Introduzione (1)
La domanda cui mi propongo di rispondere in queste pagine è la seguente: esiste un legame fra il cambiamento climatico, le crisi migratorie, le disuguaglianze, le carestie, la mortalità infantile, lo sfruttamento minorile, la disoccupazione, l’evasione fiscale, il degrado dei servizi pubblici e l’estinzione delle specie viventi? E se esiste, di che si tratta?
Il pamphlet che avete fra le mani ha come obiettivo di mostrare le interdipendenze che connettono tutti i principali problemi che i popoli della Terra sono ad oggi costretti ad affrontare. Tale filo conduttore va spesso sotto il nome di «neoliberismo». In un’intervista recente, il filosofo canadese Alain Deneault(2) affermava che il neoliberismo «è il problema del XXI secolo»(3). Nelle prossime pagine vorrei mostrarvi perché.
La maggior parte della cosiddetta «opinione pubblica» disconosce tanto il termine quanto il suo significato; spesso ignora persino che ci possa essere un minimo comun denominatore fra i fenomeni sopra citati. I politici che conoscono il neoliberismo non lo nominano quasi mai: quelli che lo sostengono non hanno interesse a dare ai cittadini un’arma concettuale potente per combatterlo; e quelli che lo combattono hanno paura di rendersi incomprensibili ai loro elettori.
Di fatto, creatori ed esecutori di questo sistema economico, politico e culturale sono abilissimi nel renderlo indecifrabile. Eppure se avete sentito parlare di
«austerità», «società dei consumi», «aggiustamenti strutturali», «libero mercato», «mondializzazione», «globalizzazione»,«consenso di Washington», «turbocapitalismo», «libero scambio», «capitalismo finanziario», «reaganismo», «thatcherismo», «laissez-faire»(4) (lasciar fare), «deregulation» (deregolazione), «el modelo» (come lo chiamano in Cile), «new public management» (nuovo management pubblico), «gig economy» (economia dei lavoretti), «flessibilità», «flexicurity» (flessicurezza), «delocalizzazioni», «dumping salariale/fiscale/ambientale», «crony capitalism» (capitalismo clientelare o di collusione), «governance» (governanza), di «deep state» (Stato nello Stato) o di «filantrocapitalismo»,
allora avete sentito parlare di questo regime, di una sua variante o di una sua componente.
I neoliberisti esercitano il potere in un modo altamente tecnico, perverso, difficile da circoscrivere perché capace di prendere forme differenti in luoghi e contesti diversi. Inoltre, come dice l’economista francese Frédéric Lordon, «la caratteristica [della teoria neoliberista] risiede nella negazione sistematica della violenza dei rapporti sociali del capitalismo»(5). Tuttavia, il punto debole del sistema capitalista è ch’esso segue sempre la stessa logica di fondo: prendere ai meno abbienti per dare ai grandi possidenti, con effetti secondari letteralmente letali per la salute e l’ambiente.
L’obiettivo di questo pamphlet
Nelle pagine seguenti mi propongo di fornire una sintesi – per quanto possibile esaustiva – della teoria e della pratica neoliberiste. Questo testo non è il risultato di ricerche originali, né le mie qualifiche accademiche mi legittimano particolarmente a parlare di tale argomento. Il mio approccio è riassuntivo e militante, sebbene il lavoro di stesura sia stato rigoroso. Ma errare è umano: qualora il lettore trovasse delle imprecisioni o degli errori, lo invito a segnalarmele e lo ringrazio in anticipo.
Mi rivolgo agli uomini e alle donne che sono vittime del neoliberismo e che non sanno dargli un nome. L’assenza dai principali media italiani di una discussione critica e approfondita su questo tema non cessa di stupirmi. Ignorare il neoliberismo oggi equivale ad ignorare il nazismo nella Germania degli anni ’30. Se quest’analogia può sembrare eccessiva, dirò sin da subito qual è la tesi di questo testo. Che il neoliberismo è un sistema allo stesso tempo:
• totalitario, perché aspira a controllare e influenzare ogni aspetto della vita degli individui, dal lavoro alla sanità, fino alle questioni più intime;
• genocida, perché trucida interi popoli e classi sociali, facendo ogni anno fra 20 e 50 milioni di morti diretti e indiretti, a causa di guerre, carestie, epidemie, inquinamento e disuguaglianze;
• ecocida, perché depreda le risorse e devasta mari, foreste, suoli e aria, con la conseguenza che sta causando un collasso degli ecosistemi, nonché l’estinzione dell’umanità6.
Scrivo queste righe nell’ottica dell’educazione popolare della tradizione francese e brasiliana di Jacques Rancière(7) e di Paulo Freire(8). In tal senso, ho cercato di semplificare al massimo il mio linguaggio, di illustrare i termini tecnici, d’indicare la pronuncia delle parole straniere e di citare tutto il materiale cui faccio riferimento. (Alcuni degli articoli, libri e video in nota sono in lingua straniera: il lettore o la lettrice non esiti a copiare e incollare i testi di queste fonti in qualche sistema di traduzione gratuita online, oppure ad attivare l’opzione della traduzione automatica nel proprio browser o, nel caso dei video, i sottotitoli in italiano – ove disponibili).
1. Definizioni
Liberismo e liberalismo
Per capire cos’è il neoliberismo, bisogna prima di tutto sapere cos’è il liberismo e in cosa si distingue dal liberalismo. In politica si parla di liberalismo per riferirsi all’ampliamento dei diritti civili: divorzio, aborto, matrimonio omosessuale, eutanasia, legalizzazione delle droghe, ecc. La filosofia politica liberale è tradizionalmente qualificata di sinistra.
Il liberismo è invece un sistema di pensiero apparso nel 1700, soprattutto grazie agli scritti del filosofo ed economista inglese Adam Smith, il quale predicava la dottrina della «mano invisibile». Secondo questa teoria, i mercati si autoregolano attraverso la legge della domanda e dell’offerta, grazie all’azione d’individui perfettamente razionali ed egoisti. Per Smith ognuno di noi, al mercato, si comporta in maniera logica ed individualista. La somma degli interessi di ciascuno porta al benessere collettivo e ad un equilibrio globale dei mercati (né troppa offerta, né troppa domanda). In questa visione, lo Stato o qualsiasi altro potere politico centralizzato non deve interferire nel funzionamento del commercio.
Neoliberismo e monetarismo
Il prefisso “neo” della dottrina neoliberista non indica soltanto la riemergenza del vecchio liberismo, ma anche un suo rinnovamento teorico. Se il sogno liberista originario voleva la scomparsa dello Stato almeno in ciò che concerne l’economia, per i neoliberisti di oggi lo Stato va mantenuto per favorire l’espansione dei mercati. In quest’ottica, lo Stato serve a 1) regolare i mercati in favore delle multinazionali, delle banche e della speculazione finanziaria; 2) proteggere la proprietà privata: imprese, azioni, brevetti; e 3) mantenere l’ordine pubblico: la polizia, che gode del monopolio della violenza legittima, serve a tenere a bada il popolo con tecniche contro-rivoluzionarie quando la gente protesta per strada. Allo stesso tempo, il neoliberismo sottopone i diversi settori dello Stato – dalla scuola alla sanità, dal welfare alla sicurezza – alle logiche della concorrenza e della gestione manageriale.
Il neoliberismo si avvale di un’altra ideologia economica: il monetarismo. Essa consiste nel dare un ruolo fondamentale alle banche centrali – che possono restringere l’offerta di moneta in circolazione – al fine di regolare gli equilibri monetari internazionali, garantire ai Paesi (del Nord) monete forti e tenere basso il livello d’inflazione (cioè l’aumento dei prezzi rispetto ai salari).
Ordoliberalismo e ultra-liberismo
Il neoliberismo si distingue dall’ordoliberalismo, variante tedesca secondo la quale lo Stato deve avere un ruolo maggiore nella regolazione dei mercati, esercitando una politica monetarista forte al fine di limitare l’inflazione e il debito pubblico. Gli ordoliberali tedeschi sono, oggi in Europa, i primi sostenitori dell’austerità – ovvero della restrizione della spesa statale destinata ai servizi pubblici, ai trasporti e all’indennità di disoccupazione. I neoliberisti, come vedremo, agitano il pericolo del debito per far passare le loro riforme come gli ordoliberali, ma in realtà, a differenza di questi, non si curano veramente dell’equilibrio dei conti.
Sia i liberisti che i neo- e ordoliberali non teorizzano la totale scomparsa dello Stato, ma una sua sottomissione ai mercati, mentre ancora gli ultra-liberisti, anche detti anarco-capitalisti, si distinguono dai tre gruppi precedenti per il fatto di sostenere la totale soppressione dello Stato, in favore di una società completamente privatizzata, concorrenziale e individualista.
L’economia neoclassica
Gli economisti classici – Adam Smith e David Ricardo – puntavano i loro riflettori teorici sulla produzione delle merci e avevano un approccio macroeconomico (cioè focalizzato sulle nazioni). Attivi tra il 1855 e il 1930, gli economisti neoclassici – Léon Walras, Carl Menger e altri – concentrarono invece i loro sforzi intellettuali sulla formazione dei prezzi con un approccio microeconomico (cioè focalizzato sugli individui). Nella loro ottica, il prezzo di un prodotto non è dato dal lavoro necessario a produrlo (come per i classici), ma dalla sua utilità e rarità. Il postulato fondamentale dell’economia (neo)classica è che i mercati si trovano naturalmente in equilibrio. Il che vuol dire che essi non sono soggetti a fluttuazioni e che gli agenti economici raggiungono sempre lo stato di massima soddisfazione. Come spiegare dunque le crisi economico-finanziarie che si succedono mediamente ogni dieci anni? Con questi autori l’economia diventa un sapere matematizzato, che il neoliberismo usa per ammantarsi di un alone di scienza.
Keynesismo e neokeynesismo
John Maynard Keynes (1883-1946) è stato un economista britannico, tra i più influenti del ventesimo secolo. Il keynesismo si fonda sull’opposizione ai (neo)classici su quattro temi:
• se per i (neo)classici l’offerta è l’elemento centrale dell’economia, per Keynes lo è la domanda;
• se i (neo)classici sacralizzano il risparmio, Keynes invece glorifica i consumi, che creano la domanda;
• per Keynes i mercati non raggiungono mai l’equilibrio da soli. Nella sua ottica, l’economia si caratterizza per un’alternanza, non fra inflazione e deflazione (come per i neoclassici e i neoliberisti), ma fra sotto-impiego e sovra-impiego;
• in ragione del terzo punto, per Keynes si assiste periodicamente ad un ciclico aumento della disoccupazione. Quando ciò avviene, neoclassici e neoliberisti pensano che i mercati si occuperanno di mettere le cose a posto, oppure affermano che una certa quantità di disoccupazione è fisiologica. Per Keynes invece, lo Stato deve intervenire per creare posti di lavoro attraverso l’aumento della spesa pubblica (non alzando le tasse, ma stampando moneta).
Se l’economia keynesiana ha caratterizzato i decenni del miracolo economico, è perché era compatibile allo stesso tempo con lo sviluppo del capitalismo e con una visione social-democratica della società. In quest’ottica, le disuguaglianze sono accettabili fintantoché lo Stato si occupa di ridistribuire la ricchezza e di tendere la sua mano provvidenziale ai cittadini nei momenti di difficoltà.
Va detto che, per quanto una riforma keynesiana dell’economia oggi sarebbe rivoluzionaria rispetto alla miseria neoliberista, i problemi ecologici ci impongono di uscire da ogni sistema economico basato esclusivamente sul principio del consumo. Attenzione inoltre ai falsi amici: gli economisti «neokeynesiani» mirano a realizzare una sintesi fra i neoclassici e le idee di Keynes, il che li rende compatibili col neoliberismo.
Le tre fasi del capitalismo
Secondo due sociologi francesi, Luc Boltanski ed Ève Chiapello, il capitalismo può essere periodizzato in tre fasi(9). La prima (1700-inizio 1900) vede come protagoniste le piccole aziende a conduzione familiare, fondate sul lavoro a cottimo e organizzate secondo un sistema morale paternalista. La seconda fase (1930-1970) è caratterizzata dall’apparizione delle prime grosse aziende centralizzate, altamente gerarchiche e “fordiste” (dal nome di Henry Ford, inventore di un nuovo modo di produzione industriale, molto più efficiente dei precedenti: i lavoratori sono da lui inquadrati in compiti precisi, molto ripetitivi, e fanno parte di una lunga e complicata, ma rapida, catena di montaggio. Inoltre, ricevono un salario che permette loro di comprare ciò che producono).
Il neoliberismo, che rappresenta la terza fase, comincia ad affermarsi nel mondo occidentale a partire dalla dittatura di Augusto Pinochet in Cile (1973-1990), dai governi del presidente americano Ronald Reagan (mandati: 1981-1989) e della prima ministra inglese Margaret Thatcher (mandati: 1979-1990). Con le dovute differenze storico-geografiche e culturali, il neoliberismo è oggi ben installato nella stragrande maggioranza dei Paesi del pianeta. Molti mettono l’accento sulla finanza, che impone una restrizione della democrazia dall’alto: in parte per limitazioni sul budget degli Stati (vedasi il famoso limite del 3%), in parte perché i mercati posseggono la gran parte del debito pubblico degli Stati (il che gli permette di ricattare i governi non allineati alla dottrina neoliberista). Altri, come la giornalista e attivista canadese Naomi Klein(10), descrivono questa fase del capitalismo con il termine di «corporativismo», in riferimento allo strapotere delle multinazionali.
Parentesi del «liberismo incastrato»
La fase storica che va dal 1945 al 1973 viene ricordata come «l’era d’oro del capitalismo», come «i trent’anni gloriosi» o come il «miracolo economico». Nella memoria collettiva, sono trent’anni scanditi da una crescita considerevole (si parla di un incremento medio annuo del PIL del 4,5%) e da una generalizzazione dei consumi. Pochi hanno interesse a ricordare che si tratta anche della fase del «liberismo incastrato», in cui il capitalismo si trovava arginato da una serie di leggi e dispositivi statali, come per esempio:
• la separazione tra banche tradizionali e banche d’investimento (in America tale atto porta il nome di «Glass-Steagall Act»): ciò evitava che le banche si finanziassero sui mercati azionari, cosa che oggi fanno in modo preponderante;
• la tassazione dei redditi più alti: oltre una certa soglia, persino negli USA i miliardari erano tassati al 90%;
• la presenza di aliquote severe per l’imposta di successione;
• l’incremento dei salari, che era superiore all’incremento dell’inflazione;
• l’interdizione dei grandi monopoli ed oligopoli;
• la limitazione della speculazione finanziaria, grazie per esempio all’interdizione dello «stock byback» (riacquisto di titoli azionari da parte delle aziende che hanno interesse a drogare artificialmente i prezzi delle proprie azioni).
Tra la fine della Seconda guerra mondiale e gli anni ’80, molti Stati, soprattutto del Nord, instaurano il cosiddetto welfare State o Stato sociale, provvidenziale o assistenziale. Esso fu inventato dal cancelliere tedesco Otto von Bismarck nella seconda metà del XIX secolo. Con il termine di «welfare» ci si riferisce a tutte quelle azioni statali pagate con le tasse della collettività al fine di garantire i bisogni di base a tutta la popolazione (sussidi di disoccupazione, sostegni per la disabilità, reddito minimo, cure sanitarie, educazione, cultura, alloggio). I suoi obiettivi sono il rispetto della dignità materiale e sociale degli individui, nonché la riduzione delle disuguaglianze attraverso la redistribuzione delle ricchezze.
Il neoliberismo subentra, a partire dagli anni ’80, per logorare poco a poco tutti i diritti acquisiti dai lavoratori e dai cittadini grazie a secoli di lotte e politiche progressiste, nonché per eliminare ogni controllo sulla finanza e le merci. Da allora disoccupazione, disuguaglianze e disastri ambientali non cessano d’aumentare. Inoltre il primo passo verso la finanziarizzazione dell’economia fu la fine degli accordi di Bretton Woods stabilita da Nixon nel 1971. Tali accordi, firmati nel 1944, fissavano il valore delle monete mondiali sul dollaro, fissato a sua volta sull’oro disponibile nelle casse americane. L’accordo doveva prevenire un’eccessiva fluttuazione delle monete nazionali, legata al fatto che i Paesi hanno interesse a svalutare la propria moneta per fomentare le proprie esportazioni e fare dunque una concorrenza sleale. Dopo il 1971, il dollaro ha potuto diffondersi a livello planetario senza più limiti, assicurando agli Stati Uniti un’influenza inaudita, che oggi si materializza con l’«extra-territorialità» del loro diritto: a partire dal momento in cui nel mondo una transazione avviene in dollari, la giustizia americana ha il diritto d’intervenire. Il neoliberismo è anche e soprattutto l’epoca dell’imperialismo americano.
Un solo termine, una sola causa: non è complottismo?
Cominciamo col definire i termini del discorso. Il complottismo è un fenomeno sociale che ha tre caratteristiche distintive:
• spiegare fenomeni complessi con teorie riduzioniste, semplicistiche e monocausali (gli Illuminati, i massoni, i rettiliani, ecc.);
• difendere teorie del complotto con argomenti fallaci (cioè illogici o privi di prove empiriche);
• rifiutare i contro-argomenti e le contro-prove considerandole paranoicamente come manipolazioni dei poteri occulti per distoglierci dalla verità.
L’approccio di questo pamphlet si discosta categoricamente da un approccio semplicistico, fallace e paranoico (sebbene nella Storia esistano dei veri e propri inside job: vedasi la Trattativa Stato-mafia). Risalendo alle mie fonti, il lettore o la lettrice potrà rendersi conto del fatto che il neoliberismo è un oggetto di studio di tutte le scienze sociali e che le teorie neoliberiste sono di dominio pubblico.
Si potrebbe tuttavia domandare: perché scegliere un solo termine, quello di neoliberismo, invece di lasciare spazio alla moltiplicazione dei termini e dei punti di vista per nominare la realtà, che resta complessa e mutevole? Chi scrive fa parte di coloro che pensano che l’ideologia e il programma d’azione neoliberista è fondamentalmente lo stesso dappertutto: dalle democrazie liberali e aperte come la Svezia fino ai regimi dittatoriali come la Cina, passando per le democrazie rappresentative più o meno autoritarie d’America e d’Europa. In tutti questi Paesi, si osservano delle logiche di privatizzazione del pubblico, di concorrenzialità accanita, di defiscalizzazione in favore dei ceti più abbienti, di aumento delle disuguaglianze e di distruzione dell’ambiente. Ciò non significa che non esistano differenze fra i Paesi, le “élite” e le teorie capitaliste.
Differenze fra Paesi. L’università è ancora gratuita in certe nazioni come la Francia; la sanità pubblica funziona meglio in Catalogna che in Sicilia; il sistema ferroviario tedesco è stato ripubblicizzato dopo esser stato privatizzato; la finanza è ovunque sregolata; lo Stato cinese mobilita e smobilita le popolazioni come usava fare lo stalinismo sovietico; mentre in Argentina diverse decine di imprese sono delle cooperative senza capitalisti né differenze salariali. In altre parole, il neoliberismo non regna univoco e sovrano. Esso presenta mille sfaccettature ed eccezioni, dando luogo, ovunque, a sistemi misti: allo stesso tempo neoliberisti, ultraliberisti, social-democratici, statalisti, comunisti e autogestiti.
Differenze fra “élite”. Il mondo è visto dai potenti – capi di Stato, banchieri, finanzieri, imprenditori, imperatori, re, dittatori – come un grande giardino nel quale spartirsi coi propri simili i frutti disponibili. Ai loro occhi, il mondo è il terreno di una lotta fra diverse tribù-“élite”, che tuttavia sanno collaborare all’occorrenza. Bernard Arnault (LVMH) e Marck Zuckerberg (Facebook) hanno più in comune fra loro che con i propri popoli rispettivi (per esempio nel mantenimento di paradisi fiscali come le Isole Barbados o il Lussemburgo, che danneggiano tanto gli americani quanto i francesi e gli europei). Le “élite” arabo-saudite, gli oligarchi russi e le otto famiglie che controllano la Cina(11) hanno relativamente poco da spartire fra loro e con similari compagini occidentali. Ma tutte queste tribù sono unite nel progetto di de-regolamentare la finanza, che opera a livello planetario a discapito delle popolazioni, e in quello di mercificare tutto ciò che è possibile privatizzare. Insomma, non si è complottisti, ma semplicemente sociologi, quando si parla di un gruppo di esseri umani che cooperano in virtù delle loro somiglianze oggettivabili in questioni quali il reddito, i modi di vita, i titoli di studio, le frequentazioni, i gusti estetici, eccetera(12). Il vecchio concetto di «classe», ideato da Marx, si è evoluto parecchio dal 1800 ad oggi ed è diventato uno strumento scientifico assodato in sociologia. Al lettore che dubitasse della sua pertinenza chiedo se nel suo quotidiano condivide di più con un miliardario o con il suo vicino di casa… Le “élite” néoliberiste hanno anche luoghi d’incontro per discutere dei loro interessi comuni: si pensi al Forum di Davos. Dopotutto, il primo a dare una lettura marxista della realtà sociale è Warren Buffett, uno degli uomini più ricchi al mondo: «C’è la lotta di classe, è vero. Ma è la mia classe, quella dei ricchi, che la combatte, e noi la stiamo vincendo»(13). Tra parentesi, i ricchi vincono solo perché sono riusciti ad intascare il sostegno di un’altra classe: quella dei quadri, composta da manager, alti funzionari e certi membri dell’intellighenzia (ossia giornalisti, ricercatori, intellettuali e scrittori)(14).
Differenze fra teorie. Nel suo ultimo libro, il filosofo francese Grégoire Chamayou(15) ripercorre i dibattiti che i capitalisti ebbero fra gli anni ’50 e ’70 di fronte alla crescente minaccia dei movimenti sociali che culminarono nel Maggio del ’68(16). L’autore mostra come i capitalisti, in quei decenni, abbiano avuto una sincera paura di scomparire; uno di loro scrive addirittura che: «Il sistema capitalista americano vive le ore più buie della sua storia. […] non resta che mettere l’impresa nella lista delle specie in via d’estinzione»(17). In quegli anni d’oro di progresso sociale, le vittorie dei sindacati, degli ecologisti, delle donne e delle minoranze etniche in Occidente furono innumerevoli. Non soltanto c’erano crescita e piena occupazione, ma anche una cultura politica diffusa: più la situazione migliorava, più le persone pretendevano di guadagnare terreno contro ogni forma di autorità e sfruttamento. In quel trentennio, gli imprenditori, gli economisti, i manager, gli psicologi e i giornalisti assoldati al capitale dibatterono e si sforzarono di teorizzare nuovi metodi per arginare la protesta e gli scioperi. Dando la parola ai capitalisti stessi, Chamayou mostra come l’epoca che chiamiamo «neoliberista» sia in realtà un conglomerato composito di teorie allo stesso tempo liberiste, neoliberiste, ultraliberiste, neoconservatrici, neoclassiche, manageriali, e che non esiste una coordinazione centrale né un’unità dottrinale fra di esse. L’obiettivo resta però lo stesso: difendere gli interessi delle “élite”.
Unità comunque. Fatte tali precisazioni, la tesi di questo pamphlet è che esiste un avversario multiforme e plurale, il quale agisce con un’unica logica antisociale, dominatrice e predatrice. Il neoliberismo designa un’epoca storica in cui delle “élite” composite hanno fatto appello ad un insieme di teorie eterogenee per giustificare delle politiche economiche che hanno ovunque gli stessi effetti devastanti.
2. Attori
Multinazionali e banche
I protagonisti principali della terza epoca del capitalismo sono le “élite” economiche. Se le si vuole identificare, bisogna cominciare col cercare la lista delle famiglie e degli individui più ricchi al mondo. Si possono spulciare per esempio i consigli di amministrazione delle più grandi imprese, ma anche la lista dei principali speculatori sulle piazze finanziarie del mondo intero.
Sia in tempi di crescita che di crisi, queste persone si arricchiscono senza sosta. Nel 2016, le 62 persone più ricche del pianeta possedevano la metà della ricchezza mondiale(18). Nel 2017, erano diventate 8(19). Vien da chiedersi perché tale oscenità non si trovi quotidianamente sulle prime pagine di tutti i (tele)giornali. Un elemento di risposta risiede nel fatto che i media appartengono o sono controllati nella stragrande maggioranza da queste stesse “élite”.
Che differenza fa possedere 100 milioni di dollari o 100 miliardi? Nella vita quotidiana, niente. Da un punto di vista simbolico e politico, tutto. Bill Gates – il cui patrimonio supera i 100 miliardi di dollari – viene ad esempio ricevuto dai capi di Stato come fosse un loro pari. Quale privato cittadino può godere dello stesso privilegio?
Il ruolo dei politici
Gli attori più visibili del neoliberismo sono però gli uomini e le donne della politica: governatori, ministri, parlamentari, amministratori e alti funzionari. Due cose vanno dette su di loro. La prima è che la classe dirigente non è altro che l’esecutrice delle teorie neoliberiste. Additare come principali colpevoli dello sfacelo che ci circonda solo gli uomini e le donne delle istituzioni sarebbe un errore.
La seconda cosa da dire è che la differenza fra Destra e Sinistra si è praticamente dileguata dall’inizio degli anni ’80. La Destra – sia quella moderata che quella estrema – è sempre stata liberista, mentre la Sinistra ha gradualmente adottato il paradigma neoliberista, tradendo la tradizione sociale ed operaia. Da François Mitterrand a Tony Blair, passando per Prodi e D’Alema, la Sinistra ha smesso di essere portatrice di ideali socialisti o anche solo keynesiani(20). È per questo che da trent’anni a questa parte, la linea di separazione fra Destra e Sinistra si gioca sempre più sul piano dei diritti civili e su quello dell’immigrazione: perché Renzi come Berlusconi e Salvini sono d’accordo sul fatto di detassare gli ultraricchi, precarizzare il lavoro, privatizzare i beni pubblici e saccheggiare l’ambiente. Peraltro, il fatto che i parititi di Sinistra si siano allineati al paradigma neoliberista spiega in parte perché, da qualche anno, gli elettori si rivolgono sempre più verso nuovi partiti “anti-sistema”.
I teorici del neoliberismo
Da un punto di vista teorico, il neoliberismo nasce molto prima di Pinochet, Reagan e Thatcher – e di tutti i loro epigoni che, passando da Clinton, Blair e Chirac, arrivano fino a Trump, Johnson e Macron. Le teorie che sono oggi implementate nelle politiche pubbliche di quasi tutti i Paesi del mondo sono infatti state confezionate nella prima metà del ‘900, principalmente dagli economisti della «Scuola austriaca» come Friedrich von Hayek e Ludwig von Mises, e da quelli della «Scuola di Chicago», come Milton Friedman e Ronald Coase. Cito questi nomi per permettere al lettore o alla lettrice di approfondire, se vuole, alla fonte stessa di tale ideologia mortifera. Li cito anche per memoria storica: questi nomi portano sulle spalle la sofferenza e la morte di milioni di persone. Invece d’incensarli dedicandogli auditori, sale universitarie e strade, bisognerebbe accostarli ad altre figure storiche, ben più buie.
Il termine «neoliberismo», oggi impiegato soprattutto in segno critico da ricercatori ed attivisti, è stato in origine forgiato da Walter Lippmann nel 1938 durante un congresso tenutosi a Parigi. Il giornalista americano lo aveva impiegato per elogiare il rinnovamento teorico delle teorie iniziate da Smith e Ricardo.
Il ruolo dei think tank
Oggi i luoghi più importanti in cui il neoliberismo viene teorizzato ed iscritto in articoli, libri e rapporti, sono meno le università che i think tank («serbatoi di pensiero»)(21). Si tratta di organizzazioni, associazioni o istituti che riuniscono ricercatori, politici, giornalisti, imprenditori ed intellettuali, al fine di riflettere sulle tematiche politiche e sociali le più diverse. I think tank si pongono l’obiettivo esplicito di fare pressione sulla politica, sull’impresa e sulla società, con lo scopo di cambiare i comportamenti degli individui e la legislazione vigente. Non tutti i «pensatoi» sono neoliberisti. Ma i think tank più influenti nella Storia recente sono senza dubbio quelli che hanno arricchito e diffuso le teorie di Hayek e Friedman nell’ambito politico e mediatico. Per fare un esempio della loro efficacia, l’Institut Montaigne in Francia si vanta del fatto che il 50% delle sue preconizzazioni diventano testi di legge nei tre anni che seguono la loro formulazione.
Tra gli anni ’40 e ’60, vengono fondati l’American Enterprise Institute, la Rand Corporation, la Società del Monte Pellegrino, l’Institute of Economic Affairs e l’Hudson Institute – questi, come gli altri think tank neoliberisti, sono finanziati da multinazionali, fondazioni private e milionari, che possono scaricare i loro doni dalle imposte. È in questi pensatoi – venduti come organismi d’interesse pubblico – che viene prefigurata la lotta alla social-democrazia e al keynesismo dominante negli anni ‘70. Questi istituti rimangono sconosciuti alla maggior parte della popolazione, eppure viviamo in un mondo che è stato disegnato a tavolino dai membri che li compongono. Reagan e Thatcher saranno consigliati dall’Heritage Foundation, dal Cato Institute e dall’Adam Smith Institute. Obama lo sarà dal Center For American Progress, mentre Renzi dalla Fondazione Open. Oggi il think tank più influente in Europa e nel mondo in materia di economia e politica neoliberista è l’OSCE, ovvero l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa: 57 membri lo compongono, fra cui tutti i Paesi europei (compresi Russia e Turchia), tutti quelli del Nord America, nonché l’Australia e alcuni Paesi dell’Africa del Nord.
Il ruolo delle lobby
Il termine inglese «lobby» indica quelli che in italiano si chiamano «gruppi di pressione» o «portatori d’interesse». Si tratta di gruppi organizzati di persone che cercano d’influenzare dall’esterno le istituzioni al fine di favorire interessi di parte. Il loro lavoro è complementare a quello dei think tank.
Anche qui, non tutte le lobby sono nocive all’interesse collettivo: le organizzazioni non-governative ambientaliste o le corporazioni dei mestieri, per fare solo due esempi, possono anch’esse costituirsi in gruppi d’interesse per far valere le loro rivendicazioni presso parlamenti e governi. Il problema è che le lobby più potenti sono afferenti alle multinazionali e alle banche. Perché sono dannose?
In primo luogo, perché le lobby del grande capitale sono numerosissime: si stima che ben 15.000 lobbisti ronzino attorno alla Commissione e al Parlamento europeo a Bruxelles e a Strasburgo(22): solo meno del due per cento lavorano per ONG e sindacati(23).
In secondo luogo, perché le lobby sono molto efficaci. Esse riescono ad esercitare la loro influenza presso i politici grazie a diverse strategie: finanziando viaggi, università e fondazioni; offrendo regali, cene e soggiorni in resort di lusso; oppure minacciando di sostenere partiti politici avversari.
In terzo luogo, perché politici e lobbisti si amalgamano sia da un punto di vista sociologico che professionale. Do un solo dato: il 30% dei parlamentari europei e il 50% dei commissari europei, alla fine del loro mandato, diventano lobbisti. E molti di loro erano lobbisti, banchieri o consiglieri finanziari e industriali prima di entrare in politica. Per designare tale fenomeno si parla di «porte girevoli».
In quarto ed ultimo luogo, perché le lobby più potenti sono dotate di avvocati e giuristi che scrivono le leggi al posto dei politici, ai quali non resta che votarle in Parlamento.
Il ruolo delle istituzioni internazionali
Vi sono tre istituzioni internazionali preposte ad espandere e mantenere la globalizzazione neoliberista nel mondo intero. Mi riferisco al Fondo Monetario Internazionale (FMI), alla Banca Mondiale (BM) e all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). I primi due organismi sono stati fondati nel 1945 dopo gli accordi di Bretton Woods, mentre il terzo fu fondato nel 1995 per rimpiazzare l’Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio (o GATT), fondato nel 1947.
Il FMI, che Keynes immaginava come un fondo per la cooperazione fra Paesi in tempi di crisi, divenne di fatto una banca per mantenere le nazioni povere sotto il giogo del debito. Basato a Washington e composto di 188 Paesi – fra i quali i Paesi europei e gli USA hanno il potere di veto –, esso si definisce come un organo di regolazione del sistema monetario internazionale con l’obiettivo ufficiale di aiutare i Paesi in crisi finanziaria. Un Paese in crisi è un Paese che importa più di quanto esporta, che ha finito le riserve di dollari o di euro, e che non riesce a farsi prestare fondi da nessun attore privato internazionale. Ma i prestiti ai Paesi in difficoltà si effettuano solo a certe condizioni, ovvero se essi sono disposti a:
• riconfigurare le priorità economiche secondo i consigli degli esperti del FMI;
• ridurre le spese dello Stato attraverso la privatizzazione delle imprese e dei servizi pubblici, nonché attraverso la decurtazione degli stipendi dei funzionari;
•aumentare le imposte alla classe media e alla classe popolare;
• aprire le frontiere del Paese al commercio internazionale.
La BM possiede più o meno gli stessi obiettivi e la stessa logica del FMI. La differenza principale è che la presidenza di quest’ultimo è di nomina europea, mentre quella della BM è di nomina americana. Timorosi che il «Terzo mondo» diventasse socialista, i Paesi del Nord crearono queste istituzioni per gestire le politiche pubbliche di quelli del Sud(24). I dirigenti delle istituzioni in questione dicono ufficialmente di voler aiutare i Paesi in via di sviluppo a uscire dalla spirale del debito, ma le loro azioni ottengono l’effetto contrario.
In un testo sul Mali, il giurista Ousmane Oumarou Sidibé racconta come, dopo aver preteso il licenziamento di un gran numero d’insegnanti, i finanziatori internazionali abbiano in seguito subordinato il loro aiuto al miglioramento dei tassi di scolarità del Paese. Sicché il Mali (come altri Paesi africani) si è visto costretto ad assumere in fretta e furia una massa d’insegnanti a tempo determinato, sotto-qualificati e sotto-pagati, e ad aumentare i costi scolastici, con il risultato di abbassare la qualità pedagogica e d’impedire l’accesso ai più poveri(25). Prima ti faccio un prestito a condizione che sfasci i tuoi servizi pubblici; poi condiziono il mio nuovo prestito alla qualità di quegli stessi servizi che un attimo fa ti ho intimato di sfasciare. In Niger, secondo le stesse logiche perverse, i trasporti pubblici sono stati privatizzati, con la conseguenza che adesso, a causa delle logiche imprenditoriali che li reggono, i mezzi non circolano sempre dappertutto: inutile dire che carestie e morte devastano il Paese.
Quando intervengono, FMI e BM impongono ai Paesi del Sud anche il tipo di coltivazioni che gli agricoltori devono prediligere: in genere gli si impone di produrre merci non commestibili o non essenziali, che servono all’esportazione verso il Nord. L’argomento degli aguzzini neoliberisti è che con i ricavi delle esportazioni, i Paesi del Sud – che in realtà potrebbero essere autonomi da tutti i punti di vista – potranno poi comprare i beni di prima necessità dai Paesi ricchi. In parole povere, è come se andaste in banca a chiedere un prestito e questa ve l’accordasse a condizione di entrare nella vostra vita privata, dicendovi dove e come procurarvi i soldi, nutrirvi, vestirvi, divertirvi, curarvi, eccetera. Ma invece di mettervi in grado di ripagare il debito, è come se vi rendesse schiavi dei suoi mutui per poter sopravvivere.
L’OMC, infine, non è un’istituzione meno sadica delle precedenti. Si tratta di un’organizzazione internazionale basata a Ginevra che ha come scopo di supervisionare gli accordi commerciali tra gli stati membri. Questi ammontano a 164, a cui se ne aggiungono 22 come osservatori. Tale entità sopra-nazionale controlla il 95% del commercio mondiale e ha come obiettivo esplicito l’abolizione o la riduzione delle barriere tariffarie – ovverosia quello di realizzare e perpetuare uno dei capisaldi del regime neoliberista: il libero scambio. L’OMC prevede misure ritorsive contro i Paesi che non rispettano le decisioni comuni o che prendono unilateralmente decisioni lesive per certi Paesi sfavoriti. Il problema è che i Paesi del Nord hanno una potenza di fuoco economica e giuridica che gli permette di ignorare allegramente eventuali misure ritorsive provenienti dai Paesi del Sud. Non solo, ma l’OMC è un’organizzazione indifferente alle violazioni dei diritti umani universali: Paesi come la Cina o come l’Arabia Saudita possono perfettamente godere dei vantaggi della partecipazione a quest’entità intergovernativa, sebbene siano dittature che sfruttano i lavoratori e che posseggono una giustizia spietata ed arbitraria.
Il ruolo delle agenzie di rating
Fitch Ratings, Standard & Poor’s, Moody’s Investor Service… questi nomi esotici vi dicono niente? Li avete probabilmente sentiti nominare quando si parla di spread (26) o di crisi del 2008. Si tratta di aziende che si occupano di assegnare delle valutazioni sulla solvibilità di imprese e Stati che emettono titoli sul mercato finanziario. La loro scala di valori è in genere espressa attraverso delle lettere (per esempio AAA, BB, D, ecc.). Questi simboli indicano la capacità di un ente statale o imprenditoriale a ripagare i suoi debiti. L’obiettivo ufficiale delle agenzie di rating è d’aumentare l’efficienza dei mercati finanziari. Gli investitori e gli speculatori si affidano a questi barometri per decidere quali titoli comprare, quando e in che misura. Ma c’è un piccolo problema: le agenzie non sono esenti da conflitti d’interessi con gli attori del mercato, dato che sono possedute dai grandi gruppi bancari.
Facciamo un esempio. Una settimana prima del fallimento del famoso istituto di credito Lehman Brothers – che scatenò la crisi del 2008 –, le agenzie di rating assegnavano valutazioni molto positive alle obbligazioni garantite dai mutui «subprime» (quelli che fecero scoppiare la bolla). Ma che senso ha nascondere l’insolvibilità di un attore finanziario, allorché questo è sul punto di fallire in ogni caso? Sarebbe ingenuo pensare che non cambia niente. Perché quelli che sanno che una banca, un istituto o uno Stato stanno per fallire, hanno il tempo di vendere le proprie azioni, di mettersi al sicuro e persino di speculare. Mentre tutti quelli che non hanno l’informazione prima che diventi pubblica sono le vittime che perderanno i propri risparmi e i propri investimenti. Capite bene che in un mondo – quello della finanza – in cui l’informazione in tempo reale e in flusso continuo è tutto, chi arriva ultimo rischia di perderci parecchio. Ora, finché tocca a qualche miliardario, tanto peggio per lui; purtroppo però la maggior parte delle crisi vengono pagate da piccoli investitori, tipo lavoratori o anziani in pensione che sperano d’integrare i loro redditi insufficienti con dei fondi speculativi. Nella maggior parte dei casi, queste persone vengono male informate o chiaramente manipolate dai loro consiglieri finanziari.
E non è tutto. Le agenzie di rating sono detestabili per qualcosa di ancor più grave, che riguarda la valutazione della tenuta degli Stati. Innumerevoli sono i casi in cui questi organismi abusivi si sono ritrovati a dare valutazioni più o meno positive a seconda delle politiche portate avanti dai governi. In altre parole, le agenzie di rating – entità private “puramente” economiche – fanno in realtà politica attraverso il ricatto. Se un governo privatizza un servizio pubblico o precarizza i dipendenti stravolgendo il diritto del lavoro, le agenzie fanno fioccare buoni voti. Se invece un governo rinazionalizza un bene pubblico o se alza le tasse ai più ricchi, le agenzie fanno fioccare voti negativi. È lecito domandare a questo punto: che importa? Perché i governi non smettono semplicemente di dare conto a questi enti illegittimi? Il problema è che l’opinione (non richiesta) di queste agenzie conta molto per gli speculatori: se Fitch declassa l’Italia da BBB+ a BBB, lo spread aumenta e per ciò stesso si accrescono gli interessi sul debito che l’Italia deve pagare agli investitori(27). Ecco perché i politici si ritrovano, anche nolenti, a dover dare conto a queste agenzie – più che ignorarle, andrebbero semplicemente soppresse, non prima però di aver ripudiato la gran parte del debito pubblico alla luce della sua illegittimità, come ha fatto l’Ecuador del presidente Correa nel 2008(28).
Il ruolo delle università e del premio Nobel per l’economia
Negli anni ’60 e ’70, la maggior parte degli intellettuali erano di sinistra e sostenevano i movimenti sociali, mentre la maggior parte degli economisti erano keynesiani. Hayek lo sapeva bene: senza la conquista dell’intellighenzia, le controriforme capitaliste non avevano alcuna chance di essere realizzate: «Il fine, diceva, è di assicurare il nostro sostegno alle migliori menti per formulare un programma che abbia un’opportunità d’essere accettato in maniera generale». Poco a poco, attraverso il finanziamento privato a università, think tank e media, i capitalisti riuscirono ad ottenere l’adesione ideologica delle “élite” intellettuali al neoliberismo.
Ma non bastava, serviva di più. Per esempio un premio autorevole e incontestabile. Il Nobel faceva al caso dei neoliberisti. Si tratta di un’onorificenza di valore mondiale attribuita ogni anno a persone viventi che si sono distinte nei diversi campi dello scibile, apportando benefici all’umanità. Il famoso premio istituito dall’inventore della dinamite era originariamente dedicato alla fisica, alla chimica, alla medicina, alla letteratura e alla pace. Nel 1968 la Banca di Svezia aggiunse alla lista il premio per l’economia, che dunque non è un premio Nobel ma un «premio della Banca di Svezia in memoria di Alfred Nobel». In un recente libro, due storici hanno illustrato la maniera in cui tale ricompensa sia servita da cauzione intellettuale per le teorie neoliberiste(29). L’80% dei premiati sono infatti americani e quasi il 40% del totale vengono dall’Università di Chicago (la stessa di Friedman). Capite bene come dare la massima onorificenza a questi ideologi abbia potuto giustificare, con un abusivo alone di scientificità, tutte le peggiori nefandezze degli ultimi quarant’anni.
Il ruolo dei media
L’egemonia culturale dei neoliberisti non sarebbe stata raggiunta senza il controllo dei media di massa. I quotidiani cartacei sono apparsi nel 1600 in Germania e in Francia per collezionare gli eventi riguardanti le grandi casate aristocratiche e raccontare le guerre in corso. Alla fine del 1700, i giornali hanno invece giocato, in occasione delle Rivoluzioni, un ruolo fondamentale nella diffusione delle idee anti-monarchiche. Per questa ragione, ben presto sono stati visti come il «quarto potere», preposto a controllare gli altri tre: legislativo, esecutivo e giudiziario. Oggi la carta stampata, le televisioni e le radio sono diventati i migliori alleati dei neoliberisti, che li utilizzano non solo per influenzare le opinioni politiche degli elettori prima delle elezioni e durante i mandati politici dei loro scagnozzi, ma anche per forgiare le menti dei cittadini in modo duraturo.
Tutti i principali giornali italiani sono posseduti o controllati da famiglie che hanno imperi in diversi settori d’attività (banche, immobili, risorse, ecc.): La Repubblica e La Stampa appartengono agli Agnelli, Il Giornale a Berlusconi, Libero ad Angelucci, Il Sole 24 ore a Confindustria, Il Messaggero a Caltagirone, l’Agenzia Giornalistica Italiana all’ENI, eccetera30. Quanto alle televisioni, si sa che la RAI è lottizzata dai partiti politici, mentre Mediaset appartiene a Berlusconi. Solo La7 e il Corriere della Sera appartengono ad un editore «puro», l’imprenditore multimilionario Cairo. In Francia, dove vivo, nove miliardari, fra cui Arnault, Bolloré, Lagardère e Niel, posseggono il 90% dei quotidiani, delle radio, delle TV, dei settimanali e dei siti d’informazione del Paese31. Idem negli USA, dove quindici miliardari posseggono tutti i media principali32.
Perché le “élite” economiche acquistano i mezzi di comunicazione? La risposta ingenua sarebbe: perché si tratta di un’impresa commerciale come le altre. Ma perché molti di loro hanno bisogno di fondi pubblici per finanziare i loro giornali? Domanda ancor più impertinente: perché investire in imprese che si ritrovano spesso in rosso? Bisogna sapere che i media sono l’unica attività nella quale i miliardari citati prima accettano di perdere soldi. Risposta ingenua: perché possedere un giornale è una questione di prestigio. O peggio: per responsabilità, mecenatismo o filantropia nei confronti di un’attività nobile come l’informazione. In realtà, dopo che un media viene acquistato da un miliardario, i giornalisti si vedono sistematicamente ridurre i fondi e gli strumenti necessari a condurre le inchieste. Il vero obiettivo delle “élite” è quello di sabotare gli organi d’informazione che acquistano e di usarli per fare propaganda. Dal loro punto di vista si tratta di un intelligente investimento. Possedere quotidiani, canali televisivi, radio e riviste permette loro almeno tre cose:
• salvaguardare i propri clienti inserzionisti. Gli scaffali delle librerie e i meandri di internet sono stracolmi di esempi di censura e di auto-censura giornalistica: se Atlantia o BMW finanziassero parte del vostro giornale attraverso i loro inserti pubblicitari, anche voi ci pensereste due volte prima di dare una notizia su uno scandalo che li riguardi33. Tra l’altro, la pubblicità bombarda gli occhi, le orecchie e il subconscio delle popolazioni ad ogni pausa radiotelevisiva o ad ogni stazione di autobus. Il suo obiettivo: accendere in noi desideri che non avremmo avuto senza di essa. Numerose pubblicazioni analizzano, con diverse prospettive, la capacità dei fautori della «società dei consumi» di creare nuovi bisogni dal nulla. Citerò solo La società dei consumi di Jean Baudrillard (Il Mulino, 2010), No Logo di Naomi Klein (BUR, 2010), Come si esce dalla società dei consumi di Serge Latouche (Bollati Boranghieri, 2011) e Neuromarketing di Martin Lindstrom (Apogeo Education, 2013);
• pilotare i politici attraverso i sondaggi. Gli istituti che li eseguono sono aziende private che svolgono le loro attività di ricerca su commessa di imprese, media o esponenti politici34. Negli ultimi anni, i grandi gruppi industriali si sono messi ad acquistare non solo i media, ma anche gli istituti di sondaggio(35). Il fine? Controllare l’opinione pubblica attraverso la sua misurazione. In questo caso l’operazione di manipolazione è raffinata: consiste nel dare l’impressione di seguire un metodo scientifico di osservazione per, in verità, creare una certa realtà sociale. L’uso sapiente delle cosiddette «profezie auto-realizzatrici» può infatti incoraggiare o rassegnare gli elettori a votare per un certo partito politico piuttosto che un altro, sovente in nome del «voto utile»(36);
• colonizzare il nostro immaginario.
La colonizzazione del nostro immaginario
Gli esperti di marketing e comunicazione assoldati dalle “élite” per diffondere l’ideologia neoliberista conoscono bene le scienze sociali e le usano contro di noi. Il loro obiettivo non è soltanto farci consumare di più o farci votare per il candidato che fa più comodo alle multinazionali. I media sono da decenni utilizzati per diffondere la morale capitalista. Sei elementi del loro discorso mi paiono fondamentali:
• valorizzare l’individualismo. L’egoismo e il narcisismo sono oggi incoraggiati dalla pubblicità, dai film, dai discorsi televisivi e dai social network. Certo l’individuo è e dovrebbe essere sacro, come attesta la Carta dei diritti umani. Ma non a discapito della collettività;
• valorizzare la competizione. I popoli di tutto il mondo sono stati convinti che il loro Paese debba essere «competitivo», per non soccombere alla «concorrenza internazionale»: perfino i cinesi sostengono che «la società è una giungla»(37). La legge del più forte viene vista come una fatalità o come un principio positivo, meritocratico, perché capace di selezionare i migliori e di relegare i peggiori nel dimenticatoio. Il desiderio che viene instillato nei più è di divenire imprenditori, di aprire una «start-up», di essere innovativi e spietati;
• valorizzare l’adattamento. Se la società umana è una giungla, allora come animali siamo costretti ad adattarci alle nicchie economiche, cercando d’innovare se siamo aspiranti imprenditori o imparando ad essere «flessibili» se siamo semplici vittime di un licenziamento;
• instillare il desiderio di ricchezza. Per rendere accettabili le disuguaglianze, bisogna rendere desiderabile la posizione di chi sta in alto. In Italia Berlusconi c’è riuscito con la TV, convincendo una larga parte della popolazione che non è necessario studiare per avere successo(38). In Francia Macron ha affermato testualmente: «C’è bisogno di giovani francesi che abbiano voglia di diventare miliardari»(39). Ovunque si celebrano i grandi imprenditori per i posti di lavoro che creano con le loro attività; si dimentica di dire che il loro capitale è frutto soprattutto di evasione fiscale, dumping e sovvenzioni statali. Il neoliberismo è, per questo, un pensiero di destra – sin dalla sua nascita in occasione della Costituente francese del 1789, la Destra è sempre stata per la difesa dello status quo, fatto di disuguaglianze che vengono naturalizzate, ovvero considerate inevitabili perché genetiche o di origine divina. La Sinistra, nata con i filosofi illuministi e rinnovata con i sociologi novecenteschi, afferma invece che le disuguaglianze hanno origini storiche, sociali e culturali. E che quindi come tali possono essere combattute e modificate;
• valorizzazione dell’innovazione. Viviamo in un’epoca in cui l’obsolescenza programmata dei prodotti di consumo non produce un boycott disgustato e permanente da parte dei consumatori. Com’è possibile? Una parte della spiegazione viene dal valore che i politici, i media e gli imprenditori attribuiscono all’innovazione a tutti i costi. Nei discorsi dominanti, si dimentica di dire che cambiare non è un bene in sé, che spesso le innovazioni più importanti sono quelle sociali e non quelle tecnologiche (welfare, movimenti sociali), che talora le migliori soluzioni sono quelle del passato (si pensi al latte alla spina) e infine che spesso gli innovatori più importanti non sono là dove si crede (pochi conoscono le invenzioni «low tech» dei popoli africani o asiatici, mentre tutti si focalizzano sulla Silicon Valley);
• convincere che non c’è alternativa. La morale capitalista viene fatta passare come la più realistica, la più intelligente, come l’unica possibile. Famosa è la frase di Margaret Thatcher: «There is no alternative» (non c’è nessuna alternativa)(40).
Il crimine del nazismo ci aveva imposto di non mescolare più biologia e politica, eppure oggi il discorso dominante naturalizza costantemente i rapporti sociali. Il darwinismo dei neoliberisti spiega l’evoluzione secondo il solo prisma della competizione. In realtà, sia Darwin che le ricerche biologiche successive, hanno mostrato che la competizione è solo una delle regole di funzionamento degli ecosistemi. La cooperazione – che prende diverse forme, dalla simbiosi dei licheni al commensalismo degli acari – è altrettanto, se non più diffusa della competizione(41).
Il miglior modo per decolonizzare il nostro immaginario dall’immondizia concorrenziale consiste nel mettere in luce la cooperazione vigente in natura e nel mostrare le alternative esistenti presso gli umani. Se portassimo fino alle estreme conseguenze la legge del più forte, dovremmo lasciar perire i portatori di handicap. Per fortuna non solo non lo si fa, ma certi Paesi eccellono nell’urbanistica adatta ad includere i diversamente abili nelle attività di tutti i giorni. Inoltre, i popoli indigeni d’Amazzonia o d’Australia disconoscono la competizione e le disuguaglianze, poiché organizzati in società più cooperative, solidali ed egualitarie delle nostre. Perché non ispirarvisi?
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Note
1 Dedicato a Giorgio Cancila e Giovanni Griffo.
2 Pronuncia: Alàn Denò.
3 https://www.youtube.com/watch?v=qeMjaNxENY8.
4 Pronuncia: lessé fer.
5 Thomas Morel et François Ruffin, Vive la banqueroute ! Comment la France a réglé ses dettes, de Philippe le Bel au général de Gaulle, Fakir éditions, 2013.
6 https://www.ilsole24ore.com/art/cosi-2050-civilta-umana-collassera-il-climate-change-ACxDIjU.
7 Jacques Rancière, Il maestro ignorante, Mimesis, 2009.
8 Paulo Freire, Pedagogia degli oppressi, Edizioni Gruppo Abele, 2011.
9 Luc Boltanski e Ève Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, 2014.
10 Shock economy, L’ascesa del capitalismo dei disastri, Rizzoli, 2007.
11 http://www.farodiroma.it/gli-otto-clan-padroni-della-cina-gli-otto-immortali-alla-seconda-generazione-cinese-di-a-martinengo/.
12 Al riguardo, consiglio la lettura dei libri del sociologo Pierre Bourdieu.
13 https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/11/04/usa-i-ricchi-sostengono-la-forte-tassazione-proposta-dalla-ocasio-cortez-altro-che-flat-tax/5545851/?fbclid=IwAR3kUBnJbjTn_mKXYXGt3qyO0h1c57OK2wFyFXqObRv9KJqCaPeoITlE9t0.
14https://www.contretemps.eu/dumenil-capitalisme-managerial-neoliberalisme/?fbclid=IwAR02Ups7XjEhJD7rNKiUHS198M92vlt59YsITuNC8Fxecc43TBdd51Dx_Kc.
15 Pronuncia: Greguar Sciamaiù.
16 Grégoire Chamayou, La société ingouvernable. Une généalogie du libéralisme autoritaire, La fabrique, 2018.
17 Leonard Solomon Silk e David Vogel, Ethics and Profits. The Crisis of Confidence in American Business, Simon & Schuster, 1976.
18 https://www.corriere.it/foto-gallery/economia/16_gennaio_18/da-gates-zuckerberg-maggiori-62-plurimiliardari-posseggono-ricchezza-meta-piu-povera-mondo-a9ac8cc0-bdd5-11e5-b5c4-6241fae93341.shtml?refresh_ce-cp.
19 https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/01/16/rapporto-oxfam-otto-uomini-possiedono-la-stessa-ricchezza-di-36-miliardi-di-persone-nel-mondo/3319323/.
20 Il Partito Democratico americano non è mai stato socialista: persone come Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez sono fra i primi, in epoca recente, a portare avanti apertamente idee socialiste.
21 Mattia Diletti, I think tank. Le fabbriche delle idee in America e in Europa, Il Mulino, 2009.
22 https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/02/07/europarlamento-scacco-a-12mila-lobbisti-da-lunedi-lobbligo-di-pubblicare-incontri-si-parte-con-relatori-di-leggi-e-commissari/4948053/.
23https://www.ilfattoquotidiano.it/2014/04/11/europa-ununione-fondata-sulla-lobby-finanziaria/944771/.
24 David Harvey, «Neoliberalism as creative destruction», The Annals of the American Academy of Political and Social Science, 610, 2007.
25 Ousmane Oumarou Sidibé, «La Déliquescence de l’État : un accélérateur de la crise malienne ?», in Doulaye Konaté, Le Mali entre doutes et espoirs. Réflexions sur la Nation à l’épreuve de la crise du Nord, Edizioni Tombouctou, 2013.
26 Lo spread è il differenziale fra i buoni del tesoro tedeschi e quelli emessi da tutti gli altri paesi europei.
27 https://www.ilsole24ore.com/art/fitch-conferma-rating-dell-italia-bbb-ACqHf3d.
28 https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-La_Lezione_Dallamerica_Latina_Ripudio_Del_Debito_L%E2%80%99ecuador_%C3%A8_Riuscito_A_Imporsi_Sulla_Dittatura_Del_Capitale/5694_12383/.
29 https://bibliobs.nouvelobs.com/actualites/20161008.OBS9557/le-prix-nobel-d-economie-instrument-de-propagande-du-neoliberalisme.html.
30 https://it.wikipedia.org/wiki/Quotidiani_in_Italia.
31 https://www.bastamag.net/Le-pouvoir-d-influence-delirant-des-dix-milliardaires-qui-possedent-la-presse.
32 https://www.forbes.com/sites/katevinton/2016/06/01/these-15-billionaires-own-americas-news-media-companies/.
33 Giuseppe Altamore, I padroni delle notizie. Come la pubblicità occulta uccide l’informazione, Mondadori, 2006.
34 https://www.letture.org/usi-e-abusi-dei-sondaggi-politico-elettorali-in-italia-una-guida-per-giornalisti-politici-e-ricercatori-giovanni-di-franco/.
35 https://www.nouvelobs.com/medias/medias-pouvoirs/20080710.OBS2328/le-groupe-bollore-acquiert-la-totalite-de-l-institut-de-sondage-csa.html.
36 http://www.decrescitafelice.it/2013/02/non-fidatevi-dei-sondaggi-politici/.
37 https://www.youtube.com/watch?v=20tloOEsums.
38 https://www.youtube.com/watch?v=EpEP2q0bj-s.
39 https://www.nouvelobs.com/economie/20150107.OBS9413/macron-il-faut-des-jeunes-francais-qui-aient-envie-de-devenir-milliardaires.html.
40 https://it.wikipedia.org/wiki/There_Is_No_Alternative.
41 Pablo Servigne e Gauthier Chapelle, L’entraide, l’autre loi de la jungle, Les liens qui libèrent, 2017.
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https://www.asterios.it/catalogo/filosofia-della-decrescita
CON UNA LUNGA INTERVISTA A MAURIZIO PALLANTE
Filosofia della decrescita si compone di una ventina di capitoli dedicati a temi come la felicità, la pigrizia, il tempo, la meritocrazia, il viaggio e l’etica del lavoro. Uno spazio importante è dato all’educazione alla quale è dedicato il capitolo più lungo del libro. Segue all’epilogo un’intervista con Maurizio Pallante, uno degli intellettuali più attivi e noti nell’ambito della decrescita in Italia. Una piccola bibliografia in coda al libro offre ai lettori una serie di titoli per approfondire i temi trattati nel testo.
Cambiare i nostri obiettivi di vita, i nostri principî morali e i nostri comportamenti è il cuore della rivoluzione che, volenti o nolenti, siamo in procinto di intraprendere.
Il sistema economico, politico e culturale in cui viviamo si fonda sulla crescita dell’estrazione, della produzione, dei consumi e del PIL. Ma i limiti planetari ci ricordano che una crescita infinita in un mondo finito non è fisicamente possibile. Se da un lato le nostre biblioteche e librerie dispongono di numerosi testi che parlano della decrescita, dall’altro pochi autori sembrano essersi concentrati sull’aspetto filosofico di essa.
Questo libro propone una serie di spunti di riflessione per prepararsi a un mondo radicalmente diverso da quello cui siamo stati abituati. La riconfigurazione del nostro orizzonte filosofico costituisce il cuore della rivoluzione sociale a cui siamo destinati, tanto più dopo l’evento della pandemia da COVID-19. La fine delle risorse, i disastri ambientali e climatici, la crisi economica e le disuguaglianze sociali ci costringeranno infatti a ripensare non solo i nostri stili di vita, ma anche i nostri valori e desideri.