Prologo
I
Tre novelle esemplari e un prologo! Avrei potuto porre sulla copertina di questo libro Quattro novelle esemplari. Quattro? Perché? Perché anche questo prologo è un racconto. Un racconto, intendiamoci, e non una nivola[1]; un racconto.
Il termine nivola, come battezzai il mio romanzo – e che romanzo! – Nebbia (in cui spiego il vocabolo), fu una via d’uscita che trovai per i miei… – critici? va bene dai! – critici. E hanno saputo approfittarne perché quel termine aiutava la loro pigrizia mentale. La pigrizia mentale di non saper giudicare se non conformemente a precedenti, è ciò a cui si consacrano i critici.
Dovremo tornare più di una volta, in questo prologo – racconto o nivola – sulla nivoleria. E dico dovremo tornare, in questa episcopale prima persona plurale, perché dobbiamo essere tu, lettore, e io, cioè noi, quelli che tornano su di essa. Adesso, spieghiamo l’aggettivo esemplari.
Esemplari? Perché?
Miguel de Cervantes chiamò esemplari le novelle che pubblicò dopo il Chisciotte perché, come ci dice nel loro prologo, «non ve n’è una sola dalla quale non si possa trarre un profittevole esempio»[2]. E poi aggiunge: «il mio intento è stato quello di mettere sulla pubblica piazza del nostro mondo un tavolo da giuoco, presso il quale ognuno possa arrivare a divertirsi senza rimetterci del suo; vale a dire senza danno per l’anima e per il corpo, perché quel che è gradevole e onesto giova piuttosto di danneggiare». E continua: «Sì, poiché non sempre stiamo in chiesa, non sempre ci si riunisce negli oratori, non sempre ci si dedica agli affari, per importanti che siano: vi sono ore dedicate allo svago, nelle quali lo spirito afflitto possa riposare; a questo scopo si piantano alberi nei parchi, si ricercano le fontane, si spianano i pendii e si coltivano amorosamente i giardini». E aggiunge: «Una cosa però oso dirti: che se in un modo o nell’altro avvenisse che la lettura di queste novelle potesse indurre il lettore a concepire cattivi desideri o pensieri, preferirei, al pubblicarle, tagliarmi la mano con cui le scrissi; la mia età non è fatta per burlarsi dell’altra vita, poiché i cinquantacinque li supero di altri nove e abbondantemente».
Da questo si deduce: primo, che Cervantes nei suoi racconti cercò più l’esemplarità che oggi chiamiamo estetica che non la morale, cercando di dare con essi ore di ricreazione dove lo spirito afflitto potesse riposare; secondo, che l’idea di chiamarli esemplari fu posteriore all’averli scritti. Come nel mio caso.
Questo prologo è posteriore ai racconti che precede e prologa, così come una grammatica è posteriore alla lingua che cerca di regolare e una dottrina morale è posteriore agli atti di virtù e di vizio che si cerca di spiegare con essa. E questo prologo è, in un certo modo, un altro racconto; il racconto dei miei racconti. E allo stesso tempo la spiegazione della mia romanzeria. O se si vuole nivoleria.
E chiamo esemplari questi racconti perché li do come esempio – letteralmente! – , esempio di vita e di realtà.
Di realtà! Sì, di realtà!
I loro agonisti, cioè lottatori, – o se volete li chiameremo personaggi – sono reali, realissimi, e con la realtà più intima con cui si danno essi stessi, nel puro voler essere o nel puro voler non essere, e non con quella che diano loro i lettori.
II
Non c’è niente di più ambiguo del cosiddetto realismo nell’arte letteraria. Perché che realtà è quella del realismo?
La verità è che quel che viene chiamato realismo, termine puramente esteriore, apparente, corticale e aneddotico, si riferisce all’arte letteraria e non a quella poetica o creativa. In un poema – e i migliori racconti sono poemi – o in una creazione, la realtà non è quella di ciò che i critici chiamano realismo. In una creazione la realtà è una realtà intima, creativa e della volontà. Un poeta toglie le sue creature – creature vive – dai modi del cosiddetto realismo. Le figure dei realisti di solito sono manichini vestiti, che si muovono a molla e che portano nel petto un fonografo che ripete le frasi che il loro Mastro Pietro[3] raccolse per le vie e le piazze e i caffè e appuntò nel suo taccuino.
Qual è la realtà intima, la realtà reale, la realtà eterna, la realtà poetica o creativa di un uomo? Sia un uomo di carne e ossa o sia uno di quelli che chiamiamo di finzione, è lo stesso. Perché Don Chisciotte è reale tanto quanto Cervantes; Amleto o Macbeth tanto quanto Shakespeare, e il mio Augusto Pérez forse aveva le sue ragioni dicendomi – come disse nel mio romanzo (e che romanzo!) Nebbia – che magari io non ero che un pretesto affinché la sua storia e quella degli altri, inclusa la mia propria, venissero al mondo.
Cos’è la cosa più intima, più creativa, più reale in un uomo?
Qui devo nuovamente riferirmi a quella ingegnosissima teoria di Oliver Wendell Holmes[4] – nel suo The autocrat of the breakfast table – a proposito dei tre Juan e dei tre Tomás. Egli infatti ci dice che quando conversano due persone (Juan e Tomás), in realtà ce ne sono sei nella conversazione, che sono:
1- Il Juan reale, conosciuto solo dal suo Creatore.
Tre Juan 2- Il Juan ideale di Juan, che non corrisponde mai al reale e sovente è molto dissimile da lui.
3- Il Juan ideale di Tomás, che non corrisponde mai al Juan reale né al Juan di Juan, bensì spesso assai dissimile da entrambi.
1- Il Tomás reale.
Tre Tomás 2- Il Tomás ideale di Tomás.
3- Il Tomás ideale di Juan.
Cioè: quello che uno è, quello che crede di essere e quello che crede l’altro. E Oliver Wendell Holmes disserta sul valore di ciascuno di essi.
Ma io qui devo prendere un altro cammino rispetto a quello dell’intellettualista americano Wendell Holmes. E dico che, oltre a ciò che uno è per Dio – se per Dio uno è qualcuno – e a ciò che è per gli altri e ciò che si crede d’essere, c’è quello che uno vorrebbe essere. E questo, ciò che uno vuole essere, è in lui, nel suo seno, il creatore, ed è quello veramente reale. Ed è attraverso quello che abbiamo voluto essere, non per ciò che siamo stati, che ci salveremo o ci perderemo. Dio premierà o castigherà ciascuno facendolo essere per tutta l’eternità ciò che ha voluto essere.
Ora, c’è chi vuole essere e chi vuole non essere, e succede ugualmente sia agli uomini reali incarnati in carne e ossa che agli uomini reali incarnati in finzioni romanzesche o nivolesche. Ci sono eroi del voler non essere, eroi della noluntas.
Ma prima di passare oltre mi si permetta di spiegare che “voler non essere” non è la stessa cosa che “non voler essere”.
Ci sono, in effetti, quattro posizioni, di cui due sono positive: a) voler essere; b) voler non essere; e due negative: c) non voler essere; d) non voler non essere. Così come si può credere che esista Dio, credere che non esista Dio, non credere che esista Dio e non credere che non esista Dio. E così come credere che non esista Dio è diverso da non credere che esista Dio, allo stesso modo voler non essere è diverso da non voler essere. Da uno che non vuole essere difficilmente di ottiene una creatura poetica, da romanzo; ma da uno che vuole non essere, sì. Colui che vuole non essere, non è, chiaramente, un suicida.
Chi vuole non essere lo vuole essendo.
Sembra un groviglio? Beh, se questo vi sembra un groviglio e non solo non siete capaci di comprenderlo ma nemmeno siete in grado di sentirlo (e di sentirlo appassionatamente e tragicamente), non arriverete mai a creare creature reali, e per tanto non giungerete a godere pienamente di nessun romanzo e neanche della vostra vita. Perché è noto che chi gode di un’opera d’arte è perché la crea in sé, la ri-crea e si svaga in essa. E per questo Cervantes, nel prologo delle sue Novelle esemplari parla di “ore dedicate allo svago”. E io mi sono svagato con il suo Avvocato Invetriata[5], ricreandolo in me mentre mi svagavo. E l’Avvocato Invetriata ero io stesso.
III
Rimaniamo d’accordo quindi — cioè, almeno mi sembra che siamo rimasti d’accordo così — che l’uomo più reale, realis, più res, più cosa, cioè più causa — solo esiste ciò che opera — è chi vuole essere o chi vuole non essere, il creatore. Il problema è che quest’uomo (che potremmo chiamare, alla maniera kantiana, noumenico), quest’uomo volitivo e ideale — d’idea-volontà o forza — deve vivere in un mondo fenomenico, apparente e razionale, cioè nel mondo dei cosiddetti realisti. E deve sognare la vita che è sogno. E da questo, dallo scontro di questi uomini reali gli uni con gli altri sorgono la tragedia e la commedia e il romanzo e la nivola. Ma la realtà è quella intima. La realtà non la costruiscono le scenografie, né le decorazioni, né il vestito, né il paesaggio, né il mobilio, né le didascalie, né nient’altro…
Paragonate Sigismondo[6] con Don Chisciotte, due sognatori della vita. La realtà nella vita di Don Chisciotte non furono i mulini a vento, bensì i giganti. I mulini erano fenomenici, apparenti; i giganti erano nuomenici, sostanziali. Il sogno è ciò che è la vita: realtà, creazione. La fede stessa non è, secondo san Paolo, che sostanza delle cose che sperano, e quello che si spera è il sogno. E la fede è la fonte della realtà, perché è la vita. Credere è creare.
O forse l’Odissea, quella epopea che è un romanzo, e un romanzo reale, molto reale, è meno reale quando ci racconta prodigi che un realista escluderebbe dalla propria arte?
IV
Sì, la conosco la solfa dei critici che si sono aggrappati all’idea di nivola; romanzo di tesi filosofiche, simboli, concetti personificati, saggi in forma dialogata… e tutto il resto.
Orbene, un uomo, un uomo reale che vuole essere o che vuole non essere, è un simbolo, e un simbolo può farsi uomo. E persino concetto. Un concetto può arrivare a farsi persona. Io credo che il ramo di un’iperbole voglia — sì, vuole! — arrivare a toccare il suo asintoto, ma non lo ottiene. Il geometra che sentisse quel volere disperato dell’unione dell’iperbole con il suo asintoto, ci creerebbe quell’iperbole come persona, e persona tragica. E credo che l’ellissi voglia avere due fuochi. E credo nella tragedia o nel romanzo del binomio di Newton. Quel che non so è se Newton l’abbia sentita.
I critici definiscono qualsiasi cosa puro concetto o ente di finzione!
Se, come dicono, Gustave Flaubert sentì sintomi d’avvelenamento mentre stava scrivendo, cioè creando, quello di Emma Bovary in quel romanzo che è considerato un esempio di romanzo, ti assicuro, lettore, che quando il mio Augusto Pérez gemeva davanti a me (o meglio dentro di me): «È che io voglio vivere, don Miguel, voglio vivere, voglio vivere…» — Nebbia — io mi sentivo morire.
«Il fatto è che Augusto Perez sei tu stesso…» mi si dirà. Ma no! Una cosa è che tutti i miei personaggi romanzeschi, che tutti gli agonisti che ho creato li abbia estratti dalla mia anima, dalla mia realtà intima — che è un intero mondo — e altra cosa è che siano io stesso. Perché chi sono io? Chi è colui che si firma Miguel de Unamuno? È solo uno dei miei personaggi, una delle mie creature, uno dei miei agonisti. E quest’ultimo e intimo e supremo io, quell’io trascendente — o immanente — chi è? Lo sa Dio… Forse Dio stesso.
E adesso vi dico che quei personaggi crepuscolari — né del mezzogiorno né della mezzanotte — che non vogliono né essere né non essere, ma che si lasciano portare e trasportare, tutti quei personaggi di cui sono pieni i nostri romanzi contemporanei spagnoli con tutti i crismi e i segni distintivi che li distinguono, con le loro valigette e i loro tic e i loro gesti, nella gran maggioranza non sono persone e non hanno realtà intima. Non c’è un momento in cui si svuotino, in cui mettano a nudo la loro anima.
Un uomo vero lo si scopre e lo si crea in un momento, in una frase, in un grido. Come Shakespeare. E dopo averlo così scoperto, creato, lo si conosce forse meglio di quanto egli conosca se stesso.
Se tu, lettore, vuoi creare con l’arte persone, agonisti tragici, comici o romanzeschi, non accumulare dettagli, non dedicarti a osservare le esteriorità di chi vive con te, bensì invece frequentali, eccitali se puoi, soprattutto amali e aspetta che un giorno — forse mai — vengano alla luce e rivela l’essenza della loro anima, ciò che vogliono essere in un grido, in un atto, in una frase e quindi prendi questo momento, mettilo in te e lascia che come un germe si sviluppi nel personaggio vero, in quello che è veramente reale. Forse giungerai a sapere meglio del tuo amico Juan o del tuo amico Tomás quel che Juan vuole essere o quel che vuole essere Tomás e cos’è che ciascuno di loro vuole non essere.
Balzac non era un uomo che faceva vita mondana né passava il tempo prendendo nota di quel che vedeva negli altri o di ciò che li udiva dire. Portava il mondo dentro di sé.
V
Ogni uomo umano ha dentro di sé le sette virtù e i loro sette opposti vizi capitali: è orgoglioso e umile, ghiotto e sobrio, lussurioso e casto, invidioso e caritatevole, avaro e liberale, pigro e diligente, iracondo e mansueto. E ha in sé il tiranno e lo schiavo, il criminale e il santo, Caino e Abele.
Non dico che Don Chisciotte e Sancio siano sgorgati della stessa sorgente perché non si oppongono tra loro, e Don Chisciotte era sanciopanzesco e Sanzio Panza chisciottesco, come credo d’aver dimostrato nel mio Vita di Don Chisciotte e Sancio. Anche se non manca chi mi dice che il Don Chisciotte e il Sancio di questa mia opera non sono quelli di Cervantes. Il che è certo. Perché né Don Chisciotte né Sancio sono di Cervantes e nemmeno miei, bensì sono di tutti quelli che li creano e ricreano. O meglio, appartengono a loro stessi e noi, quando li contempliamo e li creiamo, apparteniamo a loro.
Io non so se il mio Don Chisciotte sia altro rispetto a quello di Cervantes o se, essendo il medesimo, io abbia rivelato nella sua anima profondità che il primo che lo mostrò al mondo, che fu Cervantes, non aveva scoperto. Ma sono sicuro, tra le altre cose, che Cervantes non rilevò tutto ciò che nel sogno della vita del Cavaliere significò quell’amore vergognoso e taciuto che sentì per Aldonza Lorenzo. Né Cervantes penetrò tutto il chisciottismo di Sancio Panza.
Riassumendo: ogni uomo buono porta dentro di sé le sette virtù capitali e i loro sette vizi opposti, e con essi è capace di creare agonisti di ogni tipo.
I poveri soggetti che temono la tragedia, quelle ombre d’uomini che leggono per non rendersi conto o per ammazzare il tempo – dovranno ammazzare l’eternità – trovandosi in una tragedia o in una commedia o in un romanzo o in una nivola, se volete, con un uomo (con niente meno che un vero uomo), con una donna (con niente meno che un vera donna), si chiedono: «Ma dove l’avrà preso questo all’autore?». A cui si può dare una sola risposta: «Da te no!». E siccome non lo ha preso da lui, dall’uomo quotidiano e crepuscolare, è inutile presentarglielo, perché non lo riconoscerebbe come uomo. È capace di chiamarlo simbolo o allegoria.
Questo soggetto quotidiano e apparente, quello che fugge dalla tragedia, non è né sogno né ombra, come Pindaro chiamò l’uomo. Al massimo sarà l’ombra di un sogno, come disse il Tasso. Perché colui che, essendo sogno di un’ombra e avendo coscienza d’esserlo, soffra per questo e voglia esserlo o voglia non esserlo, sarà un personaggio tragico e capace di creare e ricreare in se stesso personaggi tragici o comici, capace di essere romanziere, cioè poeta, e capace di gustare un romanzo, cioè una poesia.
VI
È chiaro?
La lotta per dare chiarezza alle nostre creazioni è un’altra tragedia.
E questo prologo è un altro romanzo. È il romanzo dei miei romanzi, da Pace in guerra e Amore e pedagogia e i miei racconti — che sono romanzi — e Nebbia e Abel Sànchez — questo forse il più tragico di tutti — fino alle Tre novelle esemplari che leggerai, lettore, se questo prologo non ti avrà tolto la voglia di leggerle.
Vedi lettore perché chiamo esemplari queste novelle? E magari servissero da esempio!
So che oggi in Spagna i romanzi vengono consumati soprattutto dalle donne. Cioè, non donne, bensì signore e signorine. E so che queste signore e signorine si affezionano principalmente a quei romanzi che vengono dati loro dai loro confessori o a quegli altri che vengono loro proibiti; quindi o sentimentalismi che trasudano disonore e peccato o pornografie che grondano pus. E non è che fuggano da ciò che le faccia pensare, fuggono da ciò che le fa commuovere. Con commozione che non sia quella che termina in… Beh, meglio tacere!
Queste signore e signorine vanno in estasi o per un vestito montato sopra un manichino, se il vestito è di moda, o davanti allo svestito o al seminudo. Ma il nudo franco e nobile le ripugna. Soprattutto il nudo dell’anima.
E così va la nostra letteratura romanzesca.
Letteratura… sì, letteratura. E nient’altro che letteratura. Il quale è un genere di sussistenza, soggetto alla legge della domanda e dell’offerta, a esportazione e importazione, e al registro di dogana e alle tasse.
Lettori e lettrici, signori, signore e signorine: così vanno queste tre novelle esemplari, i cui agonisti, seppure dovranno vivere isolati e sconosciuti, io so che vivranno. Così sicuro come del fatto che io vivrò.
Come? Quando? Dove? Dio solo lo sa…
Note
[1] Nivola è la storpiatura del termine novela (che si può tradurre sia con romanzo che con racconto o novella) che Unamuno usa per indicare quei suoi romanzi che sono un’imitazione della vita reale, cioè un tentativo di non determinare a priori lo svolgimento del romanzo, ma di lasciare che i fatti si succedano così come accade nella realtà. (N. d. C.)
[2] Questa e le citazioni seguenti sono tratte da M. de Cervantes, Novelle esemplari, traduzione di A. Gasparetti, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1994, pp. 46-47. (N. d. C.)
[3] Personaggio del Chisciotte di Cervantes. È uno dei galeotti liberati da Don Chisciotte (nel capitolo 22 della prima parte), che riappare nella seconda parte del romanzo (capitoli 25-27) come burattinaio accompagnato da una scimmia con poteri divinatori. (N. d. C.)
[4] Poeta e medico statunitense (1809-1894), riconosciuto come uno dei maggiori scrittori dell’Ottocento americano e come un importante riformatore medico. L’opera a cui si riferisce Unamuno è The Autocrat of the Breakfast-Table, Phillips, Sampson and Company, Boston 1858. (N. d. C.)
[5] Titolo e nome del protagonista di una delle Novelle esemplari di Cervantes. (N. d. C.)
[6] Protagonista di La vita è sogno di Pedro Calderón de la Barca. (N. d. C.)