Come chiamereste un soggetto che pratica da oltre settant’anni violazioni dei diritti umani e del corpus di norme scritte nei trattati internazionali? Le opzioni, come gli aggettivi, possono essere varie ma nessuna di esse potrebbe discostarsi molto dal concetto di criminalità seriale o, meglio, sistematica. L’applicazione delle regole giuridiche è un principio cardine degli ordinamenti liberali. Eppure, tutti gli Stati – e le coalizioni politiche ed economiche di Stati – che a quegli ordinamenti si ispirano senza alcuna esitazione, fanno eccezione nel caso dell’apartheid israeliano nei confronti di un intero popolo. Per chi non crede alla volubilità del destino, ci sono rilevanti cause storiche, geopolitiche e commerciali a spiegare le ragioni di tanta impunità. Quel che, per molti versi e alla luce dei decenni trascorsi, risulta davvero difficile da spiegare è dove abbia trovato la forza per non arrendersi quel popolo perseguitato, umiliato e ucciso ogni giorno.
Nei primi giorni di luglio l’Alta Corte di Israele ha emesso una sentenza di ampia immunità per lo stato riguardo ai crimini di guerra compiuti a Gaza. Adalah e Al Mezan, associazioni palestinesi per i diritti umani – a sostegno della richiesta di risarcimento di Attiya Nabaheen, che aveva 15 anni quando fu colpito dal fuoco dei soldati israeliani, nel cortile davanti a casa sua mentre rientrava da scuola a Gaza nel novembre 2014, rimanendo paralizzato – avevano contestato una legge del 2012, secondo la quale gli abitanti della Striscia di Gaza non possano ricevere risarcimenti da parte di Israele, in quanto dal 2007 è stata dichiarata “territorio nemico”.[1] Colpire i civili è un crimine di guerra, secondo il diritto internazionale: ma per Israele e i suoi alti magistrati, non conta niente.
Il 26 maggio scorso CNN e Associated Press hanno scritto, nei loro due rapporti, che la giornalista palestinese di Al-Jazeera Shireen Abu Aqleh è stata uccisa a Jenin, nei Territori palestinesi occupati, da militari israeliani. Il 24 giugno, la Commissione d’inchiesta dell’ONU ha stabilito che la giornalista è stata uccisa da militari israeliani. I testimoni palestinesi, giornalisti e non, l’avevano detto subito. L’attuale capo di stato maggiore delle forze armate israeliane, il tenente generale Aviv Kohavi, aveva invece dichiarato: «Nessun soldato dell’IDF ha deliberatamente sparato a un giornalista. Abbiamo condotto un’indagine. Questa è la conclusione e non ce ne sono altre».
Non è il primo (e purtroppo non sarà l’ultimo) assassinio di giornalisti palestinesi compiuto da soldati dello stato ebraico. Omicidi sempre rimasti impuniti. L’ONU ha dimostrato che si tratta dell’ennesima menzogna, ma Israele non patirà alcuna conseguenza negativa nemmeno stavolta.
Neanche quando si tratta di giornalisti stranieri, come nel caso di Raffaele Ciriello, cittadino italiano. Aveva 42 anni, quando fu ucciso il 13 marzo 2002 a Ramallah, in Palestina, da sei colpi partiti da un carro armato israeliano. Stava documentando un rastrellamento dei soldati dello stato ebraico. La magistratura italiana chiese al governo di Tel Aviv i nomi dei militari del carro armato, ma ricevette un netto rifiuto – nonostante il trattato di collaborazione giudiziaria tra i due stati – e archiviò subito il caso. A posto così.
Persino quando si tratta di cittadini degli Stati Uniti d’America, potenti e fedelissimi alleati. Non aveva ancora 24 anni Rachel Corrie, attivista dell’International Solidarity Movement (ISM), assassinata il 16 marzo 2003, schiacciata da un gigantesca ruspa perché si interponeva, solo con il suo corpo, davanti alla casa di un medico palestinese nella Striscia di Gaza, che doveva essere demolita. Il giudice israeliano del tribunale di Haifa, Oded Gershon, stabilì che la versione ufficiale era corretta: «Il conducente del bulldozer non vide la giovane donna». E che la sua morte fu «il risultato di un incidente che lei stessa aveva attirato su di sé». Perciò, nessun risarcimento alla famiglia della ragazza.[2] Dal governo di Washington, nemmeno una flebile critica.
Dunque, Israele non si accontenta dell’impunità: proclama sempre e comunque la sua innocenza, autoassolvendosi da qualunque accusa.
Non c’è da stupirsi che, dalla fondazione dello stato di Israele nel 1948, le molte migliaia di palestinesi uccisi – per non parlare del numero assai superiore di feriti e imprigionati – non abbiano mai avuto giustizia. Israele detiene il poco onorevole primato mondiale di violazioni delle risoluzioni delle Nazioni Unite; non rispetta vari articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani[3], ad esempio uccidendo ricercati (anche solo sospettati) durante azioni militari dentro città e villaggi palestinesi, o utilizzando la detenzione amministrativa per incarcerare palestinesi a tempo indeterminato, senza nemmeno formulare l’accusa e violando il diritto alla difesa; conduce ripetutamente azioni di guerra – anche invadendo e bombardando altri stati, come il Libano nel 1982[4] e nel 2006, in nome della propria “sicurezza” e per combattere “il terrorismo”.
Mentre dure sanzioni, enormi invii di armi, importanti decisioni politiche ed economiche sono state immediatamente prese e continuano ad essere prese dai democratici paesi occidentali contro la Russia, che ha invaso militarmente l’Ucraina, nulla di simile accade nei confronti di Israele, nonostante un’occupazione militare che dura da oltre mezzo secolo: anzi, se i palestinesi – che non hanno tra l’altro nemmeno uno straccio di esercito – tentano di resistere e di reagire, sono bollati come “terroristi”. Questo giustificazionismo a priori prosegue senza tentennamenti. Così Israele può letteralmente fare qualunque cosa, certo della “comprensione” – nonostante saltuarie e innocue parole di critica – e dell’aiuto come dell’impunità che i suoi alleati gli garantiscono.
I governanti occidentali amano ripetere che «Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente». Ma è davvero tale? Si può chiamare democratico uno stato ultramilitarista, che predilige la guerra come soluzione alle “minacce esistenziali” di cui ha proclamato ripetutamente di essere bersaglio? In cui le forze armate e i servizi di sicurezza dettano l’agenda politica interna ed estera e quasi sempre hanno loro uomini a capo del governo? In cui gli effettivi delle forze armate – compresi i riservisti, rapidamente mobilitabili – sono 615.000[5], su una popolazione ebraica che non raggiunge i 7 milioni? (In proporzione, è come se in Italia ci fossero circa 5.500.000 persone in armi). Si può definire democratico uno stato che pratica l’apartheid[6] ai danni della popolazione palestinese che abita la terra tra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo, sottoposta a una implacabile pulizia etnica[7] fin dal 1948 – e in realtà anche prima? Uno stato che espande incessantemente le sue colonie sulle terre abitate da secoli dai palestinesi? Che ha distrutto migliaia di case palestinesi – interi villaggi rasi al suolo – e continua a cacciare i palestinesi dalla loro terra? Che mantiene illegalmente l’occupazione militare dei Territori palestinesi da 55 anni?[8] Che ha imprigionato centinaia di migliaia di palestinesi, bambini compresi?[9] Che impedisce con la forza da 74 anni il ritorno dei profughi palestinesi e dei loro discendenti nella loro terra?[10] Il cui parlamento ha approvato nel 2018 una Legge Fondamentale, cioè di valenza costituzionale, che definisce «Israele quale Stato nazionale del popolo ebraico» e afferma che «Israele è il luogo dove si realizza l’autodeterminazione degli ebrei e degli ebrei soltanto», discriminando quindi tutta la sua popolazione non ebrea, in primis i palestinesi?
Questa legge è stata confermata nel luglio 2021 dalla Corte Suprema d’Israele, respingendo un ricorso che ne chiedeva la cancellazione perché discriminatoria[11]. Quindi non ci sono più dubbi: Israele dichiara di essere uno stato razzista. Sì, anche se questa parola potrebbe suonare oscena ai più, trattandosi dello stato in cui vivono molti discendenti dei sopravvissuti alla Shoah, il genocidio compiuto dai nazisti, cittadini della “civile” Europa. Forse era una deriva inevitabile, essendo il sionismo l’ideologia guida di Israele, prima e dopo la sua fondazione e fino a oggi, qualunque governo fosse al potere. Un’ideologia che promuove il colonialismo ebraico e afferma la supremazia ebraica[12]; dopo tutto, ereditata da una religione secondo la quale dio [il minuscolo non è un refuso: N.d.A.] decise che gli ebrei, e solo loro, erano il “popolo eletto”.
Incontestabile, invece, è il fatto che Israele sia l’unica potenza nucleare del Medio Oriente[13]. Che colpisce militarmente – l’Irak nel 1981 e la Siria nel 2007 – qualunque stato di cui sospetti soltanto che voglia dotarsi di un’arma nucleare. Ha inoltre dichiarato apertamente, da anni, di voler bombardare e distruggere centrali nucleari che producono energia elettrica in Iran, perché ritiene (non ha bisogno di prove…) che possano servire anche a produrre armi atomiche: sta solo aspettando il momento più favorevole.
L’arsenale israeliano conta almeno 90 testate operative[14], che possono essere lanciate da terra, dal cielo e dal mare; ma forse anche il doppio o il triplo, secondo altre stime. Israele mantiene un segreto assoluto in proposito. A rivelare all’opinione pubblica internazionale nel 1986 l’esistenza di queste terribili armi fu proprio un ingegnere israeliano che lavorava nei laboratori di Dimona, nel deserto del Negev: Mordechai Vanunu. Fuggito in Europa, venne rapito a Roma da agenti dei servizi segreti di Tel Aviv – nonostante il reato penale commesso nel territorio italiano, il giudice Domenico Sica stabilì che si era trattato di un finto sequestro – riportato in Israele, processato, condannato a 18 anni di carcere, riarrestato due volte dopo aver scontato la pena e sottoposto tuttora a forti limitazioni della libertà.
I palestinesi non si aspettano che i governi occidentali cambino a breve la loro politica di sostegno incondizionato a Israele. Ma in ogni caso, continuano a resistere all’oppressore. Hanno anche creato uno strumento, che sta diventando sempre più importante con il passare degli anni: il movimento non violento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) contro la colonizzazione, l’apartheid e l’occupazione militare israeliane, per uguali diritti di palestinesi e israeliani. Fondato nel 2005 e ormai diffuso e radicato in molti paesi del mondo, compresa l’Italia. Il governo israeliano lo considera una «grave minaccia», lo combatte in vari modi e cerca di convincere i paesi suoi alleati a metterlo fuori legge accusandolo di antisemitismo. Chiunque critichi Israele deve aspettarsi di ricevere questa accusa infamante. Sempre più spesso lanciata senza entrare nel merito delle critiche, difficili da contestare.
Ma il BDS si è costituito sulla base del rifiuto di qualunque forma di razzismo – compreso l’antisemitismo – fascismo, sessismo, islamofobia, discriminazione etnica e religiosa. La sua forza sta in questi princìpi, nella determinazione dei palestinesi e di quanti sono solidali con la loro lotta per la libertà e l’uguaglianza. Il colonialismo e l’apartheid sono stati sconfitti dalla Storia: accadrà anche a Israele.
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Note
[1]. Maureen Clare Murphy, “La corte israeliana sentenzia a favore di un’ampia impunità”, https://zeitun.info/2022/07/16/la-corte-israeliana-sentenzia-a-favore-di-unampia-impunita/
[2]. “Israele: «Fu la pacifista a cercare la morte». Tel Aviv chiude così il caso di Rachel Corrie”, Corriere della Sera, 28.08.2012.
[3]. Approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il 10 dicembre 1948.
[4]. Si stima che circa 17.000 arabi siano stati uccisi durante la guerra. Il quotidiano di Beirut, al-Nahār (Il giorno), ha calcolato che 5.515 persone – militari e civili – fossero state uccise solo nell’area di Beirut durante il conflitto, e che 9.797 combattenti (OLP, siriani e altri) e 2.513 civili fossero stati ammazzati fuori dell’area di Beirut.
[5]. BDS Italia, Embargo militare contro Israele, con la collaborazione di Peacelink e Collettivo A Foras, 2020, p. 7.
[6]. L’apartheid è una violazione del diritto internazionale, una grave violazione dei diritti umani e un crimine contro l’umanità. Dopo che per anni i palestinesi l’avevano denunciato, le associazioni per i diritti umani B’Tselem, israeliana (2021), Human Right Watch (2021), Amnesty International (2022) e l’ONU (Michael Lynk, Relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei Territori palestinesi occupati, 2022), hanno confermato che Israele pratica e implementa continuamente l’apartheid – peggiore di quello che aveva instaurato il Sudafrica contro la sua popolazione nera – contro i palestinesi.
[7]. Ilan Pappè, La pulizia etnica della Palestina, Fazi, 2008. [N.B.: l’autore è uno storico israeliano]
[8]. La Risoluzione 242 adottata all’unanimità dall’Assemblea generale dell’ONU il 22 novembre 1967, dopo la fine della terza guerra arabo-israeliana, stabiliva due principi fondamentali: «terra in cambio di pace», ossia ritiro di Israele dai Territori occupati in cambio del riconoscimento da parte degli Stati arabi; «giusta soluzione del problema dei profughi», interpretabile come diritto al ritorno dei profughi palestinesi o come compensazione politica ed economica.
[9]. «Dal 1967, le autorità israeliane hanno arrestato oltre 800.000 uomini, donne e bambini palestinesi in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est e la Striscia di Gaza, portando molti di loro davanti a tribunali militari che sistematicamente non rispettano gli standard internazionali di equo processo e dove la stragrande maggioranza dei casi si conclude con la condanna» (Amnesty International, L’Apartheid di Israele contro la popolazione palestinese: un crudele sistema di dominazione e un crimine contro l’umanità, febbraio 2022)
[10]. La Risoluzione 194 approvata dall’Assemblea generale dell’ONU l’11 dicembre 1948, obbligava il governo israeliano a permettere ai profughi palestinesi di tornare alle proprie case e a pagare indennizzi a quanti decidessero di non tornare.
[11]. ANSAmed, “Corte Suprema conferma, «Israele stato-nazione degli ebrei»”, 09.07.2021.
[12]. B’Tselem, Il sistema della supremazia ebraica dal Giordano al Mediterraneo: questo è apartheid, 2021, https://www.btselem.org/sites/default/files/publications/202101_this_is_apartheid_it.pdf
[13]. Mentre la quasi totalità (190) degli stati del mondo sono firmatari del Trattato di Non Proliferazione Nucleare, solo 5 non aderiscono: India, Pakistan, Israele, Corea del Nord e Sud Sudan. Tranne quest’ultimo, gli altri possiedono bombe atomiche.
[14]. SIPRI, Yearbook 2021. Armaments, Disarmament and International Security, Stockholm, 2021