I cambiamenti ecologico-climatici contribuiscono all’emergere di pandemie ⫸ La diffusione globale del coronavirus ha causato una prolungata crisi sociale, economica e umanitaria, sebbene non sia né la prima né l’ultima pandemia che stiamo affrontando. ● In che misura l’uomo moderno è responsabile delle pandemie di malattie infettive che lo colpiscono? ● Sarebbe un grave errore credere che alcune nuove, ma già identificate, mutazioni genetiche del coronavirus siano le uniche responsabili dell’emergere e del mantenimento dell’attuale pandemia. Allo stesso modo, se non più responsabili delle varianti dei coronavirus sono diffusi i disastri ecologico-climatici, così come lo sfruttamento della natura selvaggia da parte dell’uomo.
Se la sopravvivenza e la salute umana dipendono dall’equilibrio dell’ambiente planetario terrestre, allora hanno ragione i numerosi scienziati che sostengono che i cambiamenti climatici in corso e i disastri ecologici influiscono direttamente e, a volte, in modo catastrofico sulla vita delle persone. Questa diagnosi non rassicurante degli esperti è direttamente correlata all’emergere e al mantenimento della nuova pandemia ed è un chiaro avvertimento per le società sulle prossime pandemie.
Qualcosa che, per la prima volta, è stato esplicitamente affermato da uno studio americano pubblicato due mesi fa su una rivista scientifica di prestigio internazionale (vedi “Nature”). Il relativo articolo scientifico è firmato da un noto gruppo di ricercatori della Georgetown University negli Stati Uniti e afferma che anche un piccolo aumento della temperatura del pianeta faciliterà e probabilmente moltiplicherà i salti di virus tra diverse specie di animali.
Sulla base degli ultimi dati, i ricercatori americani hanno creato un modello per prevedere possibili future epidemie nei mammiferi, il quale indica che anche un piccolo aumento della temperatura combinato con disastri ecologici porterà, da qui al 2070, alla comparsa di una serie di nuovi zoonosi.
Infatti, secondo i modelli predittivi di questa ricerca, nei prossimi cinquant’anni più di tremila specie di animali selvatici saranno costrette a migrare e a modificare il proprio ambiente di vita. Una “scelta” di sopravvivenza obbligatoria, che sarà accompagnata da numerosi e potenzialmente minacciosi salti di specie di centinaia di virus e batteri, da questi animali all’uomo. Del resto, il nuovo coronavirus che causa la malattia Covid-19 è probabilmente nato da un simile salto di specie: un salto biologico che genetisti ed epidemiologi descrivono con il termine inglese “spillover”.
La diffusione di nuovi virus a causa del degrado ecologico
Il fatto assodato che agenti infettivi come i virus, in determinate condizioni climatiche ed ecologiche estreme, tendono ad attraversare più facilmente e più frequentemente i rigidi confini biologici che esistono tra le diverse specie dei loro animali ospiti, ci obbliga a indagare sul presunto “fattori ambientali esogeni”, che non solo facilitano, ma talvolta forzano, queste transizioni di specie. E poiché questa non è né la prima né l’ultima volta che compare questo meccanismo di creazione di nuove malattie infettive, dobbiamo prepararci meglio e più tempestivamente ai prossimi balzi di virus verso la nostra specie.
Perché i coronavirus — come altri virus — nel loro tentativo di riprodursi, “decidono” di compiere un così grande salto evolutivo e genetico, ovvero di passare da alcune specie animali più semplici a quelle più complesse o all’uomo?
Le zoonosi virali si verificano più frequentemente nelle popolazioni animali e meno frequentemente nelle popolazioni umane. Tuttavia, sia negli animali che nell’uomo, le zoonosi possono essere trasmesse direttamente (dopo il contatto con animali infettati da virus o batteri) o indirettamente (dopo il consumo di cibo o acqua contaminati). Le malattie infettive che si trasmettono dagli animali selvatici o domestici all’uomo sono dette “patogeni zooumani”, mentre quelle che si trasmettono dall’uomo agli animali sono dette “atropozoonosi”.
I dati scientifici sulle malattie infettive conosciute che l’umanità ha dovuto affrontare negli ultimi vent’anni sono abbastanza chiari: il 75% di queste infezioni è dovuto alla trasmissione di un microrganismo da alcuni animali selvatici all’uomo, direttamente o tramite altri ospiti intermedi.
In particolare, per le epidemie di zoonosi virali, apparse dall’inizio del secolo scorso fino ad oggi (influenza spagnola, AIDS, EBOLA, ZIKA, SARS, MEARS e SARS-CoV-2), sempre più ricerche le attribuiscono a l’ambiente distruttivo e i comportamenti delle persone, che alla fine sembrano essere responsabili della diffusione epidemica di questi virus. Questi sospetti sono stati a lungo espressi da vari scienziati e, sebbene siano cruciali sia per la previsione che per la risposta precoce a qualsiasi nuova epidemia o crisi pandemica, non sono mai stati presi sul serio dai politici.
La deregolamentazione antropogenica genera nuove crisi pandemiche?
Negli ultimi vent’anni, focolai sempre più frequenti di malattie infettive da nuovi virus hanno messo a dura prova i sistemi sanitari e l’economia globale. Tuttavia, fino ad ora, quando le nuove strategie economiche e sociali planetarie sono state pianificate dai Paesi più potenti, i rischi di nuove crisi epidemiche o addirittura pandemie, che avrebbero ribaltato i loro ambiziosi piani, non sono mai stati presi in considerazione.
Che si tratti di un’omissione molto grave ci ha ricordato, nel modo più doloroso, la presunta inaspettata pandemia di coronavirus. In realtà, però, la nuova pandemia è da considerarsi attesa, visto che solo pochi anni fa l’ha preceduta una serie di altre epidemie virali (EBOLA, SARS, MERS, Zika), che fortunatamente erano localizzate e non si sono trasformate in pandemie. La poca attenzione che mostrano per i cambiamenti ecologico-climatici che portano alla riduzione della biodiversità e al degrado della natura che ci ospita, è una miopia distruttiva che tutti paghiamo.
Oggi è abbondantemente chiaro e scientificamente ben documentato che negli ultimi due secoli la specie umana ha agito, nel suo insieme, come una “forza geologica” o, più precisamente, come un determinante agente planetario, capace di influenzare il presente e futuro della vita sul pianeta “noi”, perché ha la capacità numerica e tecnologica di rimodellare — con criteri esclusivamente egoistici! — l’ambiente terrestre. Questo particolare potere della specie umana è tentato di essere descritto e possibilmente domato dall’idea illuminista di “Epoca geologica anthropocenica”.
L’Anthropocene è un modo scientificamente neutro e apparentemente innocente per descrivere l’ormai visibile catastrofe planetaria – allo stesso tempo ecologica, climatica e biologica – di cui la specie umana è l’unica responsabile. Al giorno d’oggi, quindi, l’adozione di spiegazioni scientifiche anthropoceniche non è solo giustificata ma anche necessaria, poiché si basa su un gran numero di ricerche.
Il modello esplicativo dell’era dell’Antropocene prevede esplicitamente che la massiccia presenza e le attività invasive della specie umana hanno già determinato importanti cambiamenti ecologici in tutto il pianeta: dal drammatico declino della biodiversità e il collasso del sistema climatico, alla recente pandemia di coronavirus, la cui diffusione pandemica è direttamente correlata alla più ampia crisi planetaria anthropocenica.
Particolarmente rivelatore dell’impasse della politica esclusivamente locale, ethnocentrica e quindi non planetaria adottata, fino ad oggi, contro la pandemia di coronavirus, è il caso dei cosiddetti “rifugiati climatici”, popolazioni umane o di altro genere che, a causa del clima shock e grandi disastri ecologici, sono costretti a migrare, portando con sé nuove varianti di un virus sconosciuto o di altri microrganismi dannosi.
Tuttavia, questo approccio si rivela anche incompleto, quando descrive i disastri ambientali o il cambiamento climatico come un problema puramente ecologico e non mette sufficientemente in evidenza il fatto che c’è qualcosa di profondamente irrazionale e di evidentemente autodistruttivo nelle odierne politiche neoliberiste di carattere economico-sociale permanente, e quindi la deregolamentazione ecologica, che porta direttamente e inevitabilmente alla globalizzazione delle singole crisi locali derivanti dalla sciatteria dei mercati e da una concorrenza “transnazionale” volutamente mantenuta.