La poesia orale degli zingari 1/2

Romi, i padroni del tempo

Questa seconda parte del libro non contiene la poesia dei Romi, ma una piccola antologia di quella poesia; e chi ha curato la scelta ha cercato il meglio. Non solo, ma ha cercato di riunire poesie che potessero dare una visione generale della lirica orale del popolo rom; un popolo che, venuto da un’antica patria lontana, è rimasto per sempre senza patria sparpagliandosi in tutti i continenti e in quasi tutti i paesi del mondo. Le tematiche più frequenti di questa poesia popolare sono: la povertà e la fame; lo scontro con le leggi della società dei non-rom; la privazione della libertà che per i Romi è il bene più alto dell’uomo; l’inestinguibile ricerca di questa libertà; l’amore per i cavalli che fino a una certa epoca – prima che predominassero le roulotte e le automobili – erano la principale forza motrice per lo spostamento dei Romi sui loro carri ricoperti da tende; l’amore per i grandi spazi; l’amore fra uomo e donna nelle sue manifestazioni più passionali; il fortissimo attaccamento ai figli.
Le poesie riunite in questo libro, per la prima volta tradotte in italiano, pur ricorrendo presso tutte le tribù dei Romi, dai Sinti ai Kalderasci ecc., sono state raccolte in un’area geografica relativamente ristretta, la penisola balcanica, nella quale però sono concentrate comunità di tutte le tribù, e dove i Romi sono relativamente i più numerosi: dalla Romania alla Grecia, dalla Macedonia al Montenegro, dal Kosovo alla Serbia, alla Bosnia, alla Croazia, alla Slovenia e all’Ungheria15.
Come già spiegato nella prima parte di questo libro, la maggior parte dei Romi sparsi nel mondo professa la religione cristiana nelle sue principali varianti: cattolica, ortodossa, evengelica; consistenti gruppi seguono la religione musulmana e altri, pochi, non hanno alcuna religione. D’altra parte, pur avendo perduto il loro patrimonio spirituale originario, esso rispunta sovente come dimensione profonda: si pensi al culto della Santa Sara Kalì, che è poi la grande dea Kalì degli Indù.
Dei popoli in mezzo ai quali vivono i Romi sposano anche la lingua, talvolta rinunciando alla propria e più spesso abbinando la propria e quella locale. Ovviamente, mancando di proprie scuole, e nonostante diversi studiosi di linguaggi romanì abbiano approntato grammatiche e fissato regole per scrivere e leggere le diverse varianti della romanì shib, i Romi non hanno una lingua unitaria; e anche chi ha raccolto e tradotto le poesie contenute in questo libro ha avuto qualche difficoltà.
Ricordo in proposito l’invito che mi fu rivolto e che accettai con gratitudine nell’ormai lontano mese di maggio del 1986, partecipando a un congresso internazionale di tre giorni su “E åhib thaj e romani kultura” ovvero sulla lingua e cultura dei Romi. Fu presente, fra gli altri, l’accademico jugoslavo Rade Uhlik, uno dei primi dedicatosi allo studio dei canti popolari e in genere della cultura rom. L’indiano W.R. Rishi tracciò un excursus storico del movimento dei Romi, della loro lingua e cultura; la zagabrese Milka Jauk-Pinhak presentò una breve storia degli studi della lingua romanì nel mondo; il poeta rom serbo Rajko Djurifl descrisse “alcuni elementi costanti della cultura dei Rom e i valori fondamentali della comunità rom”; Ian F. Hancook descrisse la situazione della lingua romanì negli Stati Uniti d’America; il bosniaco Branko Toæovifl ci informò sulla “lingua romanì e la romologia nell’Unione Sovietica”. Degli studi di romologia in Grecia, in Romania, nella Cecoslovacchia e in altri paesi parlarono studiosi di quei paesi; si parlò del rapporto dei Romi verso le lingue dell’ambiente sociale; della necessità di un approccio linguistico-antropogenetico fra i Romi e le popolazioni indiane; della situazione della lingua romanì nell’Europa d’oggi; dell’importanza dei dialetti creolizzati dei Romi; dei problemi etimologici della lingua romanì; dei compiti che si ponevano di fronte alla scienza sociolinguistica; della codificazione e normalizzazione della comune lingua romanì, del comune alfabeto di questa lingua, dei problemi teorici e pratici dell’ortografia romanì, dell’unificazione delle ortografie nazionali, della sintassi, dell’onomastica, del problema dell’acculturazione dei Romi nei diversi ambienti. Eccetera eccetera. Tanto per dire che in questo campo i problemi da risolvere sono tanti, e che oggi, purtroppo, dopo le iniziative promosse nell’ex Jugoslavia alla metà degli anni Ottanta del secolo appena trascorso, la situazione è peggiorata soprattutto in Europa.
Pochissime sono le istituzioni, e ancor meno i governi, che si curano, per esempio, del patrimonio musicale e narrativo, del folklore, delle superstizioni, demonologia, medicina e farmacia popolare, dei comuni motivi presenti nei patrimoni folkloristici dei Romi e dei popoli in mezzo ai quali essi vivono, della loro presenza nell’etnologia e nella letteratura folklorica dei vari paesi, degli elementi della loro cultura che dovrebbero essere presenti nell’educazione dei bambini rom nei vari paesi occidentali; dell’educazione dei bambini rom in genere in questi paesi; della necessità di inserire elementi di lingua e cultura romanì nei programmi di insegnamento scolastico di questi paesi, laddove si sia in presenza di gruppi di scolari rom; dei problemi di sistemazione, di tutela sanitaria e di educazione delle comunità rom; e si potrebbe continuare. Forse anche questo libro potrà contribuire a richiamare l’attenzione su questi problemi, oltre a dare al lettore un vero godimento intellettuale.
Nella prima parte di questo libro ho sommariamente informato il lettore sulla storia e la cultura dei Romi, un argomento sul quale ho scritto diffusamente nel mio libro Zingaro, chi sei? (ed. Fratelli Ferraro, Napoli) apparso nel 1978. Voglio soltanto ricordare in occasione della primissima presentazione in volume di canti popolari rom in italiano, che i Romi sono presenti in Italia fin dal Quattrocento. Oggi sono alcune centinaia di migliaia, con una presenza particolarmente numerosa e di immigrazione relativamente recente di Romi giunti dall’ex Jugoslavia, Kosovo compreso, e da altri paesi dell’Est europeo. Per coloro che se ne occupano, essi costituiscono il problema di una cultura minoritaria, minacciata di estinzione, che va conservata.
In una raccolta di racconti scritti da Zlato, uno zingaro Kalderash (il libro ha per titolo Rom Sim ed è uscito in Italia nel 1985 per le edizioni di Lacio Drom, una rivista romana del Centro Studi Zingari costituito nel 1965 a scopi soprattutto di ricerca su iniziativa di Mirella Karpati, pedagogista oriunda di Fiume), il giornalista zingaro Derek Tipler, morto nel 1984, così concluse la prefazione, rivolgendosi ai lettori non-rom:
“Io sono un Rom e sono orgoglioso di esserlo. Sono ben consapevole che ci sono alcuni aspetti della nostra vita che sono negativi e che devono essere cambiati, come sono da cambiare altrettanti fra voi. Ciò che io e altri Rom non siamo disposti ad acconsentire è la condizione che, per essere accettati da voi, dobbiamo adottare le vostre specificità, i vostri modelli e i vostri criteri. Forse, chissà, il mondo potrebbe essere migliore, se voi e la vostra società veniste giudicati in conformità dei nostri modelli e dei nostri criteri … Forse questo è il problema, non tanto che noi non viviamo secondo le vostre attese, quanto che voi avete perduto ciò che noi conserviamo ancora”.

È un discorso di parte, certamente, che non manca però di saggezza, e potrebbe essere completato, come fece Gianna Sarra in un ampio discorso sui Romi apparso il 26 aprile 1985 su Paese Sera, dicendo che l’“uomo del vento” e l’uomo della terra, l’agricoltore e il nomade, cultura e natura, hanno qualcosa da scambiarsi ancora. La giornalista scrisse:

“Se di razzismo si tratta – penso – a volte il razzismo è reciproco. Mi rendo conto che un limite molto sottile passa fra il pregiudizio ignorante e violento contro gli zingari e la retorica dell’adesione sentimentale e acritica al loro mondo (discorso valido per la questione di tutti gli emarginati). Una cosa però è indiscutibile: che l’originalità di questa cultura va in qualche modo salvata, perché di loro ci porta – insieme a lati oscuri e non del tutto riconosciuti, o accettabili (una famiglia a struttura rigidamente patriarcale, in cui la donna non è onorata se non da vecchia – cioè quando perde i caratteri femminili; la fissazione nei ruoli, che sembrano rappresentare, all’interno del clan, l’unica sicurezza fra tante incertezze di vita; forti tracce di paganesimo e culto dei morti nella pratica dei riti cristiani; una quasi infantile ‘dispettosità’ del carattere) – l’insegnamento fondamentale di una grande generosità non disgiungibile dal loro grande senso di libertà”.

Anche in queste parole notiamo un residuo di pregiudizi nei riguardi dei Romi da parte di una “gaggia” che pur si pone sulla loro barricata. E tuttavia in gran parte è una posizione condivisibile. Ma, avviamoci alla conclusione.
Questi canti, raccolti nella pensiola balcanica che vide i primi stanziamenti di zingari nel ix secolo dopo il loro allontanamento dall’India, oltre che per noi non-rom è importante per gli stessi “intoccabili” (come i paria della loro terra di origine): è la prima volta che i Romi, un popolo di tradizioni quasi unicamente orali, si manifestano direttamente, attraverso una testimonianza lirica scritta, per spiegare di quali valori si nutre la pienezza della loro personalità.
Ovviamente, risalendo a tempi lontani, i canti orali dei Romi ci riportano anche a una situazione esistenziale che per molti versi oggi è cambiata. La nostra epoca ha posto fine ad antiquati sistemi di attività artigianale e a un’economia agricola nella quale i Romi erano perfettamente integrati, allevando cavalli e fornendo ai contadini gli equini da traino, vari attrezzi in ferro e in rame da essi costruiti o riparati in primitive officine ambulanti. Costruivano piccoli strumenti musicali e cesti, impagliavano sedie e fiaschi, riparavano ombrelli, arrotavano coltelli e forbici, vendevano oggetti di loro produzione alle fiere rurali. Con la loro musica, i giochi acrobatici e l’esibizione di animali ammaestrati, orsi soprattutto, intervenivano alle feste paesane. Quello che non è cambiato e non cambierà per i Romi è il loro modo di stare nel mondo: vogliono essere padroni del tempo e liberi di dare del tu anche a Dio.

Giacomo Scotti

Le poesie che pubblichiamo fanno parte della seconda parte del volume di Giacomo Scotti, I figli del vento. La vita dei Romi, gli uomini color del rame. Oggi pubblichiamo le prime 18 poesie. La prossima Domenica pubblicheremo le rimanenti 47. Una buona lettura.

I
Preghiere e povertà

Prima preghiera

Nessuno è come te, signore Iddio.
Ti prego, fa una grazia
a questo zingaro disgraziato:
crepino pure tutti in questo mondo
e resta vivo solo tu, mio Dio.
Ma metti il sale in zucca
quando costruirai un mondo nuovo!

 

Seconda preghiera

Dio, ascolta le mie pene.
Hanno fame i miei figli e vanno nudi,
le zingare tornano con le bisacce vuote,
gli zingari vanno affamati per il mondo.
Ascolta le mie pene, ascolta, Dio!
Ma Dio tappa le orecchie.

 

Preghiera dell’affamato

Mangio cavoli, perché altro non ho.
Ti prego, Dio, e che Dio ti tenga sano,
mettimi un po’ di carne dentro i cavoli!
Volgi il tuo sguardo a me
e ascolta quel che dico:
la mia casetta è piccola
come queste mie mani;
moglie non ho, la moglie mi ha lasciato,
e denaro non ho per una moglie nuova.
Mia madre è morta, mio padre non gli importa,
ho una sorella piccola, non può aiutarmi.
Che devo fare? Devo buttarmi in acqua?
O sole che mi guardi,
nemmeno a te posso dire i miei guai.
Dio mi ha ascoltato, dandomi fortuna:
figliuoli variopinti
e carne con i cavoli.

 

Ulula il vento gelido                                   Marel i balval åudri

Ulula il vento gelido.                                                                                 Marel i balvalåudri
Ti prego, Dio, fallo più caldo                                                                   ker le devla, maj tati,
perché Anna è malata.                                                                              sose si i Ana nasfali
Col mio vestito nuovo                                                                               ko plo nevo odelo.
potrò andare in paese                                                                               Te bi avava ando gav
a prendere per lei il dolce latte                                                               te anav laåe thud gudlo
così potrà mangiare anche il bambino                                                  te xal vi o åhavoro,
che ancora è affamato.                                                                             kava si maj bokhalo.

 

Seconda preghiera dell’affamato

Iddio lo sa, se sono così povero
la colpa non è mia.
Ho figli ancora piccoli
e senza neanche un cencio da vestire.
Piangono tutto il giorno
e di notte non dormono.
Iddio lo sa, la fame
non li lascia dormire.
E non so cosa fare.
Buttarci in acqua per affogare tutti
e buonanotte?
Non hanno padre né madre,
senza calzoni, senza camicia.
È forse colpa nostra
se siamo così poveri?
Non ho nessuno. Nessuno mi guarda in faccia.
Cammino a piedi scalzi
e lo stomaco è vuoto.

Eh, se Dio avesse voluto
ascoltare le mie parole,
i miei figli sarebbero
i più felici del mondo.
Nella pentola fumerebbe
magnifica la polenta.
Eh, se Dio avesse voluto
ascoltare la mia preghiera!

 

Né vivo né morto

O Dio, grande signore,
o mi prendi con te o mi lasci vivere.
Non vedi, Dio, cosa hai fatto di noi?
Tu sei grande, signore,
hai il potere supremo,
puoi fare quel che vuoi;
perché ti do fastidio?
O ti danno fastidio i figli miei?
Perché la scorsa notte tu mi hai detto:
non ti faccio morire
ma vivere nemmeno,
ti voglio tormentare!
Guarda te stesso, Dio, grande signore,
come sei grande e forte,
e metti bene in testa quel che dico:
tu sei tutto su questo mondo,
perciò non dovresti permetterti
di tormentarci tanto.
Ricordalo bene, signore Dio!

 

Se fossi un uccellino

Oh, se fossi un uccellino
per volare a mio piacere!
Mi tufferei dentro una pentola,
in una grande pentola.
Siederei accanto alla pentola,
mi sazierei di carne!

Oh, se fossi un pipistrello!
Cadrei dalla finestra
in braccio a una fanciulla
(Dio, se fossi un pipistrello!)
lei candida, io nero.

Tutto vorrei

Tutto ciò che gli occhi vedono
vorrei afferrare con le mani,
mordere con i denti,
baciare con le labbra.

 

La casa è piena

Ho una bella moglie
e quattro bambini.
Sono piccoli come
quattro brindelli.
Ho una bella moglie
e null’altro mi serve.
Ho riempito la casa di bambini,
posso chiudere gli occhi e morire.
Ho riempito la casa di pianto,
la tavola di bocche affamate,
il letto di corpi nudi,
ho una bella moglie
e quattro bambini.
Che altro mi serve?
Perché non morire?

 

Paura della morte

Sta arrivando la morte,
Dio, non farmi morire!
La morte è sulla porta,
mi celo sotto il letto.
Dio, non farmi morire così giovane!

La morte varca la soglia
e sono tanti i desideri inappagati!
La morte nera, la notte bianca.

Dio, non farmi morire
finché non avrò appagato
tutti i desideri.

 

Quando morirò

Quando morirò, mamma,
morirò all’alba
per volere di Dio.

Quando morirò, mamma,
pianta fiori
sulla mia tomba.
Intorno alla mia tomba,
intorno a me,
sistema due panchine.
I giovani potranno
cogliere i fiori,
i vecchi potranno
sedere e riposare.
Scava ai miei piedi
una fresca sorgente,
che l’acqua zampilli.
L’assetato verrà per dissetarsi
e tu, per la mia anima,
per ricordo di me,
sacrifica una pecora nera.

 

 

II
Lunga è la strada

Sprona i cavalli

Fratello, attacca i purosangue al carro,
sprona i cavalli e corri, corri a Pest.
Si sollevi la polvere,
si schiantino le ruote, sprona i cavalli, scappa,
caschi pure la grandine.

 

Lunga è la strada

Partire, dove? Da che parte andare?
Prendo la strada bianca o il bosco nero?
Cercherò ceppi o vado per carbone?
È Otok la mia meta oppure Bandòvo?
Lunga è la strada, lunga è la strada.
Mi ubriacherò di vino, vino nero.

 

Colloquio col cavallo

Ti tengo per la briglia,
ti dico le mie pene,
seduto accanto a te
piango per te.
Pascola, baio, pascola,
presso la grande strada,
perché i tempi non sono
come una volta.

Là dove il baio pascola
crescono i fiori,
là dove pascolò
l’erba è cresciuta.

Ovunque noi passiamo
spuntano i fiori
e i rami si uniscono
per fare ombra.

 

Ho sei puledri

Ho sei puledri, sei
strade battute.
Ne venderò alla fiera
due per mio gusto,
più non cavalcherò
due lunghe strade.
Ne venderò altri due
per seppellir mia moglie,
più povero sarò
per quattro strade in meno.
Mi resteranno ancora
due puledri da vendere
per una moglie nuova.
Ma poi cosa farò
senza cavalli?
Le strade se ne vanno
e io resto!

 

Ladro di cavalli

Ehi, mamma, io sì che sono
uno zingaro vero!
Spingo davanti a me
ben sei cavalli.

Ehi, mamma, io sì che sono
uno zingaro vero!
Dietro di me cammina
un afflitto topino
con il capo abbassato.

 

Il cavallino è stanco

Ho fatto un lungo viaggio, lungo assai,
e acqua non ho dato al mio cavallo.
Ansima stanco il baio sotto la sella.
Lo sprono con la voce, dolce assai,
e lo accarezzo con immenso amore,
ma il cavallino è stanco, troppo stanco.
Abbiamo fatto un viaggio lungo assai.

La schiuma bianca, la criniera fumante,
singhiozza il mio cavallo. Fatti forza,
gli dico, buono buono, ecco la casa.
Il cavallo si volta, poi mi guarda,
ha gli occhi come quelli di mia madre,
quegli occhi buoni hanno tristezza immensa.

Ho fatto un lungo viaggio, lungo assai,
e acqua non ho dato al mio cavallo.
Forza, su, bravo, dietro la collina
c’è una candida tenda e nella tenda
la mia bellezza. E un pozzo profondo.
E la tua avena d’oro. Stringi il morso
fino alle stelle.

Inseguiti dai gendarmi

Mi cercano, mi inseguono
ma non mi trovano.

La donna mia, con i capelli sciolti,
la donna mia, con le lacrime agli occhi,
corre sui campi.

Sono grandi i cavalli
ma le redini corte.
Corri, fratello, corri, sii veloce
e non far rumore.
Non lasciamoci prendere
da quei gendarmi.
Se arrivano i gendarmi
cascheranno le teste.
La mia testa, la tua e della fanciulla nera.

La donna mia, con i capelli sciolti,
corre sui campi.
Per i cavalli piangono
e implorano i Romi.