La notevole ricostruzione delle teorie politiche ordoliberali operata da Adelino Zanini svela nelle conclusioni il proprio asse interpretativo. Qui si rendono evidenti almeno due cose. La prima: è stato a partire dai Corsi tenuti da Michel Foucault al Collège de France che è ripreso, anche per Zanini, il quale trova l’interpretazione di Bilger e Foucault del tutto perspicua, l’interesse per la teoria politica ordoliberale. La seconda: che è necessario decostruire le modalità attraverso le quali nel dibattito si è fissata l’immagine di un neoliberalismo compatto, del tutto innovativo e che, tra teoria e prassi, sbalza come un monolite. Anche nell’Europa a trazione tedesca, il progetto neoliberale non soltanto si impone storicamente tra molte resistenze, ma si impasta di «residualità costitutive» con le quali si trova costretto a mediare. Di qui l’impossibilità dell’inveramento della sua cristallina progettualità teorica e l’«ineludibile ibridazione» che ne caratterizza l’impianto a livello europeo.
Ciò che di autenticamente nuovo c’era nella dottrina ordoliberale – non i principi economici astratti, quanto piuttosto la sua formulazione giuridica e il suo necessario riferimento allo Stato nazionale – ha sedimentato pratiche, istituzioni, apparati tecnico-governamentali che sono, questi sì, ciò che deve essere posto al centro dell’attenzione come il binario di scorrimento del dispositivo di integrazione europea. È perciò su quella che Zanini chiama la «surroga giuridica» che permette l’implementazione dei principi neoclassici che insistono nell’ordoliberalismo tedesco (da Eucken a Miksch, da Röpke a Müller-Armack, in particolare) che si concentra il libro.
Detto altrimenti, l’ordoliberalismo, inteso tanto come teoria, quanto come pratica, opera all’incrocio tra ciò che viene assunto come un sistema di «invarianti» – lo Stato di diritto come quadro istituzionale irrinunciabile negli equilibri postbellici e la funzione parametrica dei prezzi con la loro formazione all’interno del libero mercato, funzione quest’ultima che Zanini riconosce assumere qui un’autentica «valenza costituzionale» – e ciò che invece viene assunto come una variabile fondamentale e, in particolare, la realizzazione di condizioni di «concorrenza piena» (vollständige Konkurrenz) differenti da quella «perfetta concorrenza» sul terreno della quale, autentico spettro da esorcizzare per gli ordoliberali, possono prodursi distorcenti aggregazioni oligopolistiche di interesse.
È come filtro organizzativo e come perno indispensabile per la riproduzione della «concorrenza piena» che il diritto viene a svolgere un ruolo fondamentale. Ed è nella valorizzazione della funzione di governo in cui viene installandosi la decisione politica per la salvaguardia degli stessi principi neoclassici dell’economia liberale, che si produce la grande innovazione teorica promossa dai teorici ordoliberali. Ciò che va regolato è il non regolabile per definizione, il meccanismo di formazione dei prezzi; e questo va fatto governando non il gioco, ma predisponendo e conservando, anche attraverso interventi di arbitrato, del gioco, le regole. Come del resto aveva posto per primo in evidenza Foucault è l’«ambiente» di svolgimento della partita descritto dal fitto e non smantellabile intreccio di processi economici, diritto e politica, ciò che l’ordoliberalismo assume come oggetto per un’azione di governo che non può essere che indiretta. L’obiettivo che ci si propone è quello di mirare a una tendenziale sovrascrittura istituzionale di un ordine di rapporti che, almeno dal punto di vista dei principi, viene assunto come «naturale»; ma che se abbandonato al proprio meccanismo naturale, avrebbe potuto sviluppare insanabili contraddizioni. L’«ordine concorrenziale», perciò, come «pura soluzione giuridica»: è questa la posizione per molti versi condivisa da Böhm, da Eucken e da Miksch.
Si tratta di un punto decisivo. L’ordine naturale del mercato – nonostante l’evocazione dei riferimenti neoclassici – non è per gli ordoliberali la premessa dalla quale partire, ma il predicato al quale giungere, scrive Zanini. L’ordo è un risultato. Il risultato del lavoro di organizzazione che il diritto si incarica di svolgere irretendo l’azione sociale in un sistema di rapporti a quel risultato orientato. Il principio economico funziona solo grazie alla mediazione della formulazione giuridica che lo traduce e che lo sviluppa. Di qui l’accento su quella che si presenta come un’autentica «costituzione economica». La libertà di impresa, proprio per questa intesa come risultato di una «liberazione di forze» – «Kräftebefreiung» è il termine immediatamente messo al lavoro da Böhm – non discende come corollario da una prestabilita armonia degli interessi o delle posizioni, ma è correlata all’autogoverno delle organizzazioni di mercato, la prevedibilità e sicurezza della cui azione, pertanto, così come la massimizzazione del loro risultato a favore della generalità del processo, dipende da come il sistema delle regole la evoca e la sostiene. Lo sviluppo economico inteso come processo vitale organico che si demoltiplica nella tramatura sociale delle differenti imprese – è Rustow, come noto, a parlare di «Vitalpolitik» suggerendo il conio foucaultiano – rappresenta in questo modo il legislatore complessivo che orienta la creatività giuridica ai fini della conservazione del proprio svolgimento.
Ma non solo. Questa demoltiplicazione della forma-impresa, il cui correlato politico è l’adozione del principio di sussidiarietà, sviluppa un principio di demassificazione («Entmassung»: di nuovo Rustow) che smobilita l’intervento socialdemocratico e che sviluppa un’esplicita politica conservatrice. Centro del principio di sussidiarietà è la famiglia intesa come «Lebensgemeinschaft». La griglia antropologico-politica sulla quale l’ordoliberalismo tesse la propria idea di mercato è fatta di misura e di differenziazione sociale. Il cuore nero di questa retorica è il razzismo con il quale Röpke sostiene al principio degli anni ’60 l’indipendenza della Rhodesia segregazionista, si potrebbe ricordare. La famiglia come impresa è l’istituzione «naturale» in grado di contrastare l’insicurezza che deriva dalla distruzione moderna dell’inclusione comunitaria ed è l’istituzione pedagogica che ancora negli anni ’50 del Novecento viene caricata di un ruolo chiave rispetto all’integrazione sociale. Una società di ceto medio fondata su famiglia e radicamento territoriale (Ortfestigkeit), sulla responsabilità genitoriale e sul risparmio, sulla stabilità della divisione sessuale del lavoro e sulla funzione anticiclica che la famiglia, in quanto impresa naturale, è in grado di assolvere, è l’oggetto di una «politica attiva e permanente» rispettosa di una conformazione sociale necessariamente gerarchica.
L’economia sociale di mercato che gli ordoliberali sostengono è un insieme di strumenti di stabilizzazione consapevolmente progettati da un’immaginazione sociologica fortemente conservatrice (e molto tedesca). Zanini ha buon gioco, perciò, a sottolineare la «circolarità normativa» che sottende l’intero progetto: le forze di mercato vengono assunte come fondamento imprescindibile dell’agire sociale, ma devono nel contempo essere soggette all’«ordine» (anche soltanto concettuale, categoriale o giuridico che lo fissa come «ordine di mercato») capace di indirizzarle.
Notevoli, nel libro, sono la capacità e la pazienza dell’autore nel ricostruire su di un arco temporale molto ampio la vicenda teorica e politica dell’ordoliberalismo tedesco. Tra i suoi meriti, oltre al mettere a disposizione dei lettori e delle lettrici una massa di fonti, documenti e riferimenti che diventeranno imprescindibili per chi si voglia a sua volta addentrare nella storia economica e giuridica europea dell’ultimo secolo, l’acribia nel disaggregare l’oggetto «ordoliberalismo» nelle molte posizioni e nei molti autori che lo hanno composto.
Fonte: Scienza&Politica, 13-07-2022