L’espressione transizione ecologica è entrata nel linguaggio pubblico, ma quelli che sono in alto hanno imposto la loro versione, i cui esiti non faranno che aggravare il collasso ecologico. Lo dimostrano la scandalosa inclusione del nucleare e del gas nei regolamenti europei sulla “tassonomia” (classificazione) degli investimenti ritenuti sostenibili dal punto di vista ambientale e quindi finanziabili, e il passo indietro sulla decarbonizzazione energetica con l’aggravarsi della guerra in Ucraina. Del resto, quando i movimenti dicono che viviamo da tempo una “mercificazione della natura” non usano una metafora: è in atto un vero progetto di trasformazione dei beni e dei servizi che la natura ci fornisce in asset finanziari. Avviene con la CO2 nella borsa valori di Londra, con l’acqua nella borsa di Chicago. Tuttavia esiste un altro modo di pensare. Scrive Paolo Cacciari: «Non è impresa facile sostituire l’avidità, l’individualismo, la competizione con la collaborazione, l’empatia, l’amore. Una vera transizione ecologica deve giungere a cambiare i modi di produzione e i modelli delle relazioni sociali, i rapporti con il vivente. Non si tratta di “guarire il pianeta”, ma di guarire il malanimo umano che lo sta distruggendo… La transizione ecologica è lo spazio dell’odierno conflitto sociale per realizzare una nuova società, liberata dai condizionamenti eteronomi del capitale, che apre la nuova era dell’ecocene…»
Anche in Italia il lemma “transizione ecologica” è entrato nel linguaggio pubblico corrente dopo il lancio nel 2019 del Green Deal della Commissione Europea e, grazie ai generosi fondi “a debito” della Next Generation Ue (una sorta di neo-keynesismo verde), il governo decaduto del banchiere Mario Draghi aveva battezzato un ministero nel suo nome. Vedremo se il nuovo governo delle destre vorrà mantenerlo. Le prime due tranche del Piano Nazionale denominato Rilancio e Resilienza sono già state stanziate dalla UE (24,9 di prefinanziamenti, più 21 miliardi finalizzati alla realizzazione di 55 “obiettivi”). In realtà si tratta di un coacervo disomogeneo di investimenti in opere e servizi solo in parte finalizzate all’ambiente naturale. E anche queste ultime sono molto discutibili, come, ad esempio, le mega-opere per l’alta velocità dei treni.
Come è stato scritto molto bene negli interventi di questa rubrica (Debate en torno a la Transición Ecológica), la “transizione ecologica” può essere declinata in modi molto diversi. In modo debole, come mitigazione dei sintomi della crisi ecologica e adattamento della vita delle persone alle condizioni peggiori, oppure in modo forte, come trasformazione profonda del sistema socioeconomico per raggiungere una “strong sustainability”.
La scelta dei governi italiani finora è stata – a malapena – la prima. Per usare le parole del ministro uscente alla Transizione ecologica (Roberto Cingolani), l’obiettivo è “trovare un compromesso tra le istanze diverse” della crescita economica e della sostenibilità ambientale attraverso soluzioni tecnologiche, comprese quelle più fantascientifiche come “il nucleare di nuova generazione” e la “cattura” dell’anidride carbonica, la sua liquefazione e lo stoccaggio nei giacimenti dismessi di idrocarburi nel mare Adriatico. La Riviera romagnola offrirà ai turisti un bagno in un’acqua frizzante!
La guerra in Ucraina è combattuta dalle cancellerie degli Stati in conflitto anche attraverso le sanzioni economiche. Il gas russo è diventato così un’arma non convenzionale usata dalle due parti e non si capisce bene chi ne stia traendo più (s)vantaggio. Sicuramente, mezza Europa si è trovata senza (quasi) la sua principale fonte energetica, il metano. E ciò ha posto in secondo piano gli obiettivi della decarbonizzazione energetica (Parigi 2015, Glasgow 2021). Una manna per gli “inattivisti” (secondo la definizione data dal climatologo statunitense Michael Mann, in La nuova guerra del clima, 2021, a coloro che spingono per lasciare le cose come stanno) al servizio delle potenti lobby del carbone e del nucleare. Ne è la riprova la scandalosa inclusione del nucleare e del gas nei regolamenti europei sulla “tassonomia” (classificazione) degli investimenti ritenuti sostenibili dal punto di vista ambientale e quindi finanziabili. In Italia gli interessi fossili sono ben presenti con la compagnia ENI controllata dallo stato.
Ma c’è un modo ancora più insidioso e fraudolento di intendere la transizione ecologica attraverso la logica e gli strumenti del mercato. Quando si dice “mercificazione della natura” non si usa una metafora, non è un modo di dire qualsiasi, ma un vero progetto di trasformazione dei beni e dei servizi che la natura ci fornisce in asset finanziari. La procedura è questa: i) si individuano delle risorse naturali (foreste, fonti idriche, biodiversità, ecc.); ii) si stima il valore commerciale “intrinseco” degli stock di “capitale naturale” e dei relativi flussi di entrate generati dagli “ecosistem services”, comprendendo il loro valore “figurativo” come capacità di assorbimento della Co2 o di preservazione della biodiversità e dei vari cicli vitali rigenerativi; iii) si assicurano i diritti di sfruttamento e di gestione in forma privatistica (concessioni, acquisizioni, fondazioni patrimoniali, ecc.); iv) si creano delle società per azioni specializzate nella classe Natural Asset Companies (NACs) e le si quotano in Borsa nella categoria Intrinsic Exchange Group della New York Exchange; v) si collocano i loro titoli in veicoli finanziari primari e derivati e li si vendono ad investitori privati e istituzionali, compresi i fondi sovrani statali. L’operazione si è così conclusa. La natura viene incorporata nella finanza. Toccando il massimo della ipocrisia, nel nome della difesa tramite valorizzazione del patrimonio naturale, lo si privatizza e lo si mette sul mercato
In verità la stessa operazione sta avvenendo già da tempo con la CO2 nella borsa valori di Londra dove opera un fondo Exchange Traded Commodies specializzato in collocazione di titoli chiamato Spark Change CO2. In pratica, intermediari finanziari rastrellano autorizzazioni pubbliche all’emissioni di gas climalteranti ottenuti dalle imprese (tramite gli ETS, sistemi di compravendita delle emissioni acquisite con aste o tramite scambi tra imprese) e le rivendono incamerate (cartolarizzate) in titoli con relativi rendimenti. L’aria come l’acqua (nella borsa di Chicago) e ogni altro bene del creato sono stati catturati dal regime del capitale. “Tutto ciò che è vivo – ha scritto qui Joana Bregolat – è suscettibile di diventare un’opportunità da cui ottenere reddito sotto forma di interessi e rendite”. Un vero “colpo di genio”, lo ha definito John Bellamy Foster, capace di rilanciare un nuovo ciclo di espansione dei profitti e dell’accumulazione capitalista in un territorio pressoché illimitato dal valore potenziale stimato in 4 milioni di miliardi (4.000 trilioni) capace di generare un flusso di 125.000 miliardi all’anno, più di tutto il valore del Pil mondiale.
Questa è il tipo di “transizione” intentato dal “capitalismo verde” (“Reset Capitalism” propugnato a Davos) i cui esiti, temo, non faranno che aggravare il collasso ecologico.
Ma esiste un altro modo di pensare alla sostenibilità in termini di trasformazione radicale del sistema socioeconomico oggi prevalente. Una trasformazione profonda, completa, integrale che coinvolge anche il modo di essere e di pensare sé stessi nel rapporto con gli altri e con la natura. Una “conversione ecologica” – come la definiva Alex Langer, tra i fondatori del partito dei Verdi negli anni Ottanta – anche in senso culturale e spirituale. Un “cambio di mentalità”, come ha già scritto Victor Viñuales. L’ecologia è un’idea etica, un modo di pensare in relazione con ogni altro essere e cosa esistente sulla Terra, un orizzonte di senso e un sistema di valori. Difficile immaginare di riuscire a ristrutturare le basi economiche e i comportamenti umani senza che vi sia una contestuale presa di coscienza e condivisione di valori morali diversi da quelli oggi dominanti. Non è impresa facile sostituire l’avidità, l’individualismo, la competizione con la collaborazione, l’empatia, l’amore. Una vera transizione ecologica deve giungere a cambiare i modi di produzione e i modelli delle relazioni sociali, i rapporti con il vivente. Non si tratta di “guarire il pianeta” (non ha nulla che non vada bene), ma di guarire il malanimo umano che lo sta distruggendo. Si tratta di diminuire drasticamente l’impronta ecologica a cominciare da chi c’è l’ha più grande. Si tratta di lasciare i combustibili fossili sotto terra (Leave it in the ground!) e di lasciare alla libera espansione delle foreste e dei fiumi almeno metà della superficie terrestre (Half-Earth: Our Planet’s Fight for Life, come proposto dal biologo inglese Edward Osborne Wilson nel 2016). Si tratta di piantare mille miliardi di alberi – come suggerisce il botanico Stefano Mancuso – la metà di quelli che sono stati perduti negli ultimi due secoli. Si tratta di uscire dall’antropocentrismo occidentale e di approdare ad una qualche forma di ecocentrismo o di bioumanesimo o di ecosocialismo.
Nel concreto le politiche di una vera transizione ecologica dovrebbero essere basate su tecniche Natur Base Solution: riforestazione, generazione distribuita di energia da fonti rinnovabili, agroecologia, edifici passivi, filiere corte e tracciabili delle produzioni dei beni di consumo, mobilità dolce, città di quartieri e quartieri a dimensione di villaggio, case della salute e medicina di comunità, educazione parentale, welfare di prossimità… da una parte, e dall’altra: lotta agli sprechi, messa al bando della obsolescenza programmata, smilitarizzazione.
Così contestualizzata la transizione ecologica è lo spazio dell’odierno conflitto sociale per realizzare una nuova società, liberata dai condizionamenti eteronomi del capitale, che apre la nuova era dell’ecocene.