“Il mio cuore freme
sognando il non ancora esistente.
Dentro di me,
nell’attimo dell’adesso,
germoglia il sentimento per ogni essere umano.
È dall’oggi che nascerà un domani migliore.”
Željko Grgič, durante quella sera di inizio autunno, era intento a spostare la cenere nel caminetto con l’attizzatoio. Si sentiva anziano. Si guardava allo specchio e si ritrovava un viso incartapecorito, secco, calvo sulle tempie. Oramai non riusciva più nemmeno a muovere l’ascia per riempire le cassette di legna da ardere. Franc, il fabbro del paese, gli aveva appena portato la legna dietro compenso, come faceva di solito.
Guardando le foglie rosse di sommacco di fuori, pensò al susseguirsi delle stagioni e al tempo che gli stava sfuggendo, come se ogni giorno in più, per lui, fosse un regalo non previsto. Erano passati già trent’anni da quando era stato studente di Filosofia a Lubiana.
– Ah, – sospirò malinconico, – quella volta sì che era bella la vita!
All’università lo avevano sempre considerato il leader del gruppo studentesco. Per gli altri studenti era stato un fervente profeta, un futuro capopopolo.
Nessuno gli aveva mai negato l’ascolto. Dovunque si trovasse, aveva l’abitudine di mettere in piedi sorprendenti discussioni filosofiche.
Sì, bei tempi – concluse tra sé. E i suoi ricordi proseguirono, fino all’incidente accaduto qualche anno dopo la laurea.
Quel terribile incidente, – ripeteva adesso. Man mano i ricordi diventavano più chiari. Il braccio destro gli era rimasto incastrato sotto la ruota di un camion, quando, la brusca frenata fatta per evitare il bambino che stava attraversando la strada di corsa, l’aveva fatto volare dalla moto in aria per almeno dieci metri, e l’aveva catapultato di colpo sul selciato.
Da quel punto fermo della sua vita, Željko Grgič aveva deciso il ritiro permanente nella casetta di famiglia sul Carso. Una vecchia casa carsica: un piccolo orto, un arco d’entrata con la data di edificazione e i simboli dei raggi solari disegnati con lo scalpello, un pozzo di pietra al centro del cortile interno, una piccola stalla per gli animali. E lì era rimasto, senza più muoversi né parlare. La sua dimora era divenuta quel paesino sperduto, Gropada, vicino sia a Trieste sia alla Jugoslavia, lontano sia da Dio sia dagli uomini.
Aveva tirato a campare lavorando la terra, potando le viti, vendemmiando, allevando animali da cortile e cibandosi con le verdure dell’orto. In primavera e in estate apriva una piccola osmica. In quel periodo gli uomini del Carso venivano a Gropada per bere il suo vino, mangiare le uova delle sue galline, giocare a bocce nel cortile.
Per il mondo accademico lui era diventato un altro Željko.
Nessuno, in paese, sapeva che lui fosse un filosofo con tanto di laurea con lode, né che avesse studiato a Lubiana, scritto articoli e libri famosi. Nessuno sospettava dei suoi grandi desideri e progetti riguardo il futuro dell’umanità.
La sua vita aveva preso un’altra piega, apparente- mente più semplice. Però, in fondo, Željko era stato contento così: nella sua tana si sentiva al riparo dal frastuono della civiltà e dagli occhi indiscreti, riusciva a raccogliersi dentro se stesso, a parlarsi con il cuore pieno di pace. Aveva perdonato la vita che l’aveva cambiato nel corpo, perché Željko Grgič era rimasto sempre lo stesso uomo, come se i tempi della gioventù e l’ardore del pensiero in lui non si fossero mai spenti.
Nella sua minuscola mansarda aveva sistemato i Manoscritti economico filosofici di Karl Marx, Storia e coscienza di classe di Lukács e altri, molti altri libri di filosofia.
I propri scritti, invece, li aveva divisi e racchiusi in cartelline, di tanti colori quanti erano gli esplosivi pensieri che lo assalivano durante la notte.
Accanto alla macchina da scrivere aveva una vecchia poltrona, per stravaccarsi quando la sua anima decideva di volare alta e di astrarsi completamente dal mondo: allora, appoggiata una coperta sulle gambe, scriveva con la mano sinistra parole dettate dal silenzio della notte.
Lì, accanto alla poltrona, custodiva religiosamente la foto di Nadja. E vicino alla sua immagine ritratta teneva le sue lettere ingiallite, ordinate per data in una vecchia scatola da scarpe. Già, Nadja… era stata lei la custode della sua gioventù e delle sue visioni, la continuazione vivente del suo pensiero. Nadja… era come se non si fossero mai lasciati.
Se la ricordava benissimo: magrolina, con i capelli neri a caschetto, i grandi occhi verdi a mandorla, piena di grazia nel muoversi, gioiosa non appena lo vedeva comparire da lontano… era inconfondibile! Nadja… lo sguardo trasognato, gli occhi semichiusi tra la durezza della realtà e la leggerezza della fantasia. Quando parlava delle grandi utopie dell’uomo, era capace di immergersi nei discorsi in maniera così totale, da dimenticarsi completamente del resto del mondo.
In fondo si rassomigliavano: avevano studiato in- sieme, insieme avevano discusso, scritto, condiviso la passione ardente per la filosofia.
Sì, loro due erano stati in perfetta simbiosi, in particolare quando si era trattato di costruire con il pensiero delle prospettive future per l’essere umano. Si erano sentiti addosso un compito serio, una responsabilità, ed era questo il motivo che li aveva uniti.
“Forse,” pensò Željko Grgič “ci saremmo dovuti sposare subito, e continuare tutta la vita a discutere riguardo l’uomo”. “Bah, quello che è stato è stato,” concluse alla fine, pur sapendo bene di ingannare se stesso.
Nadja dopo la laurea era andata ad insegnare a Zagabria, e lì era rimasta per molti anni, diventando una nota docente di filosofia.
“Quanti ricordi…” bofonchiò sbadigliando, e guardò verso la finestra. L’acchiappasogni infilato sulla maniglia lo scosse dal flusso della mente, catturando il suo sguardo. Le penne di gufo attaccate al cerchio dondolavano appena appena. Un amico fotografo con il ghiribizzo di curiosare tra gli indiani Navajo, gliel’aveva spedito dal Nuovo Messico. Quel dono era giunto in una busta gialla di cellophane. Željko spesso lo fissava: “Che strano, – si domandava – un cerchio rotondo con le piume di rapace basta già a catturare i sogni?”
Gli piaceva l’idea che i suoi sogni fossero tutti compattati lì, dentro quel piccolo cerchio, che forse li aveva acchiappati per custodirli per sempre tra le sue maglie e non lasciare che scomparissero. Voleva credere che la sua vita interiore fosse rimasta lì dentro. Così pensava che nell’acchiappasogni ci fossero anche i suoi capelli neri, lunghi e imprigionati nella coda di cavallo, i suoi occhi verdi, la sua bocca carnosa. E il suo braccio destro, bloccato per sempre in mezzo ai fili. E infine Nadja, con il viso pieno di dolcezza.
Ogni sera, sotto l’acchiappasogni, andava a rileggere le sue lettere.
Nadja, che da tempo se n’era andata. E lui, che la sentiva ancora accanto a sé. Era una sensazione che non riusciva a spiegare, una specie di chiaroveggenza. Così leggeva e rileggeva le sue parole, per sentirla parlare, per averla di nuovo viva e vicina:
“Caro Željko, avevo tanta voglia di scriverti, e oggi l’ho fatto. Indovina dove sono?
Sono su di un’ isola bellissima, Korčula! Io l’ho battezzata da tempo ‘l’isola dei filosofi’. Vengo qui da qualche anno oramai, gli ultimi dieci giorni di agosto… e non per prendere il sole! E nemmeno per fare il bagno!
(Forse qualche tuffo mi scappa di farlo di tanto in tanto, sebbene la questione sia un’altra.)
Vengo qui a filosofeggiare. E… come vorrei che ci fossi anche tu!
Alla mattina ci sono delle conferenze alla casa della cultura, al pomeriggio le discussioni al cinema all’aperto.
Tu non mi crederai!
Eppure discutiamo sempre, sempre, in continuazione e dappertutto. Di mattina al caffè, mentre passeggiamo vicino ai torrioni. Alla sera, guardando il sole che tramonta nel canale di Pelješac.
Persino di notte confabuliamo imperterriti dalle finestre. Parliamo dell’essere umano, della società. C’è sempre qualcuno che ci zittisce dicendo che vuole dormire, e che, protestando, manda al diavolo i filosofi della scuola estiva.
Qui celebriamo Marx: è il filo rosso, il bandolo della matassa delle nostre idee… non credere però che sia quel Marx noioso e dogmatico che abbiamo studiato a Lubiana… no!, tutt’altro!, qui abbiamo scoperto… come posso spiegartelo?, un Marx interiore, creativo, un Marx che fa da segnavia all’umanità intera, per renderla consapevole della sua piaga purulenta: l’alienazione. Consideriamo soprattutto i Manoscritti economico filosofici del 1844. Te li ricordi? Te lo ricordi Marx quando diceva: ‘Il denaro, considerato un mezzo per fare di me un essere umano, è diventato la pulsione suprema, lo scopo unico, è diventato lo scopo in sé. Ha manifestazioni contraddittorie: maestro e schiavo, generoso e abietto, capriccioso…’
Ti sto iniziando ad annoiare?, no, sono sicura di no. Immaginati come se fossimo ancora a Lubiana, e con il pensiero sarai subito insieme a me. Sai? Tra noi ci chiamiamo i filosofi della nuova prassi.
Ecco, ancora una volta devo ritornare al tempo dei nostri studi. Mi chiederai che cosa intendiamo per prassi? Ebbene, pensiamo alla prassi come ad una struttura dell’essere individuale, qualcosa di intimo che fa parte dello spirito dell’uomo, una scintilla unica e irripetibile in mezzo ad innumerevoli scintille diverse. Se l’essere umano riuscirà ad essere fedele a se stesso, alla sua individualità, potrà far nascere l’attività creativa, e fare, così, del suo essere uomo e del suo essere sociale, una cosa unica e indivisibile.
L’uomo nuovo della prassi, potrebbe scrollarsi via per sempre l’alienazione, potrebbe tentare la strada verso la libertà.
Ah!, pensi che io qui a Korčula stia impazzendo?, o che forse il sole su quest’ isola batta in picchiata sulla testa dei filosofi tanto da farli ammattire?
Caro il mio Željko Grgič… caro, caro, caro… ti ho sempre voluto bene, lo sai!, non appena seppi del tuo incidente, ripromisi a me stessa che sarei stata io il tuo braccio destro. Avrei scritto qualcosa al posto tuo, qualcosa di importante… insomma, le cose che tu avresti voluto dire già a Lubiana. Ti conosco fin troppo bene: anche se sei così cocciuto, testardo, selvaggio, sai elevare pensieri alti, ed essere generoso fino a dimenticare te stesso.
Ti piacerebbe qui. Basta allontanarsi un po’ dalla città, che subito la natura inizia il suo canto. Il vento trasporta l’eco del verso degli uccelli dai boschi, i flutti del mare scrosciano arginando gli scogli bianchi, e insieme formano una musica soave, che invita al raccoglimento interiore. Sulle colline stanno maturando i fichi e i melograni. Solamente qualche calabrone, attirato dai colori dei fiori, rompe il silenzio nell’aria… Željko caro! Mi manchi!
Per quest’oggi termino qui. Altrimenti mi vince la nostalgia, e io non voglio cedere al pianto. (Mi reputo una donna coraggiosa.)
Ti mando una folgore di baci e d’affetto. Che voli veloce verso di te, Željko Grgič, insieme al profumo di libertà che si respira qui alla scuola di Korčula a pieni polmoni.
Tua Nadja”
***
Tanja, la figlia del fabbro che, dietro compenso, procurava a Željko Grgič la legna per il caminetto, incominciò a tamburellare con le nocche della mano alla sua porta di casa. Era una ragazza paffutella, gli occhi e i capelli scuri come suo padre Franc.
– Željko, posso entrare?
– Vieni Tanja.
– E te la posso fare una domanda?
– Sì, certo!
– Perché te ne stai tutto il giorno chiuso qui dentro?, sei davvero così stufo della vita?
– No, Tanja. Mi piace stare insieme ai ricordi. Con i miei ricordi non sono solo. è piena di fantasmi questa casetta lo sai?, di voci, di suoni, di gente ancora viva nel mio cuore.
– Ricordi?, bah!, qui a casa tua vedo solamente ri- tratti di Karl Marx. La tua macchina da scrivere è sbi- lenca, antiquata. Il tuo caminetto è sempre acceso, an- che se fuori c’è un caldo che spacca le pietre. Sai Željko, non te la prendere, mio padre è convinto che tu sia un po’ strambo.
– Vieni Tanja. Lo vedi questo cerchio rotondo?
– Cos’è?, non ho mai visto niente di simile! Che or- rore! Puah! Sono delle piume di gufo quelle che penzo- lano di sotto?
– Sì!, è un acchiappasogni. Qui dentro ci sono i miei ricordi, impigliati in queste minuscole reti.
– Ma dai!
– Non ci credi?
– Non lo so, no! Sai Željko, il mondo è tanto diverso a casa tua. Tu dici cose strane, non sempre ti capisco.
– Allora parliamo di te Tanja. Che mi racconti della tua vita invece?
– In città ho iniziato a frequentare una palestra. È un bel posto, una piccola comunità di gente che s’intende. Ci conosciamo tutti.
– E di cosa parlate?
– Discutiamo di che cosa mangiare per tonificare i muscoli, per esempio: albumi, petti di pollo, proteine in polvere, integratori vitaminici… Per noi la palestra è un luogo sacro, dove lottiamo per la nostra missione.
– Missione?, quale missione?
– La missione di avere un corpo più muscoloso, più potente!
– E perché volete avere un corpo così?
– Perché sì e basta!, non ti piace il nostro stile di vita?, che c’è?, mamma mia… hai fatto una faccia Željko!, sei sbiancato di colpo! Ti ho forse deluso?
– No Tanja, tu non c’entri.
– E chi c’entra allora?
– Sarebbe troppo lungo da spiegare, piccola. Troppo lungo. Non darti pensiero… Hai visto come sono cresciute le more nel bosco sopra la chiesa?, quest’anno sono dolci, ci farò la marmellata.
– Ancora una cosa Željko! Ho una novità da raccontarti: ho iniziato a lavorare. Si tratta di un contratto a termine, co.co.pro lo chiamano. Però resta il fatto che tutti noi, della palestra, lavoriamo con il co.co.pro. È normale oggidì.
– Normale?
– Željko! Uffa! Non si può proprio parlare con te! Perché ti stupisci sempre quando ti racconto la vita di fuori? Mi fai sentire una cretina rimbambita. Senti, adesso devo andare, è tardi. Dirò a mio padre di portarti altra legna in tempo, vedo che non ne hai quasi più. È ovvio: il tuo caminetto è sempre acceso!
– Grazie Tanja.
– Ciao Željko, me ne vado! Ti voglio bene lo stesso!
– Anch’io! Lo stesso!
Željko Grgič si alzò lentamente dalla poltrona. Fece i gradini ad uno ad uno e si infilò nella mansarda di sopra. Dopo aver parlato con Tanja si sentiva triste, con addosso una sensazione di fallimento universale. “Ohi, ohi, ohi!,” bofonchiò tra sé trascinando le parole, “che brutto mondo abbiamo lasciato ai nostri giovani!”
Aveva bisogno di leggere qualcosa che gli facesse tornare la speranza, e subito, prima di crollare completamente. Era deluso, sì, amareggiato. Però Tanja non c’entrava. Era una vittima. Avrebbero dovuto pensarci prima, gli adulti di questa terra. “Dove hanno sbagliato i filosofi dell’isola?,” – si chiese tra sé – “come è possibile una simile catastrofe morale?”
Cercò la scatola da scarpe sul tavolino e aprì in fretta una busta ingiallita. Sgranò gli occhi, lesse a bassa voce le parole scritte. Le voleva far risuonare come una musica dentro le sue orecchie stanche, voleva berle, mandarle giù come l’acqua fresca. Voleva ancora pensare che l’uomo potesse un giorno diventare umano. Voleva credere che ci fosse ancora un’ultima possibilità di salvezza.
– Nadja! – chiamò, – salvami ti prego! E aprì una busta ingiallita.
“Ciao Željko Grgič! Quest’anno è il 1968. Una grande rivolta è iniziata a Parigi, in maggio. Anche a Belgrado, nel quartiere di Novi Beograd, urla la voce degli studenti! Hanno presentato un programma politico d’azione: chiedono la soluzione del problema della disoccupazione, lamentano la crescita della burocrazia che impedisce l’autogestione, denunciano la borghesia rossa. Anche Zagabria si è accesa. Altri giovani sono in fermento, barricati nello Studentski centar a discutere sul futuro del genere umano. La ruota dell’economia gira – dicono, – e stritola i popoli.
Caro Željko, voglio trasmetterti la grande eu- foria che freme nell’aria dell’isola. I giovani del mondo si stanno rivoltando contro la società dei consumi, contro i falsi feticci del capitalismo, contro il lucro.
Noi di Korčula li stiamo appoggiando senza riserve, sebbene, pur restando insieme a loro in questo tsunami storico, vogliamo rimanere quelli che siamo sempre stati: dei filosofi con scopi educativi, che stanno operando nel rifiuto della divisione in blocchi dell’Europa. Dei liberi pensatori senza bandiera politica, che vogliono solamente il progresso e il benessere dell’umanità.
Detto questo… che effervescenza si respira, che splendida aria di ricerca della libertà!
È cambiata ogni cosa all’improvviso nei nostri ragazzi: il modo di vestire, di fare l’amore, di concepire la scuola. Hanno, per la prima volta nella storia, avuto il coraggio di urlare: “Basta!,” di strepitare: “Basta con l’autorità!”. Ribattono a perdifiato: “Vietato vietare!”
Già… alla scuola estiva dell’isola noi ce l’aspettavamo. Lo scorso anno il tema è stato: ‘Marx e la rivoluzione’. E adesso ogni cosa combacia: si contesta la sovrabbondanza dei beni di consumo, il vuoto della vita, il materialismo e l’atrofia delle idee. Il Vietnam è stata una battaglia dei ricchi contro i poveri, l’assassinio di un popolo in nome di un mondo manipolato che si presenta come libero.
Non se ne può più dell’ipocrisia borghese!, e non ne possono più nemmeno i giovani. Se ci pensi un attimo, Željko, è un momento storico meraviglioso e creativo! Gli studenti si comportano proprio come noi: vogliono discutere, confrontarsi in maniera non violenta, non accettare mai nulla per scontato, vagliare gli spigoli delle ideologie, partecipare alle decisioni che li riguardano. Nello stesso tempo conservano addosso la spensieratezza. Osservo quelli che sono qui, nell’isola dei filosofi: nuotano, ridono, suonano la chitarra… fermano i professori e li tempestano di domande. Marcuse è spesso sotto il loro assedio, però risponde con calma serafica a ognuno.
Quando sono seduti in cerchio, mi metto ad origliare la loro canzone preferita. Suona circa così: “Sai cos’è l’isola di Wight? È per noi, l’isola di chi, ha negli occhi il blu, della gioventù, di chi canta hippy, hippy, hippy…”
Sono me-ra-vi-glio-si!
L’essere umano del futuro sarà migliore. Sarà così, mio caro Željko, come hai sempre sognato!, me lo suggerisce il cuore. E tu?, come stai?, ce l’hai ancora quell’acchiappasogni sulla finestra? Guardaci bene dentro stasera, vedrai le stesse stelle che vedo io stanotte sopra il mare.
Beh, quando le vedrai esprimi un desiderio. Pensa intensamente che un giorno, da qualche parte, chissà dove, la tua Nadja possa rincontrarti e ridarti l’entusiasmo che hai lasciato a Lubiana.
Caro, anche per questa sera ti devo salutare. Il sole sta tramontando, i delfini giocano al largo della riva. Le nuvole sono rosa. Una leggera brez- za scuote le foglie delle palme lungo le stradine affollate. Tra poco ci sarà la danza delle spade, le lame d’argento si muoveranno leggere nell’aria e disegneranno nuove figure.
Un filosofo è appena passato per questa stradina. Ha sentenziato all’improvviso: “Se il mondo non avrà nulla in comune con l’umanismo utopico… tanto peggio per il mondo!” (È già abbastanza buio… perciò non ho capito chi fosse.)
Adesso buonanotte, tesoro mio! Che il mio abbraccio arrivi fino a te, oltre il mare.
Tua Nadja”
***
Željko passò la notte in affanno. La mattina si alzò di malavoglia. Spostò l’acchiappasogni, e, sbirciando fuori dalla finestra come al solito, vide che Franc era fermo di sotto, con una brenta carica di legna da ardere e un’altra piena di uva fragola.
– Željko!, – lo continuava a chiamare, – sei in casa?
– Arrivo, arrivo!, – gli rispose lui dalla finestra. E scese di corsa gli scalini.
– Franc? Come mai così presto?
– Non riuscivo a dormire.
– E per questo vieni a buttarmi giù dal letto?
– Dai fammi entrare Željko!, ti ho portato l’uva fragola!
Željko riempì la caffettiera e la pose sopra la cucina a legna.
– Ah, che tepore… – esclamò Franc sorridendo – già, lo stavo dimenticando: il tuo caminetto è sempre acceso!
– Come lo sai?
– Me lo ha spifferato Tanja!
Dopo qualche minuto il caffè gorgogliò. Il suo aroma invase l’intera stanza, mescolandosi all’odore agre dell’uva e al profumo di resina che buttava fuori la legna.
Željko porse a Franc una tazza fumante. Si mise in bocca un acino d’uva e mandò giù un sorso di caffè. Infine, alzandosi in piedi, sbirciò l’amico negli occhi e gli chiese:
– Dimmi.
– Cosa?
– Cosa ti preoccupa. Ti si legge in viso. Perché non dormi?
– Penso.
– Pensi troppo.
– Lo so. Non mi dò pace.
– È per il futuro di Tanja?
– No, no…
– E allora?
– È per quello che mi raccontava mio padre. Per quello che c’era una volta e per quello che c’è oggi. La vita, insomma.
– Ti capisco.
– Vuoi sapere cosa mi diceva mio padre?
Željko annuì con la testa senza rispondere nulla.
– Diceva che questi boschi una volta erano pieni di partigiani. Gente pronta a morire pur di difendere la dignità degli sloveni. Andare nel bosco era dura, – raccontava – si mangiava pane e castagne o quel poco che regalavano i contadini. Il presente e i suoi rischi non contavano nulla, perché gravissime erano le offese: non poter più parlare, pregare, amare, lavorare. La libertà per gli sloveni? Con il fascismo sparì di colpo. E il futuro? Rap- presentava una speranza che valeva centinaia di vite.
Željko si avvicinò a Franc ancor di più. Gli mise il braccio sinistro attorno alla spalla.
– Continua Franc! – Lo esortò.
– Mia madre fremeva quando mio padre andava a combattere nel bosco. Gli rinfacciava di essere un egoista. Gli urlava che avrebbe potuto essere ucciso dai fascisti, e allora a lei e noi figli – strepitava – chi ci avrebbe pensato? E, rincarando la dose, aggiungeva con voce disperata: “Sì! Morte al fascismo e libertà al popolo! Sì! Il popolo si scriverà da sé il proprio destino! Tu e il tuo socialismo! Vattene nel bosco e restaci pure! Mangiati le cavallette!, perché io, per te, non cucinerò mai più!”. Glielo gridava con rabbia, convinta com’era che il popo- lo per lui contasse più del loro matrimonio. Eppure, quel povero diavolo di mio padre non s’intendeva affatto di socialismo. Voleva difendere la sua gente e fine. Se ne stava per ore seduto vicino alla grande quercia, stringendo a sé la baionetta e le bombe a mano della Compagnia partigiana. Aveva l’anima triste di chi si sente veramente solo: l’unica donna della sua vita non lo capiva!
– Però, alle volte, anch’ io penso che le donne…
– Che cosa?
– Che siano diverse. Si svegliano pensando a che cosa preparare per pranzo. Vanno a dormire rimuginando se i loro figli sono ben coperti per la notte.
– E che c’è di male?
– Di male? Sono così attaccate a fare il necessario per la loro famiglia, che non riescono a capire le spinte più nobili dell’essere umano.
– Franc! – Lo sgridò Željko. – Smettila!, non hai capito proprio niente. Le donne portano la vita dei loro figli in grembo allo stesso modo in cui custodiscono i germogli della grande storia.
– Tu credi?
– Sì.
– Va bene, ti credo. Basta con questi discorsi, mi fan- no star male. Mangiamo l’uva fragola! È dolce quest’an- no, c’è stato molto sole.
– Mangiamo Franc, e non ti tormentare più. Adesso qui, di fronte a noi, l’uva fragola è il dono più meravi- glioso che abbiamo!
Nel tardo pomeriggio Franc se ne andò completa- mente rasserenato. L’uva gli aveva trasmesso allegria e dolcezza. E sfogarsi con quell’orso di Željko gli aveva fatto bene.
Intorno a lui notò il color fuoco delle foglie di som- macco. Anche i tigli erano cambiati, si erano fatti d’oro. Dal bosco veniva giù l’odore del muschio selvatico. Una castagna cadde ai suoi piedi con un piccolo tonfo. Franc la raccolse. Con delicatezza le tolse il riccio. Poi si mise il frutto in tasca, pensando che d’ora in avanti avrebbe ringraziato ogni piccolo dono che fosse giunto a lui dalla vita. Così, senza farsi troppe domande.
Željko invece era andato a cercare Nadja tra le lettere, e, come sempre, l’aveva ritrovata.
“Mio carissimo Željko, oggi, alla casa della cultura, il filosofo Danko Grlić ha tenuto una conferenza esemplare sul significato del socialismo e del comunismo.
E io ho pensato a noi due? Perché?, (mi chiederai).
Sai, mi ricordo così bene dei tuoi occhi. Erano impenetrabili, specialmente quando te ne rimane- vi seduto sul muretto alle sponde della Ljubljanica.
Ti avevo capito già allora: eri lì presente, sì, ma nello stesso tempo già non c’eri più. Eri volato via, nel regno del sovraumano e dell’universale, ti accingevi a gridare: “Vittoria!”. Eppure io ero lì, vicino a te. Avrei voluto gridarti: “Željko!, sono qui!”. Be’… adesso sai cosa ti dico? Che il filosofo Danko Grlić, oggi, mi ha fatto capire le ragioni del tuo comportamento di allora. Ha spiegato con la sua vociona austera da basso baritono: “Marx stabilisce che nel comunismo ci sia una fase inferiore e una superiore. Lenin ha definito in seguito il socialismo una fase di transizione, e il comunismo una meta finale…”
E allora?, (mi chiederai tu), qual è la conclu- sione del tuo maestro?
Allora, ti rispondo io, è come se certi filosofi fos- sero rimasti seduti accanto a te, ai bordi della Lju- bljanica, con lo sguardo perso nel fiume. Inerti a contemplare la visione della meta finale: la società umanista senza conflitti di potere e finalmente in pace, il luogo dove l’uomo, liberato dall’alienazio- ne, potrà realizzare la verità di se stesso. Come se avessero di colpo saltato il presente.
Željko mio!, adesso ti voglio fare una domanda: quando te ne stavi seduto a ridosso del fiume, ti eri accorto della mia presenza?, o eri già nel luogo dell’utopia realizzata? Invece io avrei voluto scuoterti, urlare, dirti che l’umanesimo era già presente quel giorno, proprio su quel muretto dove tu eri seduto, proprio nel nostro legame così forte. Percepii il tuo atteggiamento come un tradimento. Divenni triste. Sai Željko?, quello che ho da dirti stavolta non ti piacerà. Il filosofo Danko Grlić oggi mi ha aperto gli occhi: “Perché,” – dice lui – “in nome di questa iperfelice società futura comunista, dovremmo sacrificare l’uomo di oggi, la sua ricerca, i suoi dubbi e le sue contraddizioni? E perché, in nome di questa onnipotente astrazione, dovremmo degradare l’amore, farlo sentire un sentimento superato e di poca importanza rispetto all’utopia del futuro?”
Ah, ah… ti ho punto sul vivo. Non è così?
Quando infine ti scrollai con la mano dalla tua irremovibile posizione, mi rispondesti: “Nadja!, cos’hai?, non vorrai mica darmi un bacio? Noi fi- losofi non siamo fatti per queste cose… noi filosofi siamo nati per combattere e… vincere!”. Bravo! E adesso? Lo vedi che pasticcio hai combinato con il tuo ragionamento? Quel momento d’intimità non tornerà mai più, l’abbiamo perduto entrambi.
Nella casa di cultura, stamane, Grlić ha parlato per più di mezz’ora. Beveva un bicchier d’acqua ogni dieci minuti, fa molto caldo. Ha voluto puntualizzare che le tesi di Marx e di Lenin vanno ripensate dal punto di vista dell’oggi. Perciò, dai suoi insegnamenti, ho capito che il socialismo non può essere una pedana di lancio, che con una piegata di ginocchia ci scaraventa nel comunismo. No! Tutti gli elementi che lui chiama ‘costitutivi’ del socialismo e del comunismo, sono le modalità, il viaggio che ogni filosofo può intraprendere per realizzare la società umanista del futuro.
No, la storia non è un oplà! E non lo è neppure l’amore. Dobbiamo fare un passo alla volta, portandoci dietro le nostre contraddizioni, i conflitti, le pene, i malanni. Prendere coscienza dei grandi pensieri così come dei piccoli moti dell’animo umano. Perché qui a Korčula, quando l’individuale si fa collettivo, si apre una strada verso un futuro possibile.
Ma tu, Željko, nei miei ricordi, te ne stai ancora immobile sopra il muretto di fronte alla Ljubljanica, così che ogni cosa e persona attorno a te sembra essersene andata via, trasportata lontano, (forse rapita dal povodni mož, il dio delle acque?)
Nemmeno io, (confessalo!,) durante i tuoi voli pindarici dimoravo nella tua personale società umanista. Ho sofferto molto per questo, forse dalle mie parole adesso lo capirai. Però ti ho anche per- donato subito, senza lasciare in me nemmeno un granello di rancore. Perché tu sei fatto così Željko, – mi son detta, – col tuo ‘non esserci’, non hai mai voluto fare del male a nessuno.
Comunque sia hai un bel caratterino!, e io ti sopporto solo perché ti voglio bene! (Sappilo!)
Lo so, mi sono dilungata un po’ di più in questa lettera, perché ci tenevo a renderti partecipe della conferenza di stamane.
Adesso la bora soffia forte sull’isola. Si porta via i pensieri più scuri. Le stelle sembrano più grandi e vicine, come se volessero congiungersi con le sirene del mare.
Stasera vorrei essere capace di volare in alto come te, per dimenticare la nostalgia che mi af- fligge. Solo per un attimo però, quel tanto che mi basterebbe da potermi rasserenare. Perché in defi- nitiva sono una filosofa della nuova prassi, perciò, anche mentre volo come un aquilone, con un filo resto attaccata quaggiù, sulla terra. E sono felice di essere qui, proprio in questo periodo storico, e proprio in questo brulicante laboratorio del pen- siero circondato dal mare. Perché ho la sensazione che questo momento straordinario non si ripeterà mai più, in nessun luogo del pianeta.
Adesso sono stanca, me ne andrò a letto e cercherò di sognare cose belle: due aquiloni ad esempio, io e te nell’aria. Contento? Allora buon vento… amico mio! Arrivederci nei sogni!
Tua legatissima Nadja.”
***
La mattina seguente, nel paese di Gropada l’aria era nitida. Durante la notte si era scatenato un temporale, e al mattino la bora aveva spazzato gli ultimi brandelli di nubi.
Un uomo e una donna a braccetto bussarono ripetutamente alla porta di casa di Željko, come se li incalzasse una fretta tremenda.
Lui si era appena svegliato. Aveva finito di aprire le finestre della mansarda, e aveva lasciato che il sole e l’aria fresca dal bosco inondassero la casa. Il temporale gli aveva lasciato addosso una sensazione di gioia primitiva, una specie di euforia. “Che pioggia stanotte,” – sussurrava tra sé – “sembrava un concerto di violini nell’aria…”
Dopo qualche secondo si accorse dei colpi che venivano dalla porta di sotto. “Chi sarà a quest’ora del mattino?,” si chiese scendendo le scale.
Fece sentire il suo vocione da dentro:
– Chi è?
– Vogliamo parlare con lei signor Grgič!
– Solo un momento, – rispose Željko spiando i due dalla porta semiaperta, assicurata dalla catenella: l’uomo era tarchiato, scuro di capelli e con due baffi a punta. Accanto gli stava avvinghiata una donna prosperosa, con grandi seni e fianchi, capelli biondo cenere e occhi azzurrissimi.
Aprì la porta.
– Buongiorno signori!, in che modo posso aiutarvi?, avete forse smarrito la strada per ritornare a Trieste?
– Oh no! Noi non ci smarriamo mai, cosa dice!, – protestò energicamente la bionda.
– Allora cosa?
– Signor Grgič, noi siamo qui per aiutarla!
– Aiutare… me?
– Sì. – Riprese la donna con foga. In quell’attimo, squadrando Želiko dalla testa ai piedi, si accorse del suo braccio destro monco. – Signor Grgič!, – esclamò alzando il tono della voce – lei cosa ne pensa della situazione attuale? Guerre, carestie, violenza… non crede forse, come noi siamo fermamente convinti, che stia per venire la fine del mondo?
– E chi siete voi per dirlo?, cosa vi fa essere così sicu- ri?, siete forse dei sismologi o che altro?
– No! – Intervenne con forza il baffuto. Nel sentire il tono aggressivo dell’uomo Želiko s’inquietò. L’omino proseguì la conversazione, dilatando il torace e arricciandosi i baffetti all’insù. Infine dichiarò solennemente: – Noi siamo membri dell’associazione religiosa ‘Salviamo il mondo e gli animali’.
– Beh?, e con questo?, con tutto il rispetto per le vo- stre convinzioni… io che c’entro?
– C’entra signor Grgič, c’entra. – Sentenziò la donna tirandosi i capelli dietro le orecchie. E aggiunse: – Lei è in pericolo!
– In pericolo?, se ho sistemato per benino ogni lastra di pietra sopra la mia casa!, le mie lastre tengono con qualsiasi tempo, anche quando la bora scura si scatena furiosa giù dal monte Nanos. Non sono in pericolo!
– Che cosa dice!, ma… signor Grgič!,
– Željko Grgič.
– Sì, Željko Grgič. Intendevo… – proseguì la donna sempre più infervorata – che la sua anima è in pericolo!
– La mia anima?, e voi cosa ne sapete della mia anima?
– Solo gli appartenenti all’associazione: ‘Salviamo il mondo e gli animali’ si salveranno dalla catastrofe finale, – sentenziarono i due in coro – e quando questo mondo finirà, noi risorgeremo. Allora dimoreremo in un nuovo mondo, fatto di pace e d’amore.
– Sì, l’immagine mi piace… – replicò Željko Grgič, –però… però non credo che il Padre Eterno favorisca un gruppo di esseri umani anziché un altro. No, non lo credo proprio…
– Va bene, ho capito, – sibilò la donna con le mani ai fianchi, le labbra serrate e l’aria inviperita – per ora le lasciamo questi opuscoli. Li potrà meditare, farli suoi, e quando ripasseremo discuteremo con più calma. Noi ci teniamo alla sua salvezza!
– Passate pure – replicò Željko, sgranando gli occhi neri e stupito per l’insistenza della donna – troverete la porta chiusa.
– Arrivederci signor …
– Željko. Željko Grgič. Ve l’ho già detto!
– Arrivederci Željko Grgič, ritorneremo!
– Addio cari signori, invidio la vostra illusione. Sembra così perfetta, non fa una grinza. Vi è già predisposto il futuro del genere umano, come se la responsabilità per- sonale non rientrasse nei piani di Dio.
– Come ha detto?, responsabilità?
– Sì, ho detto proprio: responsabilità. Quella che da Dio è passata all’uomo… definitivamente. Sì, però a voi cosa importa?
Željko Grgič richiuse la porta con un gesto maldestro. Dopo quella discussione si sentiva pungere addosso il male di vivere. Chiuse le finestre, rifece il letto, spazzò la cucina. Sbucciò due patate e le mise sopra lo špargert. Infine afferrò il suo bastone di legno, uscì fuori nella landa e prese a camminare di buon passo. La ghiaia scricchiolava sotto le suole delle scarpe.
Arrivato al casello che segnava il vecchio confine tra Italia e Iugoslavia si fermò, e lì si sedette a riprendere fiato. Scrutò la casetta disabitata: era divenuta un rifugio per cinghiali e cuccioli di capriolo. Sospirò malinconico, si alzò con l’aiuto del bastone, riprese il passo. Finché, nei pressi di una quercia, si accasciò per terra, appoggiandosi con la schiena al tronco dell’albero. Si sentiva stanco: stanco di aver ascoltato quelle parole inutili, stanco degli esseri umani, dei loro deliri di onnipotenza, della loro mania di formare delle truppe di ogni bandiera… “Quei due hanno in testa una fantasia senza senso!,” mormorò arrabbiato, “un Dio che salva solo gli arruolati di un gruppo… che follia!”.
Il vento di bora scostò le foglie tra i rami. Un picchio rosso tamburellò. Sopra di lui le rondini continuavano a piroettare formando delle elissi nere nel cielo. Garrivano, si richiamavano, compatte in un’unica direzione di volo.
Stretto alla grande quercia con l’unico braccio, Željko Grgič si mise a pregare:
“Quando ammiro questo splendore, quando guardo in alto nel cielo, i miei dubbi si disfano, si sfilacciano come le nubi di stamattina. Vorrei che gli uomini fossero uguali, con le stesse possibilità di diventare liberi, come Tu li hai creati, pensati. Però… cosa puoi fare Tu!, se è la tua creatura a distruggere i propri fratelli e a distruggere se stessa?
Dio dell’immensità, ascoltami!, sento, mai come adesso, l’essere umano prigioniero in una morsa schizofrenica del pensiero. La sua visione buona lo aveva spinto verso l’ideazione di una società senza classi: lo Stato, estinguendosi, l’avrebbe fatto diventare libero e felice, l’avrebbe affratellato con il prossimo, l’avrebbe liberato dall’alienazione del lavoro meccanico. Un’altra invece, più potente e perversa, oggi lo lusinga e lo illude insieme: «Sarai potente, amato, se sarai ricco!, la guerra, la violenza, la schiavitù, sono sempre esistite, non farci caso. Tutto questo è… normale!».
Se adesso, nel Tuo silenzio, penso a Nadja e all’isola dei filosofi, mi viene un groppo alla gola. Era lì la prospettiva della Tua bellezza, tra i banchi della scuola estiva di Korčula. Era presente nei dibattiti, nei dialo- ghi, nell’entusiasmo creativo dei filosofi. In quegli esseri umani che sapevano ascoltare gli altri e aprirsi a prospettive diverse. In coloro che cambiavano idea dopo aver pranzato insieme. Era lì anche la libertà, nell’im- maginazione e nella forza visionaria che si accendeva ogni fine agosto. I praksisovci indicarono la luce alla fine del tunnel al mondo intero. Erano decisi a salvare l’uomo, ad indicargli la strada verso la sua umanizzazione. E così avrebbero salvato anche me, Željko Grgič, le speranze che hanno orientato la mia vita, la prospettiva del mio esistere, o Dio!”
Željko abbracciò la quercia ancora a lungo con la mano sinistra. Quando sentì che era giunto il momento, si staccò piano, le volse le spalle e riprese il suo cammino.
I pensieri sull’essere umano lo tormentavano. Eppure, davanti a lui, l’anima della natura gli mostrava le proprie leggi, scritte sopra ogni fiore e ogni zolla. Era una forza primigenia, che scaturiva in maniera così elementare e insieme così piena di forza, da stridere con la visione dell’umanità attuale, completamente svuotata di significati.
Passo dopo passo giunse allo stagno: libellule color indaco volavano leggere, ranocchie si muovevano a scatti tra le piante acquatiche. Una lucertola, immobile sopra una pietra, si scaldava al sole. Tirò il fiato. Quasi non voleva lasciar andare quell’immagine di vita vera, quella pace che sentiva cantare insieme al vento, che arpeggiava sulle foglie degli alberi e sui fili d’erba. Non voleva abbandonare il fieno, il prato, e nemmeno i fiori, che mandavano in alto i loro profumi per festeggiare la vita. La meraviglia della vita!
Un cane gli si accostò e si mise a annusargli le scarpe. Era un piccolo bastardino bianco e nero, con una grande macchia sull’occhio sinistro. Alzò il muso verso di lui e lo abbassò subito per farsi accarezzare.
Željko si sentì invadere dalla tenerezza. Pensò che era la voce di Dio, che l’aveva sentito, e che adesso lo consolava tramite quella creatura vagabonda. Sorrise e riprese il cammino verso il paese.
A Gropada il sole riluceva ancora sulle arcate delle case carsiche. Le ghirlande di fiori secchi sui portali facevano ripensare alla festa del solstizio. Dalla piccola chiesa di San Rocco giungeva un’eco armonica di canti devozionali.
Il bastardino lo accompagnò lungo il tratto di strada che ancora lo separava da casa. Želiko Grgič rientrò di buon umore, la marcia nel bosco lo aveva rinfrancato: le sue gambe adesso erano più leggere, la tensione provocata dalla discussione mattutina era sparita. Così, dopo aver diviso un pezzo di pane secco e le patate bollite con il cagnolino, salì le scale verso la mansarda.
– Il tuo nome d’ora in poi sarà: Sanje, ricordalo!
Benvenuto a casa di Željko Grgič, amico mio!
La bestiola abbaiò forte, aprendo la bocca a più non posso e scodinzolando con allegria.
Željko si mise a cercare tra le lettere di Nadja, oramai la sua era un’abitudine, un modo per ritrovare la parte di sé che aveva perduto nell’incidente. Ne scelse una molto sgualcita e l’aprì.
“Mio caro Željko, il sole anche oggi sta tramontando sopra Korčula. Oggi pomeriggio, al cinema all’aperto, due filosofi hanno litigato.
Un filosofo calvo, con una lunga barba, discuteva concitato appoggiando le vecchie tesi del marxismo ortodosso.
Un altro, di Zagabria, un tipetto biondo, magrolino, tutto pelle e ossa, parlava delle riflessioni di Marx sull’essere umano. Spiegava che la filosofia è un cammino, non un punto di arrivo. «La filosofia non è una civetta notturna», diceva, «è un usignolo che canta all’alba del mattino, e nella sua onda sonora prende forma il non ancora esistente». Inutile che io ti racconti come l’altro si sia acceso di rabbia e di paura, forse per il fatto di aver ascoltato un pensiero così diverso dal proprio.
Credo che il calvo abbia avuto torto, sia per le idee, sia per la sua propensione al litigio. Lo spi- rito della scuola estiva non è dividere le persone in gruppi e dichiarare chi sia il migliore. Non lo è mai stato.
Fare critica, per noi, non vuol dire necessariamente dire qualcosa di negativo, non vuol dire distruggere chi la pensa diversamente: vuol dire confronto, dialogo, apertura alla prospettiva dell’altro. Vuol dire mettere le idee insieme e costruire le fondamenta spirituali di una società che metta come finalità l’uomo. Quando noi, filosofi della nuova prassi, diciamo di voler fare ‘una critica spietata dell’intero esistente’, parliamo di apertura, dialogo, azione nella società reale, non vogliamo solo interpretare l’esistente, bensì agire su di esso, e da subito.
È una battaglia entusiasmante e nello stesso tempo durissima: ci sono ancora e ovunque marxisti ortodossi, che sostengono la teoria del materialismo storico e del rispecchiamento. Eppure, durante la conferenza dell’associazione Jugoslava per la filosofia di Bled, nel 1960, questi due pre- supposti del pensiero marxiano noi li avevamo oltre modo già superati. Invece loro continuano a pensare che la grande storia sia solamente lo svolgersi meccanico della lotta di classe, e che il pensiero dell’uomo sia un semplice riflesso della realtà. Oddio Željko! Sono così vecchi e dogmatici! Discutono come dei seguaci di Charles Robert Darwin, sempre attaccati all’evoluzione dialettica di Hegel. Nulla li scosta al di là delle loro colonne d’Ercole mentali!
Non considerano che, proprio grazie allo storico: «No!» di Tito a Stalin, in Jugoslavia abbiamo la possibilità di creare delle nuove idee in mezzo ai due blocchi della guerra fredda. Possiamo tentare di non fermarci di fronte al dogmatico e all’indiscutibile. (Pericolose teorie, perché ci hanno reso visibile il loro fallimento nel socialismo realizzato in Russia.)
Così, mentre gli ortodossi ci accusano di revisionismo, di mancata fedeltà al pensiero marxiano, noi abbiamo fatto già l’intero giro dell’isola dei filosofi fischiettando, abbiamo completato la nostra visione, decidendo che essa è vera solamente se è in potenza, e soprattutto se appartiene all’uomo. Solo così crediamo che abbia la forza di proiettarsi nel futuro.
Sì, siamo convinti che un giorno l’essere umano potrebbe essere libero: non più una forza lavoro da scambiare e da comprare, bensì padrone dei processi di produzione e seguace del proprio spirito creativo. Lo stato si estinguerà e i burocrati non avranno più la loro ragion d’essere. I lavoratori organizzeranno il lavoro dal basso, mirando a sviluppare lo spirito, il pensiero, la fratellanza. Insomma: lavoreranno di meno e avranno più tempo per pensare e per creare.
Noi qui, nell’orizzonte marino dell’isola, vediamo il giorno in cui l’uomo lascerà la sua pelle vecchia, malata, mercificata, per diventare padrone di se stesso e del proprio lavoro, che organizzerà per essere felice e per rendere felici le future generazioni.
Non è quello che hai sempre sperato anche tu, Željko caro? Penserai che io sia una strega… no!, è che ti conosco così bene… da indovinare sia i tuoi pensieri sia le tue lotte interiori. Però, oltre all’essere umano universale, cerca qualche volta, (se non ti chiedo troppo), di riservare qualche piccolo spazio di pensiero anche a me.
Lo sai che mi accontento di poco, di una carezza soffiata da lontano, e che questo poco per me è la vita.
Questa sera ti saluto con un grido: «La patria dei filosofi è la patria della libertà! Evviva l’isola dei filosofi!».
Sempre stretta al tuo cuore, Nadja.”
***
Željko si era addormentato con Sanje accoccolato sopra il suo stomaco. Fuori la bora soffiava e faceva sbattere le imposte delle finestre. I vetri tremavano e l’acchiappasogni dondolava leggero. Lui si rigirava nel letto di tanto in tanto. Sanje seguiva i movimenti del suo corpo cambiando posizione di continuo.
D’un tratto, però, si udì un forte grido provenire da Gropada. Željko aprì la finestra, e da lontano riconobbe la voce di Anika.
– Venite, presto! Aiutatemi! – urlava disperata – mio marito è impazzito!
La finestra di una casetta si spalancò. Una vecchia, con i capelli grigi avvolti nei bigodini e fermati da una retina, bofonchiò trascinando le parole, un po’ insonnolita e un po’ spaventata:
– Che succede? La bora ha tirato giù qualche lastra di pietra dai tetti?
– No, no, niente di quel che pensi, balorda di una vec- chia! – Le replicò la dirimpettaia con voce stridula. La donna, rossa di capelli e carica di lentiggini, si sporgeva fuori con il viso e tratteneva con le mani le imposte delle finestre perché non volassero via con gli sbuffi del vento.
– E allora che c’è?, eh?, dimmelo tu!, già che sei la lingua lunga del paese, Rossa!, – ribatté l’altra.
– Deve trattarsi di nuovo di Aljoša!
– Che ha combinato stavolta? Oh!, povera Anika!
– Scendiamo ad aiutarla!
– Sì, va bene, va bene… aspettami!
Aljoša come al solito aveva alzato un po’ il gomito, vagabondato ciarlando stupidaggini, e, alla fine, perché nessuno lo vedesse ubriaco fradicio, si era chiuso nel pollaio dell’agriturismo in fondo al paese. Le galline gli starnazzavano attorno. Le piume, volando nell’aria, ricadevano su di lui formando una pioggia confusa di colori. Aljoša, con gli occhi gonfi per la gran bevuta di Terrano, continuava a rotolarsi per terra e a blaterare frasi senza senso.
Finché la padrona di casa si era accorta del guaz- zabuglio che proveniva dal cortile, ed era andata a svegliare Anika perché venisse a riprendersi suo marito.
– Aljoša! – lo sgridò Anika appena arrivata.
– Anika, perdonami. Non ne posso più, domani mi licenzio, domani è finita!
– Che cosa dici? Sciagurato di un marito!
Mentre Aljoša ciarlava cose vane, una gallina gli becchettò l’orecchio. Lui alzò gli occhi supplicanti verso l’animale, come se sperasse che almeno la gallina potesse consolarlo. Le due paesane curiose, in ciabatte, vestaglia e bigodini, erano corse lì apposta per gustarsi la scenetta: il giorno dopo avrebbero avuto ciarle prelibate da spifferare alle comari del paese.
Željko si era precipitato nel pollaio facendosi luce con la torcia.
Trovò Anika seduta accanto ad Aljoša. La donna ini- ziò a piangere piano, nascondendo le lacrime tra i capel- li che le ricadevano sulla fronte, quasi fino agli occhi.
– Venite a casa mia Anika!, basta piangere, signora!
– Oh… Željko!, sei tu?, grazie! Mi aiuti a sollevarlo?
– Sì, per fortuna ho ancora un braccio buono! Oooh… issa! Oooh… issa! Oooh… issa!
– Così, dopo tre oooh… issa!, Željko si mise sulla spalla Aljoša, ridotto ad un peso morto con odor di vino.
Arrivato a casa lo stese sul suo letto. Anika si accostò al fuoco, infreddolita e impaurita. Non aveva voglia di parlare. Mormorò solamente:
– Che bello Željko!, tu hai il caminetto sempre acceso. La tua casa è piena di tepore. – Cambiando l’espressione del viso e scuotendo la testa, aggiunse:
– Lo vedi come è conciato il mio Aljoša? Che posso fare?
– Per adesso, la miglior cosa è lasciarlo dormire. – Le rispose Željko.
Anika buttò la testa all’indietro, abbassò le spalle e si accoccolò ancora di più vicino al fuoco. La donna fissava il lumicino rosso sul ceppo di legno, che luccicava e scoppiettava come se volesse parlare.
– Anika… – le chiese Željko – come vanno le cose con il lavoro di tuo marito?
– Un disastro, un vero disastro!
– Perché?
– Perché, mi chiedi? Perché gli fanno fare cose che lui non si sente moralmente di eseguire. Ecco tutto. Torna a casa depresso, come se avesse ucciso qualcuno. Le re- gole nella sua banca sono cambiate, persino i colleghi lo hanno isolato.
– Cosa è accaduto?
– Da quel che riesce a raccontarmi Aljoša, nelle pause tra i suoi sfoghi d’ira e mutismi, in banca adesso sono previste delle riunioni del personale ogni lunedì mattina. I capi istigano i dipendenti: devono persuadere i clienti a firmare operazioni finanziarie rischiose. Più sono rischiose e più i dipendenti ci guadagnano sulla percentuale. Un pensionato gli ha dato fiducia. In seguito la borsa è andata male, e così il vecchietto, dopo aver perso i risparmi di un’intera vita, si è suicidato buttandosi giù dal tetto di casa. Da allora Aljoša non è più lo stesso. Nemmeno i rapporti tra i colleghi si possono più chiamare ‘umani’. I più ruffiani guadagnano di più. Questo è chiaro. E dopo le loro scaltre persuasioni, si riuniscono di fronte alla macchinetta del caffè. Si sfogano, parlando degli acquisti fatti con i ricavati delle operazioni finanziarie proposte ai clienti. Possiedono favolose barche a vela da sfoggiare a Trieste, casette in Francia per passare i fine settimana, vestiti firmati, profumi costosi.
– E allora? A voi cosa importa? Non vi volete bene?
– Tu conosci Aljoša, è un tipo semplice, parsimonio- so. I guadagni dei suoi stipendi li abbiamo usati per pagare la casa e gli studi ai nostri figli. Però ai suoi colleghi sembra un marziano.
Aljoša borbottò nel sonno, blaterò una frase incomprensibile e si riaddormentò di colpo. Sanje lo leccò sulla punta del naso scodinzolando.
– Anika, ascoltami – sussurrò sottovoce Željko – domani digli di licenziarsi.
– Licenziarsi? Con i tempi che corrono? Sei impazzito anche tu?
– Se non farà ciò che gli impongono i capi, sarà sem- pre più isolato, guadagnerà sempre meno, e berrà sem- pre di più per dimenticare il tempo orribile trascorso sul lavoro. E poi? Pensi di andarlo ogni volta a riprendere tra le galline?
– Non so che fare. È diventato difficile prendere decisioni. Mantenere un equilibrio morale. In banca gli danno una pagella ogni tre mesi, come uno scolaretto. Sulla pagella ci sono scritti per filo e per segno i com- portamenti che deve seguire per meritarsi lo stipendio. Compreso il modo di vestire, ciò che può dire e quello che non può dire, dentro la banca e fuori la banca.
– E lui?, che ne pensa?
– Lui si inviperisce. Mi rinfaccia che voleva fare lo scultore del legno, lui! Fabbricare le statuine per il presepe. E gli uccellini di ceramica con il beccuccio per soffiarci dentro, come quelli che si vendono nel Prekmurje, e che i bambini usano per imitare il verso dei fringuelli!
– Calmati Anika!, scaldati ancora un po’ vicino al fuoco. Lo sai che i ceppi di legno del Carso parlano? Specialmente durante le dodici notti, da Natale all’Epifania, chiacchierano in continuazione. Sfrigolano, scoppiettano, mandano fischi lunghi e brevi. Bisogna solo ascoltarli, e loro ti raccontano lunghe storie.
– Sì?
– Sì Anika, sì. E non è vero che dobbiamo diventare schiavi. Dobbiamo solo saper dire no!
– No?
– Esattamente! No! Vedrai che Aljoša diventerà un bravissimo scultore del legno. Tanto bravo quanto sarà felice di lavorare con se stesso, con la sua fantasia!
– Ci penserò Željko.
– Sì. Adesso riposati sulla mia poltrona, se vuoi, devi essere esausta. E domani mattina telefona in banca e dì che tuo marito sta male. Digli pure che anche il mondo intero sta soffrendo insieme a lui.
– Che cosa?
– Mi hai sentito benissimo Anika.
Anika si voltò e fece lo sguardo serio. Passò la mano sul volto addormentato di Aljoša. E chiese:
– Željko… perché mi stai aiutando?
– Perché se non inizieremo ad aiutarci, non dico so- lamente io e te del paese, ma tutti noi, esseri umani, non saremo mai felici.
– Comunque… grazie Željko!, – mormorò Anika commossa. – Non dimenticherò le tue parole.
Sanje, senza volere, aveva spostato una busta dalla sca- tola da scarpe sulla scrivania, e la stava leccando.
– No Sanje!, non si mangia questa! – Lo rimproverò Željko. E uscì nella landa con la busta stretta nella mano sinistra.
Quell’avventura imprevista gli fece riconsiderare il significato dell’amicizia tra esseri umani. Si sentì sollevato, e pensò che niente succede per caso. Durante la notte aveva tenuto stretto a sé quel malcapitato di nome Aljoša. Aveva lasciato che il dolore gli scivolasse fuori, e si esaurisse completamente. Alla fine era diventato tutto più chiaro e comprensibile. Era stato come quando il temporale finisce il suo sfogo sopra i tetti del paese, e, il rumore dell’acqua piovana che scende fino ai pozzi di raccolta con il suo gocciolio trasforma in musica l’inquietudine precedente.
Adesso, persino il paesaggio del Carso che aveva davanti stava assumendo dei contorni più luminosi. Ora riusciva ad ammirare i boschi di pini verdi sotto il monte Kokoš, sfumati dalla nebbia mattutina. Dai fitti alberi di tiglio, che si erigevano poco lontano, si propagava il profumo della resina. Erano alberi maestosi, guerrieri. Sollevando i loro rami come spade scintillanti, rimandavano verso l’alto riflessi di luce. Il sole pulsava, si rifrangeva formando una stella luminosa, che si faceva avanti lampeggiando e facendosi largo tra le fronde. Scorse in lontananza anche la quercia. Il muschio le ricopriva il fianco a Sud. Solitaria si erigeva in mezzo al crocicchio di sentieri. Da lei fluiva un’onda di energia antica e rassicurante.
Nel cielo un astore restò sospeso nell’aria, libran- dosi sulle larghe ali. Dietro a lui, il gioco concluso della pioggia mattutina aveva formato una coppia di arcobaleni. Piccole sfere trasparenti di rugiada brillavano sopra gli iris. Stormi di rondoni si stavano alzando in volo sopra i campi gialli di fieno: avevano sempre più fretta di partire.
Željko decise di aprire proprio quella busta che aveva leccato Sanje. La lesse parola per parola.
“Caro Željko, vado subito al dunque, non serve che ti rincuori dicendoti ancora una volta che ti voglio bene, già lo sai. Invece ti parlerò di che cosa sia l’alienazione. A Lubiana abbiamo sempre pensato che essa consistesse nel frazionamento dell’uomo con se stesso, nell’homo duplex. Invece stamattina, alla casa della cultura, il filosofo Vranicki ha parlato per più di mezz’ora del più pericoloso frazionamento che con essa si compie tra uomo e uomo, e che fa sì che la relazione umana si sporchi con l’inimicizia di classe, l’odio razziale, la disputa nazionalista. Mentre lo ascoltavo, il morale mi è sceso nelle profondità degli abissi marini: credi che siamo ancora in tempo per reagire Željko mio?
Vranicki vede il nocciolo duro dell’alienazione nella materializzazione dell’uomo, che è entrato a far parte del processo attuale del lavoro al pari di un oggetto. La solitudine, la fretta, la competizione cinica, lo stanno dirigendo verso uno scenario di disperazione. Tu mi chiederai: cosa possiamo pensare di fare per salvare l’uomo? Ti rispondo: credo che dovremmo fare una scelta.
O accetteremo il nuovo capitalismo e i suoi nuovi tecnocrati ben ammaestrati, o dovremmo organizzare, fin da subito e con le nostre forze, una società diversa.
Ma c’è un altro demone!, avverte Vranicki. Ecco che arriva, ahimè, su questo palcoscenico ciarlatano, la schiera degli psicologi americani! Arrivano come l’esercito della salvezza, per curare il malessere causato dall’alienazione. (Sono convinta che non ci possa essere nulla di più perverso!).
La risposta del filosofo? Eccola: «Come può servire la psicologia, – afferma Vranicki – quando il problema dell’alienazione non è un problema dell’uomo, ma un problema storico?». (Aggiungerei le parole di Fromm: «Mens sana in sana societate!»).
Eccoci qui. Ancorati alla mistificazione del potere. Che fatica pensare con tutta questa spaz- zatura che ci tirano addosso per confonderci!
Io ti chiedo Željko: «Come può essere felice la creatura umana, che è nata libera e creativa, quando viene introdotta come un ingranaggio in un meccanismo ormai consolidato?, quando viene lusingata con l’idea che il solo soddisfacimento dei bisogni materiali la condurrà alla felicità?».
Tutta la società attuale – ha detto stamane Vranicki – è impostata su un rapporto di compravendita. Mio Dio!, – ho pensato, – l’uomo si è materializzato, è diventato disumano! Perciò adesso noi, i filosofi della nuova prassi, siamo perfettamente convinti che l’alienazione sia il problema centrale da affrontare.
Mi piacerebbe sapere cosa ne pensi tu, caro amico. (Di sicuro la penserai come me.)
L’unica soluzione che abbiamo davanti è l’autogestione, l’eliminazione dei rapporti gerarchici che impediscono al lavoratore di partecipare all’organizzazione del lavoro, di pensare ad un’economia sociale, che estingua la povertà. È questa la ‘conditio sine qua non’ per risolvere il problema dell’uomo contemporaneo.
La strada è difficile, io e te vediamo chiaro, ma gli altri?
Mi è rimasta impressa una frase di Marx, quando diceva che lo stregone ha evocato forze che non riesce più a domare. È proprio così adesso, la sua profezia si è avverata. Ovunque nel mondo scatu- riscono le conseguenze nefaste dell’avidità. Eccetto qui, a Korčula, dove i filosofi continuano imperterriti a tirare fuori le contraddizioni umane, i suoi non sensi, a cercare di capire dove sta la verità e dove, invece, stanno i paradossi.
Sì, d’accordo, ho parlato troppo, la lezione stamattina di Vranicki è stata coinvolgente, però mi ha affaticato. E la conclusione è che, adesso, mi sento una pesante responsabilità schiacciarmi il petto.
Oggi mi manchi in maniera particolare, caro il mio Željko. Tu sei il mio specchio, e io il tuo. Alle volte mi chiedo come faccia tu a guadagnarti da vivere. Laggiù, nel Carso.
Immagino che tu sia diventato un agricoltore, un poeta, un uomo solitario, (sebbene interiormente libero). Anche se non posso averne la conferma, sento che è così. Ti ho sognato ieri che tenevi una vanga nel braccio sinistro.
Adesso me ne vado a dormire. Prima però vo- glio chiederti una cosa, e tu rispondimi da lon- tano, con il pensiero. Lo sai che io ti sentirò: “È vero che fai l’agricoltore?, o è solamente una mia fantasia?”
Ti voglio tanto bene. Il tuo braccio destro, Nadja.”
***
Un giovane di nome Taamir da qualche mese abitava nella casa di accoglienza “Malala Yousafzai”, sul Carso vicino a Fernetti. Era un giovane magrebino di Fès, con occhi scuri e capelli neri riccioluti.
Proprio durante quella mattinata d’autunno, Taamir aveva una gran voglia di camminare e camminare, per dimenticare ciò che doveva essere dimenticato, e ricordare ciò che doveva essere ricordato. Voleva ricordare la sua Fès, perciò si sforzava di immaginare, di annusare, di toccare con la fantasia: i profumi dei suq dai quali aleggiavano i profumi e i colori delle spezie: il rosso della paprika, il beige del cumino, il giallo della curcuma, il verde dei semi d’anice… e ancora le donne di Fès… così belle!, riusciva ad immaginarle adornate nei loro colorati Kaftan di seta, la pelle resa liscia e profumata dai bagni turchi, gli occhi luminosi baciati dal calore del sole. Ah!, quanto sole a Fès! A Taamir quel sole aveva scaldato l’anima, lo aveva sempre riempito del desiderio d’amare…
Però nel suo petto e in gola erano inchiodate anche altre visioni, groppi duri che non si volevano sciogliere, e che facevano ancora male. Quanto avrebbe voluto cancellarle! Tutte!, dalla prima all’ultima… popolavano le sue notti come incubi, da quando aveva iniziato il lungo viaggio che l’aveva fatto arrivare a Trieste e infine alla casa di accoglienza “Malala Yousafzai”: la morte improvvisa di suo padre Nabil a Fès, i suoi compagni affogati durante la traversata a pochi metri dalla spiaggia di Lampedusa, i soldi che aveva dovuto racimolare per comprarsi il permesso di soggiorno dalla malavita napoletana, le monetine che gli avevano gettato con disprezzo in testa ogni volta che aveva tentato di guadagnarsi da vivere. Come lavavetri, vendendo souvenir di fronte ai supermercati, raccogliendo pomodori insieme agli africani, portando la spesa a casa delle vecchiette.
Questi ricordi erano pericolosi, con la loro forza avrebbero potuto ucciderlo dal dolore. Taamir cercava di tenerli chiusi in fondo all’anima, come se dovesse sempre spingere un pallone gonfiato con entrambe le mani sott’acqua. Essi però rimbalzavano veloci sopra di lui con un guizzo, e, risorgendo dall’inferno dello spirito, gli graffiavano le ferite che inutilmente aveva cercato di far cicatrizzare. Insulti, pedate, sgambetti, sassate, proposte oscene nelle stazioni. “Ecco,” si era chiesto “è questo il paese dei Bengodi?, il sogno europeo che mi ha fatto partire pieno di entusiasmo dal Marocco?, per questo motivo ho studiato l’inglese da solo?, no, questa è una menzogna alla quale non avrei mai dovuto credere. Non posso andare avanti, l’Europa sta innalzando fili spinati e muraglie in ogni frontiera, non posso nemmeno tornare indietro, perché mi chiamo Taamir, Taamir figlio di Nabil, di Fès, e non voglio vergognarmi di fronte a mia madre per essere stato un incapace. Non le ho mandato dei soldi, né sono riuscito ad alleggerirla dalla miseria.”
A Taamir venne la curiosità di esplorare il luogo in cui l’aveva trascinato la vita. Uscì dal camping Excelsior, salutò gli amici, e iniziò a girovagare per le strade del Carso con la testa carica di pensieri: “Mio Buon Dio, – pregava – perché coloro che si definiscono esseri umani mi trattano come un miserabile? Lo so, io ti chiamo Allah, loro ti chiamano Padre Eterno. Però, se guardo questa foglia color oro e quest’altra color del fuoco, vedo che stanno attaccate allo stesso albero.”
Continuava a rimuginare a testa bassa e a calciare i sassi per terra. Solo di tanto in tanto alzava lo sguardo per controllare che non ci fosse nessuno sbirro che lo potesse fermare, prendere a calci e magari uccidere a colpi di manganello. Arrivato a Bazovica, Taamir imboccò la strada verso Gropada. All’improvviso si imbatté in uno strano cippo, con un’iscrizione e una croce di pietra sopra. Di colpo allora si fermò, chiedendosi: “Chissà che cosa significa questa scritta? È incisa con lo scalpello nella pietra… deve essere importante…”
– Tukaj počivajo pogrebci s pokojnimi iz Gropade! Qui riposa il corteo funebre di Gropada con il defunto! Sentenziò alle sue spalle Željko Grgič. Era lì da qualche minuto e si era fermato ad osservarlo.
– E tu?, – chiese Taamir spaventato – chi sei?
– Non avere paura – lo rassicurò Željko – qui siamo in un luogo sacro, non ti può accadere niente di male. E io non ce l’ho con te.
– No?
– E perché dovrei?
– Perché sono un emigrato.
– E con questo?
– La gente odia gli emigrati.
– Dimenticano.
– Cosa?
– Di essere stati a loro volta emigrati. Di essere stati sporchi, affamati, laceri, infreddoliti. Di essere stati emarginati, trattati come spazzatura da nascondere alla vista della gente che si dice per bene.
– Come ti chiami?
– Željko, Željko Grgič. E tu?
– Taamir, figlio di Nabil. Vengo da Fès, dal Marocco. Željko Grgič? Mi piaci. Mi sembri… o forse sei… un, un… filosofo! È la prima volta che sento qualcuno che mi parla così.
– Vieni con me Taamir, ti mostro dove abito.
Lasciato il luogo di sosta ‘Alla Croce’, Željko Grgič, si incamminò verso il paesetto di Gropada e la propria casa. Taamir gli andava dietro a testa bassa, come un cane bastonato.
– Entra! – ordinò Željko a Taamir con voce ferma.
– Posso?
– Certo!, che diamine!
– Permesso…
– Adesso basta con quest’aria dimessa Taamir!, non sei tu che stai sbagliando, è la società che è impazzita.
– Dici?
– Vieni su!
Taamir stralunato fece a due a due gli scalini che portavano alla mansarda di sopra. Passò lo sguardo sulla poltrona, sulla macchina da scrivere, sulle cartelline co- lorate, sul ritratto di Karl Marx. Felice di aver indovinato, gridò:
– Allora avevo ragione io!, tu sei un filosofo, Željko Grgič!
– Sì e no, – rispose lui – lo ero prima di questo. – E, levandosi la camicia, gli mostrò il moncone privo del braccio destro.
– Non c’entra! Non vale! Tu sei un filosofo lo stesso! Un grandissimo filosofo! Nessuno mi ha mai parlato come te da quando ho messo piede in Europa. – Taamir si abbandonò sulla poltrona con l’aria felice di chi ha appena risolto un indovinello.
– E questa? – Azzardò indicando la foto di Nadja.
– Questa era veramente una filosofa.
– È morta?
– Sì, da tempo.
– L’hai amata?
– Non so.
Il bastardino in quel momento si svegliò, e, sentiti i rumori che provenivano dalla mansarda, corse subito su. Quando vide Taamir dilatò le pupille per la sorpresa. La sua macchia sull’occhio sinistro sembrava più scura. Annusò a lungo le scarpe del nuovo arrivato, muovendo leggermente la coda che teneva dritta come una spada. Dopo avere starnutito rumorosamente iniziò a leccare i piedi del giovane magrebino, abbaiando come se avesse capito la sua storia, e scodinzolando per dargli il benvenuto.
– Che bello! Come si chiama?
– Sanje.
– Cosa vuol dire, Željko?
– Sogno.
– Sogno? Sì, come quello lì sulla finestra!
– Sì, Taamir, amico mio, proprio così.
– Adesso tiro fuori una brandina e delle coperte.
– Hai fame?
– Un po’!
– Ti vanno patate e castagne?
– Sì, grazie Željko. Pregherò Allah perché ti benedica e esaudisca i tuoi sogni!
– Adesso mangiamo, Taamir, è tardi.
Durante la notte, mentre Taamir dormiva sulla brandina sotto le coperte e Sanje sognava muovendo le zampette nell’aria, Željko rovistò ancora nella scatola da scarpe. Non sapeva quale lettera scegliere. Infine ne tirò fuori una a caso e l’aprì.
“Caro Željko, sono di nuovo con te, anche se sono qui, nell’isola dei filosofi. Oggi, dopo la conferenza alla casa della cultura, ho sentito crescere in me una grande gioia. Che bello!, (ho pensato), che magia!, sentir parlare in tutte le lingue del mondo! Filosofi dell’est e dell’ovest, dell’America e dell’Europa, insieme, qui, per pensare solamente all’uomo! La nostra critica al potere e l’opposizione a qualsiasi nazionalismo, (pericoloso precursore del razzismo), ci fa sentire felici. Pensiamo che la diversità ci possa arricchire di nuove idee. Forse – mi potresti obiettare tu – siamo solamente dei Don Quijote internazionali?, forse, – potresti aggiungere – questo andare oltre ogni confine per stabilire una volta per sempre la dignità dell’essere umano, fa parte della nostra utopia, (o grande illusione?)
D’altronde perché dovremmo preoccuparci solamente dei problemi della Jugoslavia? L’intera umanità non si trova forse dentro i medesimi pericoli? La trappola dell’alienazione aspetta gli individui di ogni paese con l’esca del lucro e la sua morsa, la nuova schiavitù economica viene imposta a ogni popolo da piccole élite di gruppuscoli finanziari senza nome. Infine le guerre, che nutrono il mercato delle armi e arricchiscono i potenti, non rischiano di far saltare per aria tutti i popoli, poveri e ricchi, con gli ordigni atomici?
Per questo trovo così sciocco e pericoloso restare legati al concetto di nazionalismo. Quando le nazioni si oppongono tra di loro, va a finire sempre che i violenti delegano la responsabilità delle loro azioni niente meno che al nome di Dio. Sebbene sia il Corano, sia il Vangelo che la Torah, abbiano sempre proclamato l’uguaglianza degli esseri umani.
Alle volte cerco di capire perché l’uomo, nello svolgersi della storia, abbia dimostrato di avere in sé il seme della distruttività, specialmente quando la vita è stata vissuta al di fuori delle sue intenzioni. È accaduto quando egli si è comportato come se fosse un ingranaggio di un sistema estraneo e sconosciuto, al quale ha solamente obbedito con cecità. E mi sono sorpresa. Ma la nuova praxis è il pensiero della rivoluzione, è l’idea madre dalla quale nascerà il mondo nuovo, che abolirà la legge dell’homo homini lupus.
Quando nel 1964, a Zagabria, abbiamo stampato il primo numero della rivista Praxis, abbiamo anche chiarito i motivi della sua nascita. Il filosofo Petrović scrisse allora: «Čemu Praxis?» «A che cosa serve Praxis?». E rispose: «Ad andare verso la vera umanizzazione».
Caro Željko, non so come andrà a finire la scuola estiva di Korčula, e fino a quando dureranno i finanziamenti che la fanno sopravvivere. Dentro di me sono convinta che i filosofi della nuova prassi abbiano il merito di aver aperto uno spiraglio, indicato una via da seguire per il futuro del non ancora esistente.
Tu ed io sappiamo dove dirigere le nostre speranze, ma dobbiamo cercare di essere così generosi da riuscire a far riflettere anche gli altri, quelli che sono assuefatti al conformismo delle idee, e che si rassicurano solamente con i riti imposti dai dogmi consolidati dalle autorità, come bambini che si fanno approvare dalla maestra. Sai cosa penso in definitiva?
Che l’essere umano, per diventare veramente tale, abbia bisogno di orientarsi in un orizzonte di significati. L’uomo ha bisogno di votarsi, di lottare, di avere un punto prospettico di riferimento. E con queste parole ti ho detto tutto. Perciò, mio caro, questa è la mia ultima lettera, d’ora in poi non ti scriverò più.
Sappi anche che questo non ha nessuna importanza, perché là dove sono i tuoi sogni, ci sono anche i miei. E l’andare verso, insieme, stretti nella direzione del medesimo orizzonte, che unisce le nostre anime al di là di ogni tempo e di ogni spazio, che le fa essere unite già adesso e le farà unire nel futuro.
Vicino a me, (te l’ho mai detto?) abita un vecchio zingaro sdentato. Ogni sera suona con il violino un antico Sevdah. La melodia racconta la storia di un uomo che aveva perso la donna amata perché era partita lontano, e che per questo rimase lui prigioniero dentro l’infelicità.
Al sentirla i filosofi piangono come bambini, io invece no. Perché credo che non esista nessun ghetto capace di rinchiudere lo spirito dell’uomo, e che l’amore spazi libero nell’immensità.
Durante questa fine di agosto, il sole fa risplendere nel mare attorno a Korčula un bagliore d’argento. Tra respiro e respiro, sogno di appoggiare la testa sul tuo torace, come facevo a Lubiana, da ragazza, all’insaputa dei professori… ah!, che malandrina sono stata!
Tra silenzio e silenzio il mio respiro si ferma, e mi trovo immersa in un mare di pace. Lo so, sarai deluso forse, se un giorno il mondo sceglierà di rinunciare all’uomo per essere schiavo del denaro. Ma non succederà, almeno, non a noi due.
Tieni stretti i miei sogni, Željko Grgič, tienili vici- no ai tuoi. Solo così daranno buoni frutti, insieme, nel tempo che sarà.
Tua per sempre, Nadja.”
Željko Grgič prese la lettera e uscì di casa. Continuava a camminare per il Carso sconvolto, cercando le parole che avrebbe sempre voluto scrivere a Nadja. Arrivato alla grande quercia si accasciò a terra.
Si sentiva sfinito, in quella sera d’autunno ogni cosa gli stava fuggendo via. Era come se anche i ricordi si stessero cancellando, sfumando per sempre nell’opacità della nebbia. Capì di non aver mai accettato l’incidente, di aver voluto sfidare la vita appartandosi. Così, volgendo lo sguardo alle rondini nel cielo, si raccolse dentro sé. Sottovoce iniziò a bisbigliare:
– Cara Nadja, già il lungo viaggio che ti portò via, da Lubiana fino a Zagabria, mi fece affogare nella nostalgia. Ti guardavo partire, tu, così esile, così delicata, e capii che, insieme a te, stavano partendo anche le grandi speranze che avevamo maturato all’Università. Quante volte ho rivisto in seguito, nei miei sogni, la tua figura leggera che sventolava il fazzoletto bianco, mentre quel vecchio autobus scalcagnato ti allontanava da me. Poi l’incidente. La solitudine che ho provato in ospedale. E infine la mia decisione: il ritiro dal mondo.
Questa sera, mentre passeggio per i boschi, le immagini della memoria mi scorrono davanti fulminee. Rivedo gli anni trascorsi sui banchi di scuola, le interminabili discussioni con i nostri compagni. Tu ed io sempre insieme, nascosti dietro alle siepi, nei parchi, durante le gite, e il tuo affetto ostinato per me… e io, che pensavo solamente al socialismo…
Devo confessarti che oggi concepisco le cose in maniera diversa.
Adesso vorrei tanto riprendere il filo che ho lasciato in sospeso. Solo ora percepisco con chiarezza quanto dolore mi è costato vivere lontano da te.
Dopo trent’anni, – come passa veloce la vita!, – i comportamenti che avevo a Lubiana mi appaiono sbagliati. Oggi è come se potessi guardarli da una stella alta nel cielo. Con quanta sincerità abbiamo sperato in un mondo nuovo, nonostante lo stalinismo russo ci mostrasse, nel socialismo realizzato, solo sfacelo e violenza.
I filosofi dell’isola hanno tanto lottato. Però quella volta era diverso, perché erano legati da un reciproco rispetto, anche nei confronti di chi la pensava al contrario.
Tu, insieme a loro, volevate avere la possibilità di realizzare la società umanizzata.
E io ero legato a te, come allora, così adesso. È strano: il pensiero d’amore per te era lo stesso che nutrivo per il mondo intero.
Quante parole hai scritto per me, Nadja!, lunghe file di parole su Marx, la fratellanza, l’alienazione, l’utopia. Le parole scritte sono come i sogni. Persino il sogno che tu hai espresso nei miei confronti era così puro che avrebbe avuto diritto a nascere, crescere e diventare vivo. E così anche i nostri cari intimi sogni sarebbero potuti diventare una storia reale, e persino noi due, come uomo e donna semplicemente, avremmo potuto raggiungere la nostra essenza più vera se ci fossimo amati.
Senza di te la mia anima è rimasta fredda e nuda, come la casa nel paese sperduto dove mi sono isolato. Inutilmente accendo ogni giorno il fuoco del caminetto per ritrovare il tuo calore. Inutilmente scruto l’acchiappasogni dei Navajo, illudendomi di vedere il tuo viso.
Qui terminerà il viaggio della mia vita. Il Carso, questo luogo cosparso di pietre, mi si pone di fronte come un limite da sfidare, e mi costringe a cercare un ultimo riparo nella visione oltre l’esistente. È allora che penso e te, a Korčula, all’isola dei filosofi. Alla scuola estiva ci stava aspettando la felicità: lungo i torrioni, nei vicoli stretti della città antica. Lì avremmo potuto camminare silenziosi, parlare sottovoce, scoprire dentro di noi nascere nuove idee come boccioli di rosa.
Allora… che inutile scelta il mio isolamento, rispetto al mondo che mi prospettavi con le tue lettere…
Mi sono avventurato qui da solo, dentro un abisso dello spirito dal quale nessuno mi potrà salvare. Senza di te il cielo si sta sgretolando. Nadja, Nadja, Nadja… Dove sei?
Quanto fiacche sono le parole rispetto all’immensità di ciò che provo. Sono solo parole. Eppure mi fanno pensare a te, ti portano vicino a me, ti configurano ovunque io vada. Una fra esse si distingue. È una parola di fuoco e d’amore, suona: ‘rivoluzione’.
Queste sono ancora parole, ma riescono a far sì che io ti stringa forte, come uno schizofrenico, un uomo disperato e furibondo, quasi tu fossi l’ultimo fantasma della mia dannata fantasia.
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Note storiche
Dal 1964 al 1974 prese vita, sull’isola di Korčula, la Scuola estiva, che rappresentò in quegli anni il luogo più importante al mondo per lo studio della filosofia di Karl Marx. Contemporaneamente venne editata la rivista “Praxis”, che raccoglieva gli articoli dei filosofi della scuola stessa. La rottura del Cominform nel 1948 tra Stalin e Tito, rese possibile la nascita in Jugoslavia di questo luogo d’incontro tra i filosofi sia dell’est che dell’ovest, nonostante la guerra fredda in atto.
L’emancipazione dal dogmatismo di stampo stalinista portò i filosofi ad elaborare uno spirito critico particolare, che si riassumeva nel sintagma:
“Per una critica spietata dell’intero esistente”.
L’opera di Lukács: ‘Storia e coscienza di classe’, rappresentò uno (tra i molteplici) spunti d’ispirazione propedeutici alla discussione sul tema dell’alienazione, e sulle modalità per il suo superamento.
La conferenza dell’Associazione Jugoslava per la filosofia svoltasi a Bled nel 1960, fece sì che si formasse una spaccatura tra i filosofi ortodossi, che ancora ritenevano un dogma la teoria del materialismo storico e del rispecchiamento, e i filosofi umanisti, che invece erano orientati verso i problemi antropologici e ontologici dell’umanità. Essi facevano riferimento alle opere giovanili di Marx, in particolare ai Manoscritti economico filosofici del 1844, al marxismo critico e umanista di Lukács, Korsch, Bloch, Marcuse, alla scuola di Francoforte. Questi ultimi ritenevano che la filosofia fosse incarnata nel pensiero della rivoluzione, nella visione umanista di un mondo veramente umano. E, inoltre, nella forza dell’operare rivoluzionario, che si estrinsecava per loro attraverso il dialogo critico, l’apertura e l’azione sulla realtà. La società futura (secondo il pensiero di Bloch ad esempio), nascerà dalla risultante tra l’esistente e il non ancora esistente. Ciò per dire che la filosofia dei praxisti umanisti non accettava nessuna idea preconfezionata, ma si poneva in un’ottica di crescita dinamica da attuare attraverso il confronto persino con le posizioni più contrarie.
Durante il 1968, quando furono espulsi dall’Università di Varsavia i sei professori universitari accusati di essere i padri spirituali dei disordini studenteschi, (B. Baczka, Z. Baumann, W. Brussa, M. Hirszowicz, L. Kolakowski e S. Morawski), i filosofi espressero apertamente il loro dissenso nella ‘Dichiarazione della redazione Praxis’.
Dichiaravano in seguito, con le parole di Pešić Golubović, che una società, per essere veramente umana, deve:
• garantire condizioni sociali tali che ogni individuo abbia le stesse possibilità di svilupparsi;
• abolire ogni sfruttamento e tutti i privilegi;
• creare un meccanismo con cui armonizzare gli interessi individuali e collettivi;
• stabilire le funzioni sociali e le relative posizioni solo come frutto dell’impegno politico dell’individuo;
• creare istituzioni tali da soddisfare nonché stimolare i potenziali delle masse cittadine;
• realizzare tali condizioni in modo che nessuna società si imponga sulle altre.
La scuola di Korčula fu sospesa durante l’anno 1966, a causa delle frizioni con la Lega dei comunisti croati. I filosofi praxisti vennero accusati di voler battersi per un posto di privilegio nella società, di essere lontani dai problemi reali, di essere troppo astratti.
Gli scontri si fecero più acuti durante la Primavera croata nel 1971, e si aggravarono sempre di più, finché, nel 1974, alla rivista Praxis furono tolti i finanziamenti e la scuola estiva venne definitivamente chiusa. L’eredità del pensiero filosofico dei praxisti merita più che mai di essere rielaborato, se non altro per quella ferma volontà che i filosofi di Korčula dimostrarono nel cercare delle prospettive di miglioramento per l’essere umano, che, inteso come essere sociale, dovrà trovare il modo di realizzarsi dentro l’orizzonte di riferimento condiviso che oggi chiamiamo civiltà.
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