L’incubo che nasce a Hiroshima

Sono trascorsi settantasette anni e l’abisso in cui la ricerca sfrenata della superiorità militare ha spinto l’umanità è più spalancato che mai. Una simulazione condotta dall’Università di Princeton, stato del New Jersey, stima in oltre 90 milioni di persone le potenziali vittime di uno scontro nucleare tra Russia e Stati Uniti nelle prime ore del conflitto. Sono naturalmente esclusi gli incalcolabili effetti secondari. Sembra impossibile ma ci siamo abituati tutti a considerare normale, e soprattutto in modo astratto, il ciglio del baratro su cui danzano le potenze del pianeta. Bruna Bianchi ripercorre il letale (quanto poco noto) tunnel del terrore imboccato il 6 agosto del 1945 attraverso la straordinaria storia di Rosalie Bertell, epidemiologa, suora, femminista e ambientalista statunitense scomparsa dieci anni fa. Una donna che ha dedicato l’intera vita a studiare e denunciare i legami tra la ricerca scientifica e il complesso militare industriale con i suoi piani bellici di distruzione degli ecosistemi. “Oggi desidero esporre pubblicamente il processo di brutalizzazione che si sta svolgendo in preparazione della III guerra mondiale”, disse la Bertell il 18 febbraio 1983 al tribunale di Norimberga – che riprendeva il discorso dalle promesse tradite pronunciate in quella stessa città nel 1945-1946. Quel processo di brutalizzazione deriva dal principio della sovranità nazionale, un principio primitivo, fondato sul diritto dello Stato di sacrificare la vita dei propri cittadini e di quelli degli altri paesi in nome della sicurezza nazionale. Un principio che, con le armi atomiche, è arrivato da tempo alle sue estreme conseguenze: l’annientamento della vita.

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Più mi avvicino alla morte e più mi convinco che l’esercito è la causa di tutti i mali e della corruzione di questo mondo, (Lev Tolstoj, 1901).

La militarizzazione è un cancro che affligge l’umanità e che ci ucciderà tutti e tutte se non sarà distrutta, (Rosalie Bertell, 1983).

Da quando, poco dopo l’invasione dell’Ucraina, Wladimir Putin ha lanciato la minaccia di usare le armi atomiche, alcuni cosiddetti “esperti” e giornalisti hanno cercato di normalizzare l’idea di un attacco nucleare. Lo ha ricordato Ray Acheson, responsabile del progetto di disarmo della Women’s International League for Peace and Freedom, il 19 aprile in Don’t Normalise Nuclear Weapons and War – Abolish Them[1].

La guerra in Ucraina e la banalizzazione del nucleare

Con un linguaggio tecnico-strategico gli scritti di questi “esperti” occultano le conseguenze fisiche, morali, emotive della guerra nucleare e i danni irreparabili alla natura. Ne è un esempio l’articolo apparso il 21 marzo sul “New York Times”, in cui l’autore, riferendosi alle armi che la Russia potrebbe utilizzare, le definisce “bombe più piccole”, “forse meno spaventose e maggiormente pensabili”, armi tattiche dalla forza esplosiva variabile e controllabile in base alle “necessità militari”[2].

In termini di forza distruttiva, precisa Acheson, non c’è niente di “piccolo” in alcuna delle armi nucleari. Le armi “tattiche” russe hanno una potenza da 10 a 100 chilotoni; quelle che hanno colpito Hiroshima e Nagasaki avevano rispettivamente una potenza di 15 e 22 chilotoni. Una simulazione condotta dagli studiosi dell’Università di Princeton ha valutato in oltre 90 milioni le vittime di uno scontro nucleare tra Russia e Stati Uniti nelle prime ore del conflitto, senza contare gli effetti di una carestia che interverrebbe a causa della devastazione della terra[3]. Questo l’abisso a cui ha condotto la ricerca della superiorità militare.

Fino a che esisteranno, le armi nucleari potranno essere fatte detonare e sono sempre state usate per minacciare e terrorizzare. Dal bombardamento di Hiroshima e Nagasaki la popolazione civile è stata continuamente tenuta in scacco dalla minaccia dell’annientamento, mentre l’espansione aggressiva della tecnologia nucleare ha diffuso in tutto il pianeta l’avvelenamento radioattivo.

Rosalie Bertell: ricerca scientifica e attivismo antinucleare

Opporsi alla normalizzazione di queste tecnologie, rendere visibili e lenire le sofferenze delle vittime, svelare i piani militari distruttivi degli ecosistemi è stato l’impegno della vita di Rosalie Bertell (1929-2012), epidemiologa, attivista ambientale, esperta internazionale delle radiazioni, direttrice dal 1987 al 2004 l’International Institute of Concern for Public Health nonché suora delle Grey Nouns of the Sacred Heart[4]. Insignita di numerosi premi a livello internazionale, tra cui il Right Livelihood Award nel 1986, Rosalie Bertell ha fatto parte di quel piccolo gruppo di scienziati e scienziate che dagli anni Settanta si opposero alla diffusione della tecnologia nucleare, denunciarono i legami tra la ricerca scientifica e il complesso militare industriale, persero i fondi per le loro ricerche e furono screditati a causa del loro attivismo.

Dal 1969 al 1978 Rosalie Bertell lavorò presso il Roswell Park Cancer Institute ad un progetto che raccolse la storia clinica di 16 milioni di persone di tre stati (New York, Mariland e Minnesota) analizzando il rapporto tra il livello di radiazioni e la diffusione della leucemia e del cancro, un progetto a cui in seguito la Nuclear Regulatory Commission negò i fondi per continuare le ricerche.

Nel 1973, quando ancora le sue ricerche non avevano affrontato la questione nucleare, il Comitato antinucleare dei cittadini della regione del Niagara la invitò a testimoniare come esperta alla seduta pubblica che avrebbe dovuto dare un parere sulla costruzione di una centrale nucleare. Per la prima volta Bertell si rese conto di come venissero negati i rischi delle radiazioni da parte dei rappresentanti dell’industria. Grazie al suo intervento, l’autorizzazione non fu concessa e lei fu sommersa dagli inviti da parte di varie comunità degli Stati Uniti.

“Verresti da noi a parlarci dell’energia nucleare?”. Improvvisamente, mi trovai nella condizione in cui sentivo che dovevo capire quali erano le dichiarazioni dell’industria, quale fosse il livello di radiazioni che colpiva la popolazione, da dove provenivano le regolamentazioni sulle radiazioni, quali dati scientifici erano alla base di queste regole, e così via[5].

Ben presto scoprì che quelle regole erano basate su “ipotesi plausibili” e non su accurate ricerche scientifiche. Ogni volta che tentava di individuare una connessione tra i bassi livelli di radiazioni con la bomba atomica, si trovava di fronte al segreto militare. “Nel 1945, poco dopo il bombardamento [di Hiroshima e Nagasaki] gli americani istituirono una Commissione (Atomic Bomb Casualty Commission) in entrambe le città e il governo mantenne il controllo totale delle informazioni sulle conseguenze delle radiazioni”[6].

Abolire la segretezza, far valere il diritto fondamentale all’informazione, svelare “gli empi segreti” militari e mutare radicalmente il processo decisionale erano, a suo parere, le premesse fondamentali per avviare il processo di pace. Ricerca scientifica e attivismo le apparvero sempre più chiaramente come inseparabili. Nel 1975 trascorse un periodo di riflessione e di preghiera in un convento delle Carmelitane nel Vermont.

“Durante il ritiro persi qualsiasi resistenza interna a diventare un’attivista. Dovevo sentirmi abbastanza libera di dedicarmi interamente a questo lavoro, di non preoccuparmi del denaro o dello status o di ciò che pensava la gente, o di cosa una suora dovesse fare o di cosa pensasse il vescovo. Dovevo sentire la sofferenza della terra e comprendere nel profondo che non doveva soffrire[7].

Abbandonata la carriera scientifica nelle istituzioni pubbliche, Bertell si impegnò per la ricerca indipendente sugli effetti dell’esposizione a bassi livelli di radiazioni e sfidò i calcoli basati sul rapporto rischi/benefici. Nel 1978 fondò il Ministry for PublicHealth, una organizzazione senza scopi di lucro impegnata in ricerche a livello locale con le comunità, testimoniò come esperta nei processi per danni alla salute causati dalle radiazioni e, sostenuta da una rete di suore cattoliche, andò in aiuto alle vittime.

Dal 1980 il suo maggiore impegno fu rivolto al sostegno dell’attivismo antinucleare dei popoli indigeni di tutto il mondo aiutando le comunità a comprendere la relazione tra la salute e l’esposizione alle radiazioni. Le questioni relative alla salute, era convinta, andavano affrontate dal punto di vista delle comunità colpite, promuovendo studi a livello di comunità e con la partecipazione delle comunità. Le esperienze delle donne, dei poveri, dei gruppi marginalizzati erano il punto di partenza dell’indagine scientifica intesa come servizio alle comunità e agli individui.

Nel 1985 apparve il suo primo libro, No Immediate Danger. Prognosis for a Radioactive Earth un’opera considerata la continuazione di Primavera silenziosa (1962) in cui, sulla scia di Rachel Carson, mosse una critica radicale all’ideologia dei “livelli di tolleranza”, quel lento avvelenamento imposto come prezzo dello sviluppo che tutti dovrebbero accettare. Al “forte grido di battaglia” lanciato da Carson contro i pesticidi, Bertell univa il suo grido contro le radiazioni.

Come Carson, l’epidemiologa americana sfidò la nozione di oggettività scientifica che implicava il distacco dai soggetti dell’analisi, accusò di arroganza la scienza moderna che legittimava l’introduzione nell’ambiente naturale di sostanze chimiche e di metalli pesanti prima di averne verificato la pericolosità, ignorando gli effetti combinati degli agenti tossici e negando il principio di precauzione che la complessità ecologica avrebbe richiesto.

In più occasioni si recò in Giappone e ascoltò dalla viva voce dei sopravvissuti il dramma delle esplosioni e nel 1978, commemorando le vittime di Hiroshima e Nagasaki, avanzò l’idea di un tribunale internazionale che mettesse al bando le armi nucleari.

Nella ricorrenza della tragedia di Hiroshima e a dieci anni dalla morte di Rosalie Bertell, le pagine che seguono si soffermano sulla sua attività e alcuni suoi scritti pubblicati tra il 1983 e il 1985, in particolare sul discorso che pronunciò di fronte al Tribunale di Norimberga contro le armi di distruzione di massa all’Est e all’Ovest (18-20 febbraio 1983).

La prima bomba a idrogeno fu piazzata in un isolotto della Micronesia, vicino a Bikini, il primo marzo 1954, provocò l’esplosione più potente della storia degli Stati Uniti: mille volte più devastante dell’ordigno sganciato su Hiroshima.

Norimberga 1983: la continuità tra Auschwitz e Hiroshima

La decisione di convocare un tribunale a Norimberga per condannare le armi di distruzione di massa come crimini contro l’umanità fu approvata nel novembre 1982 dall’assemblea federale del partito dei Verdi ad Hagen. Nel 1985 Rosalie Bertell ha ricordato le parole pronunciate da un giurista il 12 giugno di quell’anno, alla vigilia della grande manifestazione contro il nucleare che si tenne a New York: “Oggi dobbiamo applicare il diritto internazionale se vogliamo sopravvivere. Non ci sarà alcun tribunale di Norimberga per giudicare i crimini contro l’umanità dopo la Terza guerra mondiale perché dopo una guerra nucleare non ci saranno vincitori[8].

Fu grazie alla visione ecopacifista di Petra Kelly e al suo impegno di anni nei movimenti contro il nucleare che si concretizzò l’idea del tribunale di Norimberga[9]. Data e luogo furono accuratamente scelti: la città tedesca aveva un forte valore simbolico e di denuncia: la “promessa” del tribunale di Norimberga del 1945-1946 era stata infranta e in quel luogo doveva essere riaffermata. La data, il 18 febbraio, faceva riferimento al discorso di quarant’anni prima quando, al palazzo dello sport di Berlino, Joseph Goebbels invocò la guerra totale: “Volete la guerra totale? La volete, se necessaria, più totale e più radicale di quanto si possa immaginare?”[10].

Il 18 febbraio 1983, nel discorso di apertura dei lavori del tribunale, Petra Kelly sostenne la continuità tra i crimini nazisti e la politica di riarmo delle superpotenze: “Noi ci stiamo avvicinando al campo di concentramento globale e all’olocausto globale, alla possibilità di una guerra nucleare analoga al crimine nazionalsocialista della follia razziale”[11].

Dopo aver ascoltato i testimoni che si avvicendarono sul palco – tra cui Johan Galtung, Barry Commoner e Rosalie Bertell – la giuria, composta da sei personalità del mondo scientifico, filosofico, ecologista e religioso, emise le sue deliberazioni in cui si definivano crimini contro l’umanità la produzione, la sperimentazione, il possesso, l’uso di armi di distruzione di massa e si affermava l’obbligo degli stati di smantellare i loro arsenali. Il 20 febbraio Petra Kelly e Hermann Verbeck, il religioso olandese che aveva fatto parte della giuria, lanciarono il loro appello all’azione[12].

Nonostante i principi fissati dal tribunale siano oggi al centro degli impegni degli stati che hanno ratificato il trattato di proibizione delle armi nucleari e dell’attivismo pacifista, il tribunale del febbraio del 1983 e le sue risoluzioni non hanno avuto grande risonanza.

Le prime vittime della III guerra mondiale

“Oggi desidero esporre pubblicamente il processo di brutalizzazione che si sta svolgendo in preparazione della III guerra mondiale”[13]. Con queste parole Rosalie Bertell iniziava la sua testimonianza. Il processo di brutalizzazione derivava dal principio della sovranità nazionale, un principio primitivo, fondato sul diritto dello stato di sacrificare la vita dei propri cittadini e di quelle degli altri paesi in nome della sicurezza nazionale, un principio che era arrivato alle sue estreme conseguenze, l’annientamento della vita.

La scienziata americana volle prima di tutto ricordare le vittime, a partire da quelle di Hiroshima e Nagasaki. “Ignorare la loro sofferenza significa cooperare con il processo di brutalizzazione che prepara il mondo per l’olocausto nucleare. In questo modo si accetta di cooperare con il principio che le nazioni hanno diritto di vita e di morte sui loro cittadini[14].

Sulla base dei dati raccolti dalla Committee for the Compilation of Materials on Damages Caused by the Atomic Bomb in Hiroshima and Nagasaki (1981), nelle due città giapponesi ci furono immediatamente 155.521 morti; 2.140 donne gravide restarono uccise, 400 abortirono; 147.033 persone persero la vita tra settembre 1945 e gennaio 1950; 1.523 bambini nacquero con malformazioni, 200 dei quali con gravi danni cerebrali. Tra i sopravvissuti insorsero migliaia di casi di cancro (tra 3.500 e 13.500); 21.600 bambini nacquero con danni genetici. “Bambini con alterazioni genetiche continueranno a nascere e a loro volta genereranno bambini con alterazioni genetiche per molte generazioni a venire”[15].

Negli anni che seguirono, “in tempo di pace”, le sperimentazioni delle armi nucleari hanno causato un numero di vittime molto più elevato, almeno milioni, a cui si dovevano aggiungere i continui casi di morte derivati dalle attività connesse alla produzione delle armi atomiche (da 36.700 a 78.300 all’anno). Incalcolabili i danni genetici e cerebrali che si sarebbero tramandati di generazione in generazione, enormi i danni ambientali, crimini compiuti per lo più sulle minoranze, sulle popolazioni indigene, sulle persone più vulnerabili, sulle donne e, soprattutto, sui i bambini.

Nella sua testimonianza al tribunale Bertell menzionò le principali sperimentazioni delle grandi potenze: quelle britanniche in Australia, quelle francesi nel Pacifico, quelle americane nel Nevada, quelle sovietiche nella regione di Novaja Zemlja che hanno rotto il delicato equilibrio dell’ecosistema artico.

La catena delle crudeltà

Accanto ai dati relativi ai danni alle popolazioni e alla natura, Bertell volle mettere in luce anche la catena delle crudeltà inflitte alle popolazioni sacrificate agli obiettivi militari: la repressione, la segretezza, le menzogne, la negazione dell’assistenza, l’abbandono.

Quando l’ultima delle 96 bombe fatte esplodere dalla Francia sull’isola di Mururoa causò il collasso del piedestallo corallino e l’isola iniziò ad affondare nell’oceano, le sperimentazioni furono semplicemente spostate su un’altra isola lasciando che il plutonio e altri prodotti della fissione si diffondessero ovunque, incluse le zone di riproduzione delle creature marine. La popolazione non era mai stata informata né protetta dalle ricadute delle detonazioni, anzi, il governo francese ha perseguito i dissidenti polinesiani, imprigionandoli in Francia e tre mesi prima dell’inizio delle sperimentazioni ha sospeso la pubblicazione delle statistiche sanitarie della Polinesia. Recentemente la Francia si è rifiutata di collaborare con lo studio promosso dall’Organizzazione mondiale della sanità sul cancro nella Polinesia. È chiaro che i diritti umani e alla salute dei polinesiani sono stati sacrificati ai programmi militari della Francia[16].

Solo recentemente è stato accertato che il 90% della popolazione polinesiana è stata colpita dalle radiazioni[17]. Un altro esempio portato da Bertell è quello dell’atollo Kwajalein, terreno di sperimentazione dei missili americani, i cui abitanti (circa 8.000) furono trasferiti nella piccola isola di Ebeye dove non esisteva più vegetazione e dove essi vissero in abitazioni di cemento o in baracche sul mare. In quelle condizioni la popolazione di Kwajalein fu decimata, mentre quella dell’isola di Eniwetok fu condotta sull’orlo dell’estinzione.

Eniwetok è un’isola delle Marshall più inquinata dalle ricadute radioattive di Bikini. Dal Dipartimento dell’energia è stata ufficialmente dichiarata inabitabile a causa delle sperimentazioni delle armi americane. La scorsa estate gli abitanti di Eiwentok sono tornati nella propria isola nonostante il divieto. Avevano deciso che, a causa delle malattie di cui hanno fatto l’esperienza e le malformazioni alla nascita dei bambini, si stavano estinguendo come popolo. Volevano morire nella loro terra. […] La cultura, la salute e il futuro di queste popolazioni delle isole sono state sacrificate agli obiettivi militari degli Stati Uniti[18].

Un grave oltraggio da parte del governo americano alle vittime del nucleare fu commesso quando, il 6 agosto 1982, nel trentasettesimo anniversario di Hiroshima, fu fatta detonare nel Nevada una delle bombe più potenti.

Il disprezzo per i diritti umani elementari è stato manifestato dalla Russia in seguito al disastro nucleare di Čeljabinsk quando una esplosione in un deposito di scorie contaminò un territorio di 1500 chilometri quadrati. Alle vittime delle radiazioni non fu concesso di avere contatti con altre persone ugualmente contaminate negando loro anche il conforto che proviene dalla condivisione del dolore. Per di più, la polizia militare sovietica vietò a persone esterne di assistere le vittime e di imparare dalla loro tragica esperienza.

“Vorrei reclutare infermiere, medici, radiologi affinché si rechino in questi luoghi per dare assistenza alle vittime. Credo che si debba rendere visibile al mondo la loro sofferenza per iniziare a sanare queste ferite aperte sulla faccia del pianeta, come una precondizione di pace. Voglio iniziare a organizzare questo sforzo che richiede denaro e personale”[19].

Bertell non riuscì a recarsi in Russia, ma qualche mese dopo la conclusione dei lavori del tribunale di Norimberga si recò in Micronesia dove partecipò alla Fourth Nuclear Free and Independent Pacific Conference a Vanuatu in cui venne approvata la Carta dei popoli per un Pacifico indipendente e libero dal nucleare che denunciava il dominio coloniale brutale sui popoli del Pacifico[20].

Con l’epidemiologa Sara Cate e la suora Colette Tardif di Winnipeg, cercò di verificare le conseguenze delle radiazioni sulla salute degli abitanti, li incontrò e ascoltò le loro tragiche esperienze, le malattie e le deformità dei neonati. Da allora non dimenticò lo strazio delle madri che paragonarono i loro figli a “meduse” e a “grappoli di uva”. “Una donna mi disse di aver tenuto tra le braccia il suo bambino per tre ore fino a che non morì e poi lo seppellì in modo che suo marito non lo vedesse. Quelle che abbiamo di fronte sono donne che si colpevolizzano per aver avuto bambini deformi[21]. A loro dedicò una poesia dal titolo Una madre della Micronesia pubblicata nel 1983 nell’antologia ecofemminista, Reclaim the Earth. Women Speak out for Life on Earth[22].

Il mio bambino, il frutto del mio grembo

Per nove mesi l’ho desiderato

Per lui ho cantato

Per lui ho preparato i vestiti

Ho sognato dolci sogni

Il mio bambino, il frutto del mio grembo

Non aveva un volto da baciare

Non sentiva le mie canzoni

Non aveva occhi; né mani

Un grappolo d’uva

Il mio bambino, il frutto del mio grembo

Il suo cuore batté furiosamente e poi si fermò

Lo tenni stretto

Lo odiavo; lo amavo

Lo nascondevo alla vista

Il mio bambino, il frutto del mio grembo

Suo padre era la bomba atomica

Ha stuprato la nostra terra

Ucciso i nostri alberi

Mi dissecca la vita.

Accanto agli innumerevoli casi drammatici causati da alti livelli di contaminazione, ammonisce Bertell, bisognava dimenticare, quelli causati da livelli di contaminazione inferiori. Le radiazioni, infatti, si sono diffuse in tutto il mondo e attraverso l’acqua, l’aria, il cibo sono entrate nei nostri corpi: tumori, alterazioni genetiche, diabete, malattie cardiache e tiroidee ne sono le conseguenze. Occorreva riconoscere dunque che “come specie umana abbiamo dato avvio ad un processo di morte”.

Tra il 1966 ed il 1996 i due atolli di Mururoa e Fangataufa nella Polinesia Francese sono stati utilizzati per ben 179 test nucleari decisi dai governi parigini: 41 sono stati condotti in aria e 138 sotterranei.

Onestà, coraggio e compassione

Come affrontare il processo di morte della specie? Nel rispondere a questa domanda Bertell si è ispirata all’opera della psichiatra svizzera Elisabeth Kübler-Ross, La morte e il morire[23] e alle diverse fasi del processo che portava alla completa accettazione della realtà da lei descritte:

• La prima fase è quella della negazione di una realtà troppo difficile da sopportare, ed è lo stato d’animo più diffuso.

• La seconda fase è la collera, ovvero “la capacità di piangere”, uno stadio importante che il movimento pacifista, aveva ormai raggiunto.

• Il terzo stadio è quello del “venire a patti”, ovvero quando si ha una parziale consapevolezza della situazione e la risposta è troppo debole; quando si cercano magici rimedi, ci si culla nell’illusione di soluzioni tecnologiche che consentono di vivere come sempre e non si affronta il problema radicato nella struttura sociale. Nel mondo pacifista questo stadio è bene esemplificato dall’incapacità di andare al di là della pubblicazione di opuscoli, dell’organizzazione di riunioni, dibattiti e manifestazioni di protesta.

•La quarta fase è quella della completa accettazione, del contatto profondo con quanto accade intorno a noi, la morte della specie.

La completa accettazione non ha a che fare con le fantasie della catastrofe, di una distruzione totale da cui solamente può nascere un nuovo mondo e un nuovo modo di vivere. La tentazione di abbandonarsi a queste fantasie è forte perché libera dalla responsabilità. Ma la realtà non è così semplice, scriverà nel 1985. “Per molte persone la morte nucleare non sarà immediata. Ci possono volere giorni, mesi, anni. Ci sarà mancanza di cibo e ripari […] ci saranno pochi bambini[24]. La responsabilità di fronte alla sofferenza non sarà mai evitabile.

Al contrario, la completa accettazione conduce, in realtà, alla ricerca di nuove energie umane per allontanarsi dal precipizio nucleare e alla elaborazione di un nuovo modo di prendere le decisioni.

Mentre la costruzione di una comunità globale nonviolenta richiederà secoli di apprendimento e attività umane, l’allontanamento dal precipizio nucleare deve essere realizzato rapidamente. La domanda “Come farlo?” ha milioni di risposte – una per ogni persona che si risveglia alla realtà. Le soluzioni richiedono un mutamento dei modi di vita, una genitorialità nonviolenta, la cura per gli ecosistemi e per i prodotti della terra […]. Il modo generale di azione è la non cooperazione con la morte e la cooperazione con la vita[25].

La fase della completa immersione nella realtà è descritta da Rosalie Bertell come un risveglio interiore, simile quello attraversato da lei stessa nel corso del “ritiro di preghiera”. Un “meraviglioso esempio” era quello delle donne di Greenham Common “che hanno fatto ciò che non potevano non fare: hanno lasciato la loro vita normale, hanno vissuto in tende, dormito sulla pietra”[26].

Il ruolo delle donne nell’affermazione di una società orientata alla pace le apparve sempre cruciale. “Non a caso, scrisse nel 1985, il movimento femminista coincide con il movimento pacifista e anti-nucleare”.

In un modo speciale le donne nella società assistono alla nascita e alla morte e ora hanno spostato la loro attenzione al processo di morte della specie e alla nascita di un nuovo modo di condurre le questioni umane che può scongiurare questa morte. In tutto il mondo le donne hanno messo da parte “la vita normale” per condividere l’afflizione dei morenti, dei bambini denutriti, delle vittime “scomparse” della violenza governativa e urbana, dei popoli devastati dalle rivoluzioni e dalle guerre. Le donne inoltre hanno creato e sperimentato nuovi sistemi sociali ideati per decentralizzare il processo decisionale, aumentare al massimo la libertà e la diversità e sviluppare la cooperazione e la verità[27].

Oltre che dai suoi valori religiosi e morali, Rosalie Bertell fu sempre guidata dalla sua visione ecofemminista. Nel 2010, in uno dei suoi ultimi scritti, Distruggere lentamente il nostro pianeta, sul tema della geoingegneria[28], si legge:

È giunto il momento di mettere in discussione il sistema patriarcale, che implica la dominazione su tutte le forme di vita; e il capitalismo gretto che richiede una eccessiva forza militare per salvaguardare il suo avido accumulare di risorse naturali. Dobbiamo accettare un doloroso piano per un futuro più intelligente, umano e femminile[29].

Per attuare questo piano, come affermò di fronte al tribunale di Norimberga, sarà “importante […] che non si guardi solo al passato con rimorso e al futuro con paura, ma che si affronti il presente con onestà, coraggio e compassione”.

5 agosto 2022

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Note

[1] https://www.wilpf.org/dont-normalise-nuclear-weapons-and-war-abolish-them/.

[2] William Borad, The Smaller Bombs that Could turn Ukraine into a Nuclear War Zone, https://www.nytimes.com/2022/03/21/science/russia-nuclear-ukraine.html.

[3] https://sgs.princeton.edu/the-lab/plan-a.

[4] Questo breve articolo si sofferma sugli anni 1983-1985, ovvero sul suo intervento al tribunale di Norimberga e sul suo primo libro, No Immediate Danger.Prognosis for a Radioactive Earth, The Women’s Press, London 1985.

Su Rosalie Bertell si veda: Marie-Louise Engels, Rosalie Bertell. Scientist, Eco-feminist, Visionary, Women’s Press, Toronto 2005. Si veda inoltre: Karen Charman, Remembering Rosalie Bertell, the “Anti-nuclear Noun”, “Capitalism, Nature, Socialism”, vol. 3, n. 4, 2012, https://www.researchgate.net/publication/263146071_Remembering_Rosalie_Bertell_the_Anti-nuclear_Nun.

[5] Rosalie Bertell, Unholy Secrets. The Impact of Nuclear Age on Public Health, in Leonie Caldecott-Stephanie Leland (eds.), Reclaim the Earth. Women Speak out for Life on Earth, The Women’s Press, London 1983, p. 25.

[6] Engels, Rosalie Bertell, cit., p. 48.

[7] Lisa Rumiel, Getting to the Heart of Science. Rosalie Bertell’s Eco-Feminist Approach to Science and Anti-Nuclear Activism, “Journal of Women’s History”, vol. 26, 2, 2014, p. 140.

[8] Citato da Rosalie Bertell, No Immediate Danger, cit., p. 330.

[9] Sulla vita e il pensiero di Petra Kelly rinvio al saggio di Silvia Alfonsi, Petra Kelly. Vivere e pensare oltre i confini, in Bruna Bianchi-Francesca Casafina (a cura di), Oltre i confini. Ecologia e pacifismo nella riflessione e nell’attivismo pacifista, Biblion, Milano 2021, pp. 187-218.

[10] https://www.britannica.com/video/180235/Joseph-Goebbels-war-crowd-Berlin-1943.

[11] Regina Wick, “Die Mauer muss weg. Die DDR soll bleiben”, Kholhammer, Stuttgart 2012, p. 124.

[12] https://comune-info.net/non-permettere-di-assuefarsi-allidea-della-guerra/

[13] Cito dalla versione scritta della testimonianza: Rosalie Bertell, Early War Crimes of WWIII, “Canadian Woman Studies/Les Cahiers de la femme”, vol. XI, 1, 1988, p. 6, https://cws.journals.yorku.ca/index.php/cws/article/view/11838. Alcuni brani si possono ascoltare nel documentario sul tribunale, The Nuremberg Promise, https://vimeo.com/ondemand/thenurembergpromise/438901983.

[14] Bertell, Early War Crimes of WWIII, cit., p.7

[15] Ivi, p. 8.

[16] Rosalie Bertell, Early War Crimes of WWIII, cit., p. 7.

[17] Adrian Cho, France Grossly Underestimated Radioactive Fallout from Atom Bomb Tests, Study Finds, https://www.science.org/content/article/france-grossly-underestimated-radioactive-fallout-atom-bomb-tests-study-finds

[18] Bertell, Early War Crimes of WWIII, cit., p.7.

[19] Ibidem.

[20] https://www.disarmsecure.org/nuclear-free-aotearoa-nz-resources/nuclear-free-and-independent-pacific-movement

[21] Engels, Rosalie Bertell, cit., p. 139.

[22] Curata da Leonie Caldecott e Stephanie, l’antologia apparve a Londra per The Women’s Press, p. 111.

[23] La traduzione italiana dell’opera è stata pubblicata da Citadella editrice, Assisi 1979. Questa parte della testimonianza si può ascoltare in The Nuremberg Promise poiché non compare nella versione scritta. Bertell svilupperà questo tema nella sua opera del 1985, No Immediate Danger, cit., pp. 310-373.

[24] Ivi, p. 338.

[25] Ivi, p. 345.

[26] The Nuremberg Promise, cit. Per molti anni le donne hanno tenuto in vita il campo e oggi il terreno destinato alla base missilistica è tornato proprietà demaniale ed è un’area naturalistica protetta.

[27] Bertell, No Immediate Danger, cit., p. 374.

[28] Su questo tema di cruciale attualità, Voci di pace, accoglierà uno specifico contributo.

[29] Cito da Bertell, Pianeta Terra. L’ultima arma di guerra, a cura di Maria Heibel, Asterios, Trieste 2018, p. 35.

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Fonte: comune-info.net