A quel che ci raccontano le convulsioni delle forze politiche e il circo mediatico che le segue passo dopo passo, il mondo intero è in preda all’ansia. L’ennesima farsesca crisi balneare minaccia di sottrarre all’Italia il solo timoniere capace di guidare la fragile barca tra i flutti tempestosi delle mille tempeste emergenziali del nostro tempo. Come abbiamo potuto consentire che si mettesse in discussione – peggio, che lo si irritasse con sleali diatribe infantili – l’Insostituibile, l’uomo che – ad averne due identici – siederebbe senza discussione al Quirinale e a Palazzo Chigi? Peccato che, in attesa che Mario Draghi decida del suo (e del nostro destino), nessuno pare accorgersi che intorno a quella fragile imbarcazione l’acqua è scomparsa. Così come il Po e i raccolti. La crisi climatica e ambientale, che Draghi e molti altri considerano nei fatti solo un fastidio, è arrivata e solo dei pazzi irresponsabili possono evitare di trarne le conseguenze dovute: ammesso che si faccia in tempo, bisogna cambiare davvero tutto. E subito. A dirlo stavolta siamo noi: “TINA”, non c’è alternativa.
Da “E’ un dittatore, ma ci serve” a “Ci serve perché è un dittatore” il passo è breve; e lo ha fatto. Il prossimo sarà: “Ci serve un dittatore”. Ci stiamo lavorando. Ci lavorano, insieme alla Nato, tutti i partiti impegnati, dalla maggioranza e dall’opposizione, a sostenere Draghi, “l’insostituibile”. Ci lavorano tutti i media. “Sorge il sole, canta il gallo e Mario Draghi monta a cavallo” è ormai il contenuto di fondo di quasi tutti gli articoli di quasi tutti i giornali e di quasi tutti i servizi di quasi tutti i notiziari TV (la peggiore piaggeria offerta, a suo tempo, a Mussolini).
Che a “risolvere” i problemi dell’Italia venisse chiamato l’uomo che, per rimborsare le banche francesi e tedesche che avevano prestato troppo alla Grecia, si era reso (indirettamente) responsabile della morte di decine di migliaia di esseri umani, condannati a fame, freddo, mancanza di cure e di medicine, disperazione, ha lasciato esterrefatti milioni di italiani che pensavano di aver finalmente capito come funziona il mondo della finanza; ma non i partiti che lo hanno chiamato in servizio esautorando se stessi e il Parlamento.
Il Po è quasi scomparso, i raccolti anche, la Marmolada si è sciolta, la temperatura ha già raggiunto i 40 °C; le morti sul lavoro si susseguono, l’inflazione galoppa, l’occupazione è sempre più precaria (ma si riprenderà con la produzione di armi: benservito chi sosteneva che dare armi all’Ucraina non avrebbe aperto la strada all’aumento della spesa bellica e della bellicosità della Nato); l’ingresso di nucleare e gas nella tassonomia delle fonti energetiche verdi detta i tempi della non-transizione: 10-15 anni almeno (sicurezza a parte) per avere una centrale nucleare in funzione ed energia a costi multipli di quelli delle rinnovabili; non meno di 5 per nuovi gasdotti o nuove metaniere (posto che qualche competitor non si appropri prima dei giacimenti con cui si pensa di sostituire il gas russo): tempi più che sufficienti a installare tutti gli impianti di rinnovabili necessari a soddisfare un fabbisogno nazionale che dovrà comunque essere ridotto. Con il deus ex machina che va a umiliarsi (in difesa dei valori occidentali?) da Erdogan non meno di quanto aveva fatto Berlusconi con Gheddafi. Ma una cosa è chiara: la crisi climatica e ambientale Draghi non sa che cosa sia, non se ne è mai occupato, la considera solo un fastidio. E i suoi accoliti pure.
Invece va messa al centro dell’attenzione, dell’elaborazione, a qualsiasi livello, di ogni programma, di ogni possibile alleanza, del nostro agire quotidiano. Il tempo sta scadendo. Tutto “il resto” – lavoro, reddito, casa, salute, istruzione, sicurezza, ma anche famiglia, amicizie, solidarietà, cultura, felicità – non “viene dopo”, ma deve trovare il suo posto “dentro” a una reazione generale alla crisi climatica e ambientale. O non troverà ascolto.
Il clima e l’ambiente non sono “opportunità” per creare nuovo lavoro. Sono temi ineludibili entro cui è possibile e necessario attivare nuovi impieghi, possibilmente meno gravosi e di maggior soddisfazione di quelli attuali; e solo quanti bastano a una radicale conversione ecologica. Ma per ciascuno dei “nuovi lavori” creati dalla conversione ecologica ce ne sono almeno altrettanti da sopprimere perché fanno danno: sono produzioni nocive che producono cose nocive (cioè mali) che non hanno più ragione di esistere. Ma chi decide che cosa è buono e che cosa no? Non possono essere che gli interessati, nelle forme e nelle sedi di confronto più varie, tutte da definire. Questa è la vera sfida. Ma va garantita a tutti, a chi può perdere il posto e a chi ne va a occupare uno nuovo, parità di condizioni: di reddito (garantito), ma anche di impegno, attraverso una redistribuzione dei carichi del lavoro “buono”. Utopia? Sì. Finalmente! Perché i posti di lavoro, soprattutto quelli buoni – ospedali, sanità, scuola, rinnovabili, ecc. – si stanno già perdendo e si perderanno sempre di più, mentre quelli cattivi – basta pensare all’industria delle armi, degli yackt, o dell’automobile – si farà di tutto per tenerli in vita.
Non c’è da farsi illusioni sull’obiettivo del +1,5°C: non verrà raggiunto. I contributi alla riduzione delle emissioni globali dell’Italia (che ne produce 1%) o dell’UE (10%), quand’anche ci fossero – e non ci sono – sarebbero irrisori. Né c’è da aspettarsi scelte migliori dagli altri player globali. Perciò vanno messi in campo subito programmi di adattamento alle condizioni sempre più ostiche in cui ci verremo a trovare e già ci troviamo. Occorre mettere ogni territorio in grado di affrontare la crisi nella massima autosufficienza possibile: energetica, agro-alimentare, produttiva. Occorre de-globalizzare: non la circolazione dell’informazione, delle idee e delle persone, ma quella delle merci. Questa è la sfida su cui si devono confrontare i programmi: coinvolgendo lavoratori, lavoratrici e tutte le persone sulle cui gambe dovrà marciare la conversione ecologica. A dirlo ora siamo noi: “TINA”, non c’è alternativa.