unico che ancora li disturbava era il bisogno di alzarsi presto, e senza donne. Se ne distraevano con furterelli, ma anche giocando a carte e a backgammon, che costruivano con estrema abilità. Si consolavano anche con la preghiera. Alle stesse ore dei monaci, rivolti come loro verso oriente, una coperta sotto le ginocchia al posto del tappeto, si prosternavano nel cortile, celebrando Allah con preghiere di ringraziamento che imploravano al tempo stesso il perdono e il riscatto. Ma presto l’orazione dei monaci, che si prolungava a lungo dopo la loro, non cullò più con il suo lontano mormorio che le loro sieste incantate e il loro interminabile gironzolare all’ombra dei fichi selvatici. Sognanti e rasserenati, assaggiavano per la prima volta nella loro vita la dolcezza di quella lunga permanenza nell’immobilità del tempo, strana approssimazione di un paradiso di Maometto in cui non mancava che un harem.
Ciò che per loro era il bene, per noi, europei, era il male: l’attesa e l’incertezza del domani. Ci stavamo snervando. Quando saremmo potuti ripartire? Per i miei compagni non c’era stato nulla di più impellente che tirar fuori dal camion la radio portatile, che ascoltavamo notte e giorno. Questa assolveva alla sua funzione di dispensare a getto continuo sciocchezza e menzogna, false notizie subito smentite da altre più false ancora; il tenore di entrambe le quali non si differenziava che per il colore della bandiera, del partito o della propaganda che ne alimentava la produzione. L’armistizio non era la pace, tutte le uscite dalla penisola del Sinai rimanevano insicure e pericolose: una realtà che deducemmo, con un controllo incrociato, da tutte quelle informazioni contraddittorie. Ma gli arabi, che le interpretavano una dopo l’altra alla lettera, passavano dall’entusiasmo alla disperazione, e dalla disperazione alla frenesia. Attorno alla nostra scatola delle ciance si assistette a qualche raduno troppo animato perché dei monaci, sfidando la loro regola, venissero a introdurvisi. Per loro era molto semplice: non c’era guerra che fra i due san Giovanni, o piuttosto fra gli adepti che entrambi reclutavano da ogni parte, nel partito dell’uomo e nel partito di Dio, e non si sarebbe quindi conclusa che alla fine del mondo. E il bello, adesso ne ero convinto, è che avevano ragione. Tutte le guerre sono guerre di religione. I mezzi terrestri che gli uomini inventano per stabilire, organizzare o, come dicono, “consolidare” la pace sono dunque completamente inutili, laddove le fondamenta della pace non sono su questa terra. Nell’ardore della controversia, alcuni monaci s’abbandonarono a tali eccessi di passione che dovettero poi espiare con penitenze esemplari. Tanto che il padre igumene confiscò la nostra radio. Quell’uomo era un vero capo: preservava il benessere della comunità di cui era il custode. Poiché, a prescindere dagli eventi esterni di cui l’immagine deformata e gli echi fuorvianti ci turbavano così spiacevolmente, tutti lì erano felici.
La decisione così saggia dell’igumene produsse in noi uno scontento che s’aggravò dopo qualche giorno. Eravamo dei bambini? Eravamo dei prigionieri? In che s’immischiavano quei monaci pezzenti, quei marabutti sottosviluppati? Fui parte della delegazione che protestò presso l’igumene. Scomparsa ogni gratitudine, i miei due colleghi si espressero in termini più aspri, ancorché energici. Il buon vecchio ebbe la delicatezza di dimenticare che ci aveva salvato la vita, e rispose con una piccola lezione di filosofia.
“In mancanza di colpire il male nelle sue cause originarie,” ci disse, “sopprimiamone almeno le cause strumentali. La vostra macchina diabolica semina nelle menti turbamento e sospetto. Noi l’abbiamo ridotta al silenzio, come la nostra santa regola vi riduce noi medesimi, a nostro più grande beneficio. Alimentava in voi delle illusioni funeste, di quelle che conducono il mondo alla rovina temporale e alla dannazione finale. Che i prìncipi e i governi di tutte le nazioni prendano ispirazione dal nostro esempio! Che aboliscano nei loro Stati tutti quei meccanismi atti a sedurre l’immaginazione, a contaminare le menti, a esasperare la concupiscenza, e il mondo purificato vedrà dissiparsi ogni tenebra e tempesta ammassata artificialmente nel suo cielo. Rassicuratevi, d’altro canto: sarete liberi di partire non appena non ci saranno più pericoli nella regione. Ne saremo avvisati da messaggeri più fidati e sinceri delle vostre macchine parlanti. Fino allora, sequestro anche i vostri camion, che nelle vostre mani sarebbero anch’essi, in questo momento, degli strumenti di perdizione. Proibisco dunque di toccarli. E che la pace sia con voi.”
Da quel discorso emanava una tale autorità che i miei due compagni s’inchinarono, soggiogati. Gli altri, quando appresero che non l’avevamo avuta vinta, ci accusarono di averli traditi; imbaldanziti dal loro sarcasmo, gli arabi stessi ci trattarono da pusillanimi e vigliacchi. La disunione s’insinuò fra le nostre fila. Alcuni fantasticarono di colpi di mano e presa del potere. Certi mordevano il freno, altri serravano i pugni. Si cospirava in ogni angolo del cortile. Le ore trascorrevano nell’inazione, ogni giorno più lungo e pesante del precedente. Circolavano voci minacciose. Come bambini privati dei loro giocattoli, promovemmo a ogni istante delle rivolte tanto più spietate quanto immaginarie.
In mezzo a tale scompiglio, non avevo più voglia di meditare, e disertai anche le funzioni. Come rimpiangevo quella prima giornata di quiete, quando, rimasto solo con frate Giovanni, mi ero imbevuto dei suoi insegnamenti, nella contemplazione delle icone e dei libri antichi. Mi ero allora augurato con tutto il cuore il ritorno di Jacques e dei nostri amici, la cui presenza, ora, allontanava da quel luogo ogni pace. Frate Giovanni non osava dirmi che la stessa nostra discordia forniva alle sue dottrine la più triste ed eclatante conferma. La guerra che covava ovunque nel partito dell’uomo e nel partito di Dio illustrava bene l’opposizione dei due san Giovanni, che i nostri peccati inasprivano a vista d’occhio. Il silenzio in cui si era avvolto frate Giovanni era più eloquente di quanto non fossero state le sue rimostranze. Cupo e infaticabile, si prodigava al servizio di tutti, con una carità che ci avrebbe illuminato, se ne fossimo stati altrettanto degni di quanto ne approfittassimo. Ma ognuno non pensava che a sé.
Un mattino, si presentò con un’aria stanca, più spossato del solito.
“Ecco,” disse, “la vostra liberazione è vicina.”
Ci mostrò nel cielo due grandi avvoltoi che disegnavano un cerchio. Erano i messaggeri annunciati dal padre igumene. Eravamo stupefatti.
“Le guerre non si estendono,” disse, “fino nel cuore dei nostri deserti. Si combattono sulle coste. Quando cominciano le guerre, vediamo arrivare le gazzelle e levarsi in volo gli avvoltoi: le prime sfuggono dal macello e gli altri vi si avventano, a caccia di un impareggiabile banchetto. Quando le guerre hanno fine, le gazzelle se ne vanno e gli avvoltoi ritornano. Questi messaggeri di notizie non ci ingannano mai. Preparate i vostri bagagli.”
Ciò che mi stupì maggiormente in questa spiegazione fu il fatto che frate Giovanni avesse chiamato la nostra partenza una liberazione. Si sentiva, anch’egli, prigioniero del suo convento? Ma non c’era tempo d’interrogarlo in merito. Da quel momento non ci fermammo più un attimo, presi com’eravamo dai tanti preparativi, scrupolosi e silenziosi.
Domandammo udienza al padre igumene. La sua risposta tardò talmente che alcuni dissero di partire senza salutarlo. Ci ricevette infine nel pomeriggio, con i nostri camion già pronti nel cortile.
“Partirete stasera,” ci disse. “È più sicuro. Stavolta non abbiamo da proporvi una guida diversa, e migliore, che non siano le stelle. Il nostro padre astrologo vi sta tracciando una mappa del cielo. Regolate sempre il vostro cammino in base al cielo, ragazzi miei.”
Lo ringraziammo e lui ci benedì. Poi entrammo in chiesa. I monaci non smisero di cantare. Verso di loro indirizzammo un rispettoso saluto, che la loro preghiera da sola ci restituì. Non restava che congedarsi dagli arabi. Era la cosa più ardua. Non eravamo molto fieri di non poterli portare con noi. Non tutti erano ancora guariti. Un’oscura diffidenza li faceva sempre richiudere in se stessi. Ci dissero che Allah era grande.
Eravamo tutti a bordo quando brillò la prima stella. Il portale era spalancato. I motori accesi. Gli arabi sorridenti formavano un semicerchio in mezzo al quale, impenetrabile, svettava frate Giovanni, con lo sguardo fisso sulle cime rosate delle rocce.
Al momento di avviarsi, Jacques si voltò verso di lui, il viso contratto, e con l’improvvisa violenza del sacrilego che si decide a gettare una bomba nel santuario da cui sta per uscire in fretta e furia, gli urlò queste parole, che mi spaventarono:
“Sei matto? Sei giovane, forte, non ne hai abbastanza di tutte queste bacchettonerie? Finirai sepolto vivo, mentre il mondo è là che ti aspetta, con le sue gioie, le sue donne! Su, vieni, razza d’idiota, squagliatela da qui, scappa con noi!”
Fremeva. Non una piega della sua tonaca si era mossa. Fu allora che mi attraversò un’idea diabolica, irresistibile.
“Sì, venite,” dissi. “Vi porteremo dove volete, nelle isole…”
Il giovane parve ridestarsi.
“Quali isole?… Nelle Sporadi?”
Non sapeva ancora che le antiche Sporadi meridionali facevano adesso parte del Dodecaneso. Indovinando i suoi pensieri, tagliai corto:
“Ma sì, lo sapete bene, l’isola di Patmos.”
Mi trapassò col suo sguardo, che di nuovo scintillava.
“Patmos? L’isola di san Giovanni? La grotta dell’Apocalisse?”
Uno degli arabi l’aiutò a salire sul camion.
*
Più di noia che d’angoscia, era mancato poco che le nostre mogli morissero. Il soggiorno a Patmos non aveva nulla di piacevole per delle signore in abito da spiaggia. Dopo un primo abbraccio, ci avevano trattato da imbecilli e sbruffoni. Ansiose di sentire il racconto delle nostre avventure, non vi avrebbero prestato più fede che a qualche storia di caccia, ma la presenza del nuovo compagno, che ne era il testimone oculare e la prova vivente, dettava loro un certo riguardo. Jacques catturò tutte le attenzioni. Fu circondato di sguardi e smancerie; vi si dimostrò più sensibile che avvezzo, ma gestì ogni cosa con una semplicità che l’abitudine non sempre accorda. La sua discrezione, le sue maniere spontanee gli donavano un grande fascino.
Giugno stava ormai terminando. Una delle signore si ricordò che era il giorno di san Giovanni. Andarono tutte in cerca di regali. Giovanni aveva soprattutto bisogno di abiti. Con una perfetta attenzione ai dettagli, scelsero nei negozi dell’isola, e talvolta nelle nostre valigie, con che rivestirlo all’europea, senza che nulla di troppo austero annunciasse ch’era un monaco e che nulla di troppo vistoso denunciasse che intendeva cessare d’esserlo. Celebrammo l’evento con una cenetta allo champagne. Non accostò che due o tre volte le labbra al suo bicchiere: capii che pensava che l’acqua della cascata fosse ben più deliziosa.
Ci giudicò in base a ognuno dei nostri gesti, e s’offrì apertamente al nostro giudizio. Ogni cosa lo sorprendeva. Il suo apprendistato era abbastanza arduo. Avanzava nell’ignoto ad andatura prudente, ma svelta. Esitava o s’arrestava, ma non inciampava mai. Era un principe. La compagnia e l’esempio delle donne ci obbligavano a tenere dinanzi a lui una rigida compostezza, anche in quelli fra noi la cui innata volgarità era stata maggiormente messa in risalto prima dalla maestà del deserto, e poi dall’austera beatitudine del convento, dove avevano subito commesso l’errore di non vedere in lui che un domestico più o meno disponibile. Mi domandai quale impressione gli facesse quel mondo che avevamo promesso di rivelargli “con le sue gioie, le sue donne”, nel modo in cui attorno a quella tavola d’albergo lo riassumevamo ai suoi occhi, coppiette borghesi in semilibertà provvisoria. I suoi pensieri erano visibilmente altrove. Pure mi sembrava fosse parte della famiglia, unito a noi da quell’antico sostrato cristiano che eravamo riusciti solo a rinnegare, ma senza mai sradicarcene, e del quale niente che fosse in lui ne adulterava la generosità delle origini.
Alla fine della cena riuscimmo a fargli pronunciare qualche parola. Aveva visitato in mattinata la grotta dell’Apocalisse, dov’era entrato da solo e sulle ginocchia. Era uscito molto deluso. Quel poco champagne che aveva bevuto gli sciolse la lingua.
“È bene festeggiare oggi san Giovanni Battista,” ci disse, “ma è triste che in questa medesima isola il ritiro dove san Giovanni Evangelista scrisse sotto dettatura celeste sia lasciato all’incuria e abbandonato all’impudenza, se non alla cupidigia, del profano. È in tal modo dunque che le vostre Chiese onorano i Luoghi santi? Non è così nel nostro convento del Sinai, dove, come avete visto, si ignora l’uso del denaro…
(In effetti, mi ero accorto che nessun monaco ci aveva chiesto l’elemosina, che non avevamo più badato a lasciare, sebbene l’avessimo generosamente distribuita fra gli arabi, in vista del loro futuro rimpatrio, e per confortarli con l’illusione di avercela abilmente estorta: moneta che si affrettavano a perdere e riguadagnare ai loro giochi clandestini.)
“… Ma dove il culto dei due san Giovanni è così attentamente osservato che mai uno dei due è eclissato dall’altro, né separato dall’altro, né confuso con l’altro. Qualunque sia il partito dei monaci, ciascuno dei due santi riceve dalla comunità parità di onori, inni e devozione. Ciascuno ha un suo volto, di cui alcun tratto viene nascosto o alterato. Ciascuno ha i suoi fedeli, che ardono del desiderio di servirlo.
“Ve lo ricordate? Se la Chiesa ha fissato la ricorrenza degli altri santi nel giorno dell’anniversario della loro morte, la festa del beato Giovanni Battista coincide con la data della sua nascita. Privilegio singolare, condiviso solo con il Cristo e la Vergine Maria. Questi tre esseri predestinati sono santificati dalla loro nascita, mentre gli altri santi non hanno meritato l’aureola che al termine di una vita di sforzi e lotta. Il Battista è dunque, con l’eccezione del Cristo e della sua Madre immacolata, il più santo tra i figli d’Adamo, colui che Dio ha maggiormente colmato delle sue grazie cautelari. Ecco perché, sullo stesso piano della beata Maria, egli occupa a pieno titolo il posto d’onore nelle iconostasi, formando assieme, alla destra e alla sinistra dell’altare, il gruppo della preghiera, la Deesis. Questi due intercessori, sublimi rappresentanti dell’umanità in attesa, preparano e procurano l’avvento del Salvatore, del quale sono, del resto, la parentela più stretta.
“Ma, d’altra parte, questo Giovanni precursore di Cristo, è morto troppo presto per ricevere la plenitudine della grazia rigeneratrice che solo il Redentore dispensa. Si colloca al più alto grado della perfezione naturale che può raggiungere, senza l’aiuto di Cristo increato, una creatura di Dio, ma i sacramenti di Cristo non l’hanno cresimato nella via della perfezione sovrannaturale. È ‘grande davanti al Signore’ e ‘colmo dello Spirito Santo fin dal seno di sua madre’, ma è il figlio del prete Zaccaria e non Figlio di Dio. Egli predica ‘un battesimo di penitenza per la remissione dei peccati’, non istituisce il battesimo di salvezza, in quanto non battezza che nell’acqua, non con lo Spirito e il fuoco. È la voce che risuona nel deserto, la mano che semina nel deserto non ancora fecondato dal sangue di Cristo. Disse: ‘Preparate il cammino per il Signore,’ ma egli non è il cammino. La sua predicazione è esemplare, ma del tutto umana; nei confronti di Dio, pentimento e penitenza; nei confronti degli uomini, la giustizia, e ‘chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha’. È una morale, ma non una dottrina. Egli esorta, non insegna. Insegna soltanto che il Cristo che lo seguirà è veramente il Messia, a cui non è degno di sciogliere i lacci dei sandali, e che si dovrà credere in Lui e in Lui solo. ‘Colui che viene dopo di me è più forte di me… Colui che viene dopo di me ebbe la precedenza davanti a me, perché era prima di me.’
“Ecco la gloria di Giovanni il Battista: è nella sua umiltà. Egli s’innalza come un gigante per salutare col suo sguardo profetico l’aurora della rivelazione cristiana, poi s’inchina e si ritira dinnanzi alla luce del giorno. La sua strada comincia e culmina con il solstizio d’estate, esattamente quando il sole si immette nel suo declino; finisce con il solstizio d’inverno, quando il sole di Natale ricomincia a salire verso lo zenit della Resurrezione eterna. Giovanni abbassa la testa davanti al carnefice e muore decapitato, Gesù morrà a testa alta in cima alla croce, da dove domina il mondo: ‘Egli deve crescere, io invece diminuire.’ Giovanni è l’ultimo e il più grande dei santi dell’Antico Testamento, nell’istante stesso in cui l’Antico Testamento è sorpassato dal Nuovo. Accetta in anticipo il Vangelo che lo supererà. È il più cristiano dei Giudei, ma mancò d’essere cristiano.”
Jacques mi disse sottovoce:
“Non ne otterremo mai niente. È un prete. Ce l’ha nel sangue. Ma quello che racconta è assai curioso. E anche molto interessante, se si avesse tempo da perdere.”
Le signore erano entusiaste.
“Povero Giovanni Battista! Che dedizione! Che abnegazione!”
“Lo piangete senza ragione,” disse loro Giovanni. “Come ogni uomo che si sacrifica alla propria vocazione, ha compiuto meravigliosamente il suo destino. Per aver avuto l’onore di cedere il passo a Gesù, lui stesso è stato proclamato beato: ‘Colui che ha la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che gli sta vicino e l’ascolta, è ripieno di gioia per la voce dello sposo. Questa gioia, che è la mia, ora è perfetta.’ ”
Dopodiché, ci furono, di straforo, alcune battute amene; qualche marito finse che quelle parole avessero avuto l’intenzione di rassicurarci sulla fedeltà delle nostre spose, invero molto toccate da un discorso così vibrante. Ma l’oratore proseguì:
“Poiché egli sta là dov’è stato chiamato per ascoltare la voce divina, Giovanni non è da compiangere più di quant’egli non si compianga. State in guardia, signore, a che la pietà non vi fuorvii. Mal intesa, è consigliera di rivolta, e la rivolta ben presto l’utilizza per i suoi propri fini e per le sue opere efferate. È così che Giovanni Battista, il più obbediente fra gli uomini, è diventato, suo malgrado, il capo prediletto di tutti i disobbedienti di questo mondo. Quelli fra i nostri monaci che invocano più ardentemente il suo patrocinio sono tutti eretici, sovversivi e rivoluzionari. E all’opposto, poiché tra noi c’è libertà d’opinione, tutti coloro i quali rivendicano una libertà ancora maggiore, nella misura in cui si piegano all’eresia e alla sovversione, si allontanano da Cristo per aggrapparsi a Giovanni. E ciò si comprende facilmente: essi ammirano in lui la potenza dell’uomo che si è innalzato con le sue sole forze incontro alla divinità, mentre ricusano nel Cristo la potenza di Dio che è disceso sino all’umanità. Vogliono che la salvezza si edifichi su questo mondo, per mano dell’uomo, in conformità alle loro vedute personali: respingono la salvezza che gli è stata inviata dal cielo secondo la volontà di Dio e per decreto della sua autorità. Giovanni Battista è quindi per loro il vero Salvatore e il vero Messia, ingiustamente allontanato dal Cristo. Tenete…”
Si tastò l’anca, nel punto dove la sua mano era abituata a trovare l’apertura della tasca, poi, correggendosi, tirò da sotto il suo maglione nuovo fiammante una piccola icona dipinta su legno da cui non si separava mai. Aveva due facce. Ci mostrò quella che rappresentava Giovanni Battista. Il Precursore non era riconoscibile che per la sua tunica in pelo di cammello. Le altre fattezze che lo distinguevano gli conferivano un carattere sovrumano, angelico, quasi divino: ali sulle spalle, la stola incrociata sul petto, una corona d’oro in testa, lo scettro in una mano e il calice nell’altra. Era l’apoteosi dell’uomo, dell’uomo non redento dal Cristo, ma trasfigurato e trasmutato in Cristo per la sola virtù della sua evoluzione.
“E cosa c’è,” domandammo, “sull’altro lato dell’icona?”
“Lo vedrete più tardi, quando vi avrò parlato di san Giovanni l’Evangelista. Mi piacerebbe prima recarmi in pellegrinaggio a Efeso, se avrete la bontà di condurmici uno di questi giorni. Per stasera abbiamo di che meditare a sufficienza. Meditate. Vi apparirà chiaramente che tutte le decisioni degli uomini, con qualsiasi partito debbano schierarsi, si determinano secondo la personalità che attribuiscono a Giovanni il Battista: o si prosternano con lui davanti all’Agnello di Dio, o lo innalzano ai cieli suo malgrado, come l’iniziatore delle riforme emancipatrici di cui fantasticano. O l’indefettibile araldo di Cristo, o il suo renitente rivale.”
Alla fine, ci pregò di notare, nell’angolo inferiore dell’icona, un fusto d’albero a due rami, di cui uno era germogliato, pieno di fogliame, mentre l’altro era tagliato, pressoché all’altezza della biforcazione; e la scure che l’aveva abbattuto giaceva ancora ai piedi della pianta.
“Questa figura, spesso associata a quella del Battista, illustra ciò che egli annunciava: ‘La scure è già posta alla radice degli alberi: ogni albero che non fa frutti buoni, sarà tagliato e gettato nel fuoco.’ Il ramo rimasto, simbolo della religione di Cristo, ha approfittato della linfa che il ramo sacrificato non assorbe più, simbolo della religione di Giovanni ormai inutile, poiché non si è trattato che di una religione temporanea, una speranza che muore quando il suo oggetto si realizza. E Giovanni stesso conferma questo sacrificio, poiché afferma: ‘Non sono io il Cristo… Egli deve crescere, io invece diminuire.’
“Questa dichiarazione formale non ha però disarmato i disobbedienti: essi l’hanno semplicemente rivoltata al contrario, essendo il loro intendimento falsato dal volere che sia l’uomo a crescere, e Dio a diminuire. Così, adottando tale e quale il simbolo dell’albero, ne hanno capovolto il senso: il ramo fiorente è, a loro giudizio, quello di Giovanni, e quello che non fa frutti buoni e dev’essere tagliato è quello di Gesù. Osservate bene la scure: è a doppio taglio, come lo stesso simbolo. Le apparenze sono salve. Gli iniziati comprendono.”
Replicammo che tutto ciò valeva in un convento del Sinai, ma che speculazioni così sofisticate non contavano più nell’Occidente odierno, meno curioso di teologia che di televisione, automobili e progresso sociale.
“Mi sorprenderebbe,” disse, “che la voga stessa di questi divertimenti non avesse alcun rapporto con una qualche interpretazione moderna del ruolo che l’Occidente affida a Giovanni Battista.”
“La vostra icona,” gli dissi, “prova certo che l’Oriente ha anticamente divinizzato l’uomo nella figura del Precursore. Ma in Occidente questa divinizzazione è stata totalmente rigettata, abbandonata al punto tale che non ne esiste più traccia.”
“Ricredetevi,” replicò. “Le idee mutano apparenza, ma non invecchiano. Meglio si celano sotto maschere susseguenti e presto antiquate, più restano giovani e attive. Le più antiche rinascono e rinvigoriscono in Occidente in virtù di una propagazione altrettanto abile quanto quella delle icone. Quando la teologia si deteriora, il mondo va in rovina, ma senza teologia, buona o cattiva, né il mondo né l’Occidente esisterebbero più. Se il vostro Occidente è sovvertito al punto tale d’aver dimenticato l’origine delle sue idee attuali, spetta a voi riscoprirle, e vi aiuterò volentieri, se solo m’inviterete ad accompagnarvi nel vostro viaggio di ritorno.”
Vi fu un attimo di silenzio, poi ci separammo per raggiungere le nostre camere.
Una volta che ci trovammo da soli nella nostra stanza, Marthe, mia moglie, mi disse:
“Tu e i tuoi amici siete completamente pazzi. Non avete alcuna idea della responsabilità che vi siete assunti strappando al suo deserto quel povero ragazzo, per il quale il mondo è un miraggio. Adesso l’abbiamo sulla groppa. E che fare? Non abbiamo il diritto di deluderlo.”
Il giorno dopo, ci dirigemmo verso Efeso.
Giovanni vi passò una giornata in preghiera, nella casa dove la Santa Vergine visse assieme all’altro san Giovanni, l’Evangelista, il diletto, colui che non aveva mai abbandonato Maria dopo il Calvario, perché Gesù, dall’alto della croce, gli aveva detto: “Uomo, ecco tua madre.”
Comprammo dei giornali e raccogliemmo delle notizie, che lasciarono stranamente indifferente Giovanni quando, la sera, gliele riportammo. Eppure riguardavano il Sinai, dove, nonostante l’armistizio, la guerra si riaccendeva senza tregua in un punto o in un altro.
“Questo non mi stupisce,” disse. “Questa guerra, più manifestamente ancora delle altre, ha per obiettivo i Luoghi santi. Territori o petrolio non sono che gli aspetti materiali. Non c’è guerra che per o contro Cristo, e beninteso, questa guerra eterna non s’impegna tra le due parti rivali, bensì nel cuore di ognuno dei combattenti che vi è ingaggiato. Il Cristo è crocifisso sino alla fine dei tempi. Non può contare che sulla fedeltà di Maria e di Giovanni l’Evangelista, quando invece i suoi nemici reclutano all’uopo, e in ogni campo, tanto fra i Romani che fra i Giudei, tanto fra il popolo che fra la soldatesca, tanto fra i preti che fra i dottori, tutti in conflitto gli uni con gli altri, ma miracolosamente riconciliati contro di lui: tanti Giuda quanti ne servono per tradirlo, tanti buoni amici per abbandonarlo, tanti Caifa per macchinare la sua rovina, tanti Erode per schernirlo, tanti sediziosi per torturarlo, tanti Pilato per lavarsene le mani, e infine tanti seguaci di un falso san Giovanni per non perdonargli di essere Dio. Di tutti i nemici di Cristo, questi ultimi sono i più pericolosi, spesso introdotti nella Chiesa stessa e cospiranti per destituirlo col pretesto di servirlo. ‘Mi hanno odiato senza causa,’ ha sospirato Gesù. Ma la causa è in loro, nella loro detestazione di ogni cosa li sorpassi.”
Marthe, la sola fra noi che nell’infanzia aveva avuto l’abitudine di leggere ogni giorno una pagina del Vangelo, obiettò:
“Sono anche citati dei discepoli del Battista che si unirono a Gesù. Ricordate l’episodio che ha luogo a Betània, oltre il Giordano. ‘Giovanni il Battista si trovava là con due dei suoi discepoli. Fissando lo sguardo su Gesù che passava, egli dice: ‘Ecco l’Agnello di Dio.’ I due discepoli lo sentirono parlare così e seguirono Gesù… E quel giorno stettero presso di lui. Era circa l’ora decima. Andrea, fratello di Simone Pietro, era uno di quei due…’ ”
“E il secondo si chiamava Giovanni, figlio di Zebedeo. Era l’altro Giovanni, il futuro evangelista. Benché il suo stesso primo maestro l’avesse spinto a preferirgli l’Agnello di Dio, i fanatici del Battista hanno tacciato di tradimento questo discepolo ubbidiente. A causa di ciò che essi rinfacciano come una diserzione, lo hanno perseguitato senza pietà. Il suo Vangelo, tra i quattro Vangeli canonici, è quello in cui la divinità del Verbo è più apertamente proclamata. Ed è anche quello che, ancor oggi, è il più sospetto, criticato, contestato, maltrattato, massacrato dai nemici di Cristo. E senza dubbio, è per la medesima ragione che questo discepolo dal cuore ardente, questo adoratore incondizionato, questo Figlio meraviglioso, fu colui che Gesù amò di più.
“Disperando di ricondurlo a loro, i sovversivi hanno fatto in altro modo. Hanno tentato di falsificare la sua testimonianza, come hanno falsificato quella di Giovanni Battista, e di mescolarle entrambe a sfavore di Cristo, inventando una pseudo-religione di Giovanni, secreta e privilegiata, che nella loro immaginazione avrebbe prevalso sul cristianesimo. Hanno accoppiato le figure dei due san Giovanni in un simbolo assai indistinto per patrocinare ogni rivolta. Non è che uno dei due san Giovanni abbia seminato rivolta; ma togliendo loro ciò che li distingue, si semina confusione, e la confusione, qualunque essa sia, è l’anima della rivolta, e la sua arma. L’indistinzione delle idee è la grande arte di ogni sovversione. Ogni esoterismo, ogni gnosi, ogni eresia si riveste di questo talismano equivoco: un sofisticato amalgama delle virtù del Precursore e di quelle del Discepolo. Ora, queste virtù sono ammirevoli, ma in due ordini differenti: le une prima di Cristo, le altre dopo Cristo. Passare dalle une alle altre attraverso una gradazione insensibile, e per così dire naturale, senza evidenziare il solco che le separa, vuol dire ignorare Cristo, e con questo snaturare quei due ordini di virtù che non si costituiscono e non si ordinano che in rapporto a lui. Si sono così trasformati i due grandi servitori di Cristo, il testimone della sua venuta e il testimone del suo amore, in un mito ibrido che è la negazione di Cristo. Riuniti di profilo in un’unica testa, quale dei due irriconoscibili visi è rivolto verso il passato, e quale verso il futuro? In ogni caso, le loro visioni opposte e parziali non abbracciano la verità eterna di Cristo, verso la quale i loro sguardi dovrebbero, affinché il simbolo sia esatto, al contrario simultaneamente convergere.”
Mentre parlava, aveva posato sulla tavola la sua preziosa icona. Questa passava di mano in mano, e noi ne esaminavamo con calma il retro. Non vi si vedeva l’attesa effige di Giovanni l’Evangelista, ma un Ecce homo; e quell’immagine del Cristo sofferente era una copia esatta di quella che l’Evangelista stesso, secondo la tradizione di Efeso, aveva dipinto all’indomani della Passione.
Quella composizione dell’icona chiariva le parole del nostro amico. I due Giovanni, lungi dal formare un insieme, apparivano a turno e indipendentemente l’uno dall’altro. Da una parte, i seguaci di Giovanni Battista; dall’altra, Giovanni l’Evangelista, che consegnava alla pietà dei suoi discepoli la figura del suo divino Maestro, e nient’affatto la propria. Il contrasto non era meno sorprendente nei due schemi: da un lato, Giovanni il Battista nella sua maestà, l’uomo eretto a dio; dall’altro, Dio coronato di spine, abbassato all’ultimo grado della miseria umana. Dobbiamo scegliere fra questi due archetipi. Essi sono inconciliabili. Non possiamo contemplare l’icona che una sola faccia alla volta. L’oratore concluse:
“Esaltare l’uomo nel suo orgoglio, piuttosto che Dio nella sua saggezza, potenza e misericordia, è il grande disegno della sovversione. Da qui deriva il mito dei due san Giovanni, che tutto eleva e tutto abbassa al livello del solo uomo, ritenuto capace di progredire all’infinito con i propri lumi e le proprie forze. Il vero san Giovanni Battista avvertì inutilmente che ‘non può un uomo prendere nulla se non gli è dato dal cielo’. I due san Giovanni leggendari sono più ascoltati quando sostengono esattamente l’opposto, deformati come sono a tal fine dalla tenace illusione dell’uomo. Prestandosi reciprocamente il sostegno fittizio della loro omonimia, hanno esercitato in tutti i secoli un’influenza più profonda che benigna. La rivoluzione prospera sui loro cammini confusi, e il nome medesimo di Giovanni si è assicurato un prestigio magico.
“Il vostro Medioevo ha avuto a lungo la mente turbata e il coraggio svilito dagli incantesimi del favoloso prete Gianni, discendente dei Magi. Lo si credeva vecchio come Matusalemme, eppure sempre giovane, monarca invincibile, saggio come Salomone, incredibilmente ricco (il che denota quanto basta la sua diabolicità). In base alle epoche storiche regnava sia in Asia sia in Africa. Si credeva dunque ciecamente in lui. Ed era da lui che ci si attendeva regolarmente il salvataggio della cristianità in pericolo. Si sperò tanto che al suo posto vennero alla fine i Mongoli, e gli altri invasori che devastarono l’Europa. Fatui Occidentali, che così spesso scongiurate i pericoli con la leggenda e l’impostura! Se il prete Gianni è esistito, accadde per guidare da lontano le schiere di sogni che vi assopiscono ogni volta che il nemico s’avvicina. Il suo nome Giovanni, dipinto d’un fascino esotico, vi era sufficiente per designarlo come il nuovo Messia di quella famosa religione giovannea che vi seduce con il suo mistero, la sua fantasmagoria e la sua vacuità.
“Questa chimera, mille volte sventolata, non si è dissipata. Molte delle vostre logge massoniche sono all’insegna dei due san Giovanni, e vi lascio indovinare se l’uno o l’altro di questi due santi, resuscitando oggi sulla terra, approverebbe il lavoro che vi si compie sotto i loro comuni auspici.”
Questi discorsi non l’avevano spossato meno che noi.
“E meno male,” mi disse Jacques, “che il tuo amico viene da un convento dove il silenzio è obbligatorio.”
Le nostre vacanze volgevano al termine. Si conclusero a Efeso, con qualche giorno di riposo. Il nostro gruppo già si assottigliava; a uno a uno, i nostri compagni s’imbarcavano per i loro rispettivi paesi. Marthe e io attendevamo la nave delle Messageries Maritimes dove eravamo in lista. Rimasti alla fine soli con Giovanni, che nessuno aveva voluto portarsi dietro, riservammo un terzo posto a bordo. Mentre mi occupavo delle formalità, Marthe e Giovanni facevano lunghe passeggiate per la città. Alla sera, leggevamo la Lettera agli Efesini, dove san Paolo espone ai mariti e alle mogli i propri doveri. Giovanni riteneva che gli Efesini avessero approfittato male della lezione tanto quanto le Efesine.
Al momento di chiudere i nostri bagagli, ci rendemmo conto che una valigia in più non sarebbe stata di troppo. Giovanni ci risparmiò la spesa, impacchettando tutte le proprie cose nella sua vecchia tonaca di monaco. Scortati da quel fagotto, dicemmo addio alla città di Diana, che ormai per noi non era che il luogo dove Maria, prima di salire in cielo, s’era addormentata tra le braccia di Giovanni. Al porto, ci si apprestava a festeggiare il prossimo arrivo di un papa che si era chiamato Giovanni Battista. La nostra nave si chiamava la Jean-Marie.
“È un bel nome,” disse Giovanni. “Poiché Giovanni è unito a Maria, non c’è alcun errore da temere.”
*
Ci vorrebbe un libro per raccontare quel viaggio e gli avvenimenti dell’estate e dell’autunno che seguirono. I miei impegni professionali m’impedirono spesso di prendervi parte di persona. Non ne riassumerò quindi che i più memorabili, in base ai racconti di Marthe e ai rapidi appunti che presi qualche volta, la sera, come lei me li dettava.
Facemmo subito rotta verso la Sicilia, e scendemmo a terra a Palermo per un breve scalo. Non avemmo che il tempo di dare un rapido sguardo agli scintillanti mosaici della Cappella Palatina. Giovanni, d’istinto, andò dritto verso quello che rappresenta il battesimo di Cristo, ma non vi sostò che per un istante. Il nostro battello levava già le ancore.
Il tempo libero della traversata fu dedicato alla lettura e allo studio del latino, lingua con la quale Marthe riteneva necessario far familiarizzare Giovanni senza indugi. Presto vi eccelse. Sistemati nella biblioteca del capitano, lo preparammo come meglio potemmo alla scoperta di quell’Occidente dove andammo ad approdare.
Un giorno che il mare era bello e che lo contemplavamo in compagnia del cappellano della nave, Giovanni ci disse:
“Non fidatevi. L’acqua splende al sole, ma non è, a differenza del fuoco, un elemento puro. È ambigua e promiscua, incantatrice e perfida come la sirena. L’uomo vi naviga e vi nuota, ma naufraga e annega. La fonte disseta, il mare contamina, il fiume straripa. Il mare è la dimora del delfino, ma anche del mostro. L’acqua contiene il bene o il male. Essa è, in una parola, lo specchio della natura umana. Ecco perché il prete la esorcizza e la neutralizza con del sale prima di versarla sulla fronte del battezzato, e ho visto che a messa, signor cappellano, la benedite prima di versarne una goccia nel calice, mentre sarebbe superfluo benedire il vino, figlio della terra e del sole. Questa precauzione intende espellere dall’acqua il diavolo che forse vi si nasconde.”
“È per non dispiacere al capitano,” rispose il cappellano, “che celebro sempre, su questa vecchia nave, la messa secondo l’antica usanza. Ma abbiamo cambiato tutto ciò. Queste diavolerie, nel mondo moderno, sono irreversibilmente sorpassate.”
“Sorpassate da che?” ribatté Giovanni. “Nel mosaico di Palermo abbiamo notato che la mano di Cristo, sotto i flutti trasparenti del Giordano dov’è immerso, accenna l’identico gesto di benedizione. Delle icone più antiche ci mostrano che egli mira, con questo gesto, a un diavoletto seduto sul fondo dell’acqua, che a Palermo è sostituito da due minuscoli personaggi umani. E negli affreschi della Cappadocia, si distingue sotto l’acqua un cero acceso, lo stesso che immergete ancora nell’acqua battesimale, per ricordare che Cristo battezza non solo con l’acqua, ma con il fuoco che santifica l’acqua. E che cosa vorrebbe dire, se non che il battesimo impartito da Giovanni Battista è aleatorio e imperfetto, mentre il battesimo cristiano porta alla vera salvezza?”
“Però,” osservò Marta, “il battesimo che Gesù ricevette da Giovanni è tuttavia perfetto, poiché viene completato dall’intervento del Padre, che, dall’alto dei cieli, indica allora Gesù come il suo figlio prediletto.”
“Tutti i Padri della Chiesa hanno disputato all’infinito in proposito,” rispose Giovanni, “poiché i dottori ariani si sono impadroniti di quest’intervento del Padre per sostenere che solo in quell’attimo Gesù è divenuto Cristo e Figlio di Dio, non essendo fino allora che un uomo. L’uomo Gesù, a loro giudizio, non sarebbe nato consustanziale al Padre fin dall’inizio dei tempi, ma sarebbe stato elevato a Figlio di Dio intorno al suo trentesimo anno, sulla riva del Giordano, per una sorta di adozione. Molte icone, anche ortodosse, portano chiaramente le tracce di quest’eresia. Perché se in tutte, come a Palermo, gli angeli testimoni del battesimo presentano le mani velate in segno d’adorazione, quegli stessi angeli, assistendo alla Natività nella stalla di Betlemme, hanno per lo più le mani nude, dimostrando con questo che essi non avrebbero adorato Gesù fin dalla nascita. Ecco come gli ariani mettono suppergiù sullo stesso piano Gesù e Giovanni Battista: eguali per natura, emuli in santità, il primo avrebbe gloriosamente beneficiato di un’adozione divina di cui il secondo sarebbe stato il non meno glorioso strumento. E Giovanni Battista possiede in più, ai loro occhi, il prestigio di una virtù scevra da favoritismi.”
“Non è che cercate un po’ il pelo nell’uovo?” sospirò il cappellano.
S’era fatto mezzogiorno, e la sirena di bordo, tagliando corto quel dibattito secolare, ci invitò a pranzo. I nostri pasti erano molto allegri. Le minime novità procuravano in Giovanni uno stupore di cui lui era il primo a ridere. Il suo carattere facile e dolce, la sua candida spontaneità, contrastavano con il tono passionalmente serio delle conversazioni teologiche che intraprendeva soprattutto con Marthe. Scopersi in lei un’attitudine alle cose dello spirito, delle aspirazioni religiose nei cui confronti avevo avuto il grande torto di non essere mai stato attento. Giovanni le dispensava un nutrimento di cui aveva sofferto per esserne restata troppo a lungo priva. Lo ascoltava come un maestro e lo trattava come un bambino, materna e serena, ed entrambi assolvevano con naturalezza e identico rispetto il ruolo delicato che era stato loro attribuito. L’amicizia fra i due si faceva ogni giorno più spontanea e profonda. Sapevo bene che in futuro, qualunque cosa fosse accaduta, la nostra vita di coppia non sarebbe più stata uguale a quella precedente l’incontro di Giovanni. Ma ero certo che non si sarebbe né impoverita né incupita, bensì il contrario. Non mi sfuggiva che Giovanni, pur essendo un uomo di Dio, era anche un uomo della natura, e lo sguardo che gettava su Marthe brillava a volte di una vivacità furtiva, in segreto dolorosa; ma quello sguardo si rasserenava subito, ricondotto verso l’ineffabile, senza che la sua fiamma s’indebolisse. E non dubitavo che i loro discorsi, qualunque leggero turbamento andasse per un istante a velare ciò che ne era l’unico oggetto, non dovessero essere purificati in modo altrettanto indiscusso da quello stesso oggetto ineffabile, quanto le acque del Giordano dal fuoco di Cristo.
È a Troyes, nello Champagne, per caso durante una tappa del nostro itinerario terrestre, che Giovanni colse l’occasione per dichiararci i suoi sentimenti. Visitammo in quella città la chiesa della Maddalena, dove risplendeva una bellissima statua di santa Marta.
“Ecco la vostra patrona,” disse Giovanni. “Salutiamola.”
Dall’alto del suo ristretto zoccolo, una donna magra, anziana, inclinava verso il suolo un viso preoccupato, quasi arcigno. Ci sembrava di sentire il suo respiro regolare, mentre dalle sue mani energiche e calme chinava davanti a sé un attrezzo invisibile, che avrebbe potuto essere indifferentemente una vanga da giardinaggio, un mestolo da cucina o la lancia che abbatté il drago Tarasco. Poco importava la mansione, c’era il cuore. Da quella figura austera emanava una bontà infinita, efficace, ma spogliata d’ogni emozione. Ci si era mozzato il fiato.
“Che esempio per noi!” disse alla fine Giovanni. “Nessuna occhiata curiosa a destra o a sinistra, nessun lamento, nessuna parola: al lavoro! Ognuno al suo lavoro. Il posto di Maria, la sorella fortunata, è ai piedi del Maestro. Quello di Marta è alle faccende di casa, dove il Maestro l’ha rimandata. Se lo tiene per detto. Ma ha la fede. Sa di essere la più forte, ed è grazie alla sua preghiera che Gesù resusciterà Lazzaro. È il pilastro della casa, la sua sicurezza e la sua vita, e non ha bisogno d’essere favorita per essere amata.”
Una volta che ci fummo risistemati a casa, il ruolo che mi toccò fu un po’ quello di santa Marta. Il mio posto era in ufficio. Non me ne assentavo molto, sperando che le mie ore di strapazzo fossero conteggiate, pure a me, come altrettante preghiere per la vita e la resurrezione. Marthe e Giovanni uscivano spesso assieme, senza curarsi dei vicini che spettegolavano. Si recavano a Liegi.
Qui, le fonti battesimali della chiesa di San Bartolomeo confermavano le riflessioni che Giovanni aveva fatto a Palermo. Tutta la storia del battesimo si ripercorreva sui fianchi di quella vasca di bronzo, capolavoro ineguagliato dell’arte metallurgica tradizionale. Il battesimo di Cristo ne costituiva la scena centrale, d’esecuzione migliore e leggermente più antica del mosaico, ma di composizione analoga, salvo una particolarità fondamentale: a Liegi, il cielo si spalanca sopra il Cristo battezzato, lasciando apparire il Padre e la colomba dello Spirito Santo che proietta verso il basso raggi di fuoco. E questi raggi si riproducono nelle scene seguenti, dove gli apostoli Pietro e Giovanni l’Evangelista battezzano dei catecumeni.
“Questo rivela negli autori di un tale capolavoro,” disse Marthe, “un senso più ortodosso della superiorità di Cristo. Perché nella scena precedente, dove il Precursore battezza dei semplici penitenti, dal cielo non discende alcun raggio. Inoltre, il personaggio di Cristo è situato esattamente nel punto centrale della circonferenza, all’opposto del punto dove comincia e finisce il bassorilievo: dimostrazione che la missione di Cristo, e non quella di Giovanni, è qui indicata come l’avvenimento principale, in funzione del quale si ordina tutta la storia, e che ha rinnovato il mondo. Eppure, mi sento a disagio. Questo monumento spira non so che d’eterodossia. Forse perché è troppo bello.”
“Avete ragione, cara e sensibile amica! Questo gioiello dell’arte occidentale è greco, sia d’ispirazione che di fattura. È dunque leggermente intriso di quella teologia arianizzante che, in Oriente, non ha mai smesso di covare sotto le ceneri. I battisteri cattolici veramente ortodossi non concedono il posto d’onore a Gesù battezzato, bensì a Gesù crocifisso, in quanto, se Gesù è Dio, è tramite il suo sacrificio che il mondo è riscattato e che lo stesso battesimo entra nel suo pieno vigore. Se Gesù non è Dio, per la salvezza è sufficiente il battesimo di Giovanni. Ora, in questo bassorilievo, Giovanni Battista figura non meno di tre volte: è molto, per un attore che non avrebbe la parte principale. Per giunta, lo si rincontra schiena contro schiena con Giovanni l’Evangelista nel punto dove la fine di questa narrazione per immagini si ricongiunge al suo inizio. I due san Giovanni compaiono come l’alfa e l’omega, l’uomo universale con due facce, voltate verso l’avvenire e il passato della terra, ma non verso il cielo, proprio come sulla nostra roccia nel Sinai.”
Delle cartoline che riportarono dalla loro spedizione mi permisero di apprezzare la pertinenza di questi rilievi. Marthe vi obiettava, non meno correttamente, i raggi di fuoco con i quali si manifesta, alla fine, nelle tre scene propriamente cristiane del bassorilievo, l’onnipotenza della Trinità divina.
“È vero,” le disse Giovanni. “Numerose dottrine si mescolano in quel monumento: sulla base di una concezione ariana della salvezza attraverso l’uomo, gli autori hanno riedificato, forse per prudenza, il dogma della Redenzione di Dio. Mi sembrerebbe che questa meraviglia abbia visto la luce in un’epoca di grandi disordini religiosi.”
Presi in prestito per loro alcuni ben documentati volumi di storia locale. E infatti, vi apprendemmo che il principato di Liegi si era dotato di quella fonte battesimale nel mezzo di una guerra di teologia che lo dilaniò sotto il regno di un vescovo scismatico. Ognuna delle parti in causa era riuscita a estorcere dal bronzo qualche argomento a suo favore, a beneficio di una posterità che non vi capiva nulla, benché stesse rivivendo ai nostri giorni un antagonismo che, espresso in nuovi termini, era eternamente lo stesso, quello tra il partito dell’uomo e il partito di Dio. I due partiti si erano conservati grazie a dei compromessi, che pure il monumento attestava con l’armoniosa unità fra arte medievale e classica in cui tutti i contrari si fondevano, in uno stile assolutamente degno dell’antica Grecia.
Giovanni non apprezzava meno la bellezza delle opere umane di quanto non ne sviscerasse il significato sovrannaturale. Marthe era sotto l’effetto di un incantesimo che mi trasmetteva senza confessarlo. Con un lieve sorriso, mi raccontava che il suo compagno, di fronte a certi monumenti, cadeva in una specie di prolungata e silente estasi. Andava a inginocchiarsi in musei fortunatamente vuoti, mentre Marthe distraeva i custodi nelle sale vicine. Le immagini che più venerava non erano sempre le più immateriali, e senza dubbio avrebbe potuto dire con Metternich:
… E se m’inginocchio a quest’ora, in questo luogo,
Non è solo davanti all’Agnello di Dio.
Andò ben peggio a Gand, dove li accompagnai una domenica. Benché vi fosse una gran folla a San Bavone, passammo l’intera giornata nella cappella dell’Agnello mistico. Giovanni non voleva uscire, neanche durante le funzioni, quando il polittico veniva chiuso. Rimaneva a osservare le imposte esterne con altrettanto fervore che gli splendidi pannelli interni, riesposti da un sacrestano negli intervalli fra le messe. E a ragione: all’esterno i due san Giovanni erano dipinti, fianco a fianco, non come esseri viventi, ma in forma di due statue a grandezza naturale. Giovanni ci disse che questa pietrificazione, imitata dalle sculture delle chiese, non era che un artifizio destinato a distogliere dal vero pensiero del pittore: cosa c’era di più irreprensibile che quelle statue sacre? Il fatto insolito era che fossero poste là, senza ragione apparente, tra il donatore e la donatrice, inginocchiati come in adorazione dinnanzi a esse.
Dalla mattina Giovanni non proferì più parola, aspettando pazientemente che defluissero le fiumane successive di parrocchiani alternati a turisti. Alla chiusura dell’edificio, andammo a pranzare con un waterzoei6 che mangiò di gusto. Alla riapertura, il sacrestano credette di avere le traveggole, riconoscendolo di nuovo ai piedi del retablo, nella cappella ora deserta. Lo interrogammo solo al ritorno.
“Avete gli occhi,” ci disse, “l’Occidente ha gli occhi, e non vede affatto. Ma voi siete ormai abbastanza edotti per decifrare quel polittico, del resto splendido, senza che le mie spiegazioni vi siano ancora utili.”
Tuttavia, ci riassunse in breve, ma abbastanza di mala grazia, alcune osservazioni che aveva rapidamente annotato. Dovemmo così convenire che i pannelli interni del retablo sono dipinti a totale gloria e per l’apoteosi del solo Giovanni Battista. Vi troneggia in cielo a fianco di Dio, mentre sulla terra l’Evangelista è appena riconoscibile nel mezzo degli apostoli e dei dottori che lo circondano in massa. In contrasto con un tale anonimato, un’iscrizione molto chiara decora il trono celeste del Battista, che vi è descritto come “più grande dell’uomo, eguale agli angeli” e come “luce del mondo”; la frase è tratta da un sermone di san Pietro Crisologo, vescovo alla corte di Ravenna, cattolico ma per lungo tempo amico dell’eretico Eutichio e lui stesso arianizzante, come lo erano quasi tutti, più o meno coscientemente, nell’ultimo secolo di vita dell’Impero romano.
Il dio che regna alla sommità del dipinto è Dio il Padre o Dio il Figlio? La questione non è mai stata risolta. Secondo il nostro amico, non si tratterebbe né dell’uno né dell’altro, perché è sia l’uno che l’altro: il Dio unico senza distinzione di Persone. La persona del figlio non è raffigurata che dall’Agnello innalzato su un altare, sullo sfondo del paesaggio terrestre. Attorno all’altare, degli angeli alati formano un cerchio d’adoratori. Ma in primo piano si innalza trionfale una fontana dall’acqua zampillante, ed è verso di questa che voltano le teste, che portano l’attenzione e si dirigono gli innumerevoli personaggi di ogni sorta che popolano i quattro angoli del dipinto: nemmeno uno fra loro degna di un solo sguardo l’Agnello. Da ciò si deduce che non ci è voluto niente di meno di un prodigioso “trompe-l’oeil” per suggerire il nome di Adorazione dell’agnello, comunemente attribuito a questa composizione che dovrebbe più esattamente chiamarsi Adorazione dell’acqua. Il centro geometrico è d’altronde costituito dal vertice della fontana. Tutto converge verso quel punto, dove risplende la statuetta dorata di un angelo, nel luogo e al posto della croce che ci si aspetterebbe.
Per giunta, in tutto l’insieme del polittico, la croce di Cristo non si nota da nessuna parte. Eppure il pittore vi ha disseminato numerose croci, ma tutte minuscole, greche o patenti, che non fanno che d’accessorio o ornamento; parecchie di queste sono a forma di tau, simbolo imperfetto, private del braccio superiore per il quale discende la grazia celeste. Anche la croce che compare fra gli strumenti della Passione portati dagli angeli che circondano l’Agnello, persino questa croce del Calvario, è ambigua: non si capisce se l’iscrizione che la sormonta radente alla trasversale sia posta lì per nascondere il braccio superiore della verticale o per mascherarne l’assenza. Simili ambiguità sono casuali?
Giovanni non voleva più viaggiare.
“Ho capito tutto,” disse. “A che pro? Ho capito in primo luogo che nessuno, a parte voi, miei poveri amici, più comprende, né vuole comprendere, la verità più manifesta. Senza nemmeno rendersene conto, l’Occidente ha tradito il Prediletto. Ahimè! S’accorgerà delle conseguenze di questa scelta insensata. Non sono già fin troppo tremende.”
Marthe insistette molto per trascinarlo a Colmar, dove degli amici l’avevano invitato. Si avvicinava l’autunno. Tutto sfioriva. Giovanni non volle vedere nessuno e si rinchiuse in albergo. Dormiva per terra e pregava dal mattino alla sera. Benché l’avesse appena avvicinato, il mondo moderno non l’attirava più. Alcune vecchie opere d’arte glielo avevano descritto a sufficienza. Preferiva la loro bellezza al loro linguaggio, e quest’inclinazione che, suo malgrado, provava per la bellezza sensibile. lo tormentava più di tutto il resto. Vi vedeva la grande tentazione cui l’Occidente era prossimo a soccombere. Marthe gli diceva che Dio ci parla anche con la bellezza, nonostante gli artisti non ascoltino la sua parola.
“Questo vino è troppo forte per me,” disse.
Marthe rientrò pensierosa e inquieta. Di fronte alla Crocifissione di Grünewald, la collera di Giovanni non era sfociata che in un cupo silenzio. E in realtà, non aveva più avuto bisogno di spiegare nulla. Marthe aveva ormai gli occhi abbastanza aperti per constatare da sé che l’eresia, là, non nascondeva più, né frenava, il suo gioco. Cacciati sul medesimo lato dell’orrida croce, gli ultimi fedeli di Cristo, Maria, Giovanni l’Evangelista e Maddalena, ombre evanescenti e disperate, sprofondavano in un patetico teatrale. Dall’altra parte, un falso Giovanni Battista ben in carne, quasi sorridente, usurpava con sicurezza il posto del Discepolo. Indicava con un dito vittorioso la Vittima estenuata e, raccolto il Libro, restava l’unico a insegnare, fra le tenebre. A due passi da lì, i critici d’arte disquisivano sulla composizione chimica dei colori fuligginosi di cui il pittore si era servito.
“Perché non sanno ciò che fanno,” mormorò Giovanni, a denti stretti.
“Ma in ogni caso,” gli disse Marthe, “ci sarà la resurrezione.”
Lo calmò un poco conducendolo nelle altre sale del museo, dove i dipinti erano più miti. Lanciò delle occhiate perplesse a due ritratti di sant’Antonio eremita, raffigurato da due monaci che tenevano in mano, entrambi, un bastone cimato da una croce. Anche qui quest’ultima era mutila, a forma di tau.
“Andiamo,” disse Giovanni.
Il nostro Natale fu assai triste, allietato però da una grande notizia: Jacques, di passaggio nella regione, ci annunciò il suo arrivo. Puntammo sul suo buon umore per ridare a Giovanni il gusto della vita. Eravamo un po’ stanchi.
Jacques giunse prima del previsto. Non osò chiederci troppo, e ripiegammo su qualche aneddoto delle vacanze. Tutti e tre, comunque, non pensavamo che a Giovanni.
Eravamo a tavola quando scese. Il suo passo rallentò, esitando sui primi gradini. Noi ci eravamo alzati. Si decise e alla fine apparve. Si era rimesso il suo abito da monaco.
Abbracciai Marthe. Lei piangeva.
“Me lo sentivo,” disse. “Non è già più con noi.”
“Perché oggi?” domandò Jacques.
“Ignorante!” gli disse Giovanni. “Sono arrivato il giorno di san Giovanni d’estate. E me ne vado a san Giovanni d’inverno. Ho percorso il circolo.”
“E dove andrete?” gli chiesi.
“Non ho mai saputo quale Giovanni sia il mio santo protettore. Almeno avrò imparato che il Cristo non ha eletto come garanti della sua divinità che un solo vero san Giovanni Battista e un solo Giovanni Evangelista. Nel regno di Satana, il mondo in perdizione li ha sostituiti con tanti falsi Battisti e falsi Evangelisti, elevati a oggetti della sua idolatria a detrimento di Cristo. E il prestigio con cui ha saputo aureolare i falsi, ha pressoché interamente eliminato persino il ricordo di quelli veri. Eppure sarà a essi che alla fine occorrerà rivolgersi per vivere e pensare secondo la verità divina. Il dibattito si è talmente ingarbugliato da apparire oramai insolubile. Non conosco che un solo luogo della terra dove questo dibattito, se non risolto, è almeno restato sincero. Ed è là che me ne torno, al mio convento dei Due San Giovanni del Sinai.
“State attento,” disse Jacques. “Adesso non c’è la guerra. Più guerra, più gazzelle. Ricordate… Nessuno mai ne ha ritrovato la strada.”
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