Permacrisis e tardo-capitalismo

La crisi permanente è essenziale al meccanismo economico, ne è il propulsore anche etiam perinde cadaver, poiché esso non è più un elemento essenziale per la vita di una comunità garantendo lo scambio delle merci e la sopravvivenza degli individui, ma si è trasformato in una “macchina astratta”. L’uomo non è il fine del tardo-capitalismo, ma esattamente come il pianeta che abitiamo, è divenuto un semplice mezzo per un accrescimento asintotico che non avrà termine se non con l’estinzione della specie.

Indice: 1. Sfaccettature del neologismo permacrisis, 2.Il dispositivo di sicurezza, 3. Permacrisis e tardo-capitalismo, 4. Stress sociale e politiche fobogeniche, 5. Il cupio dissolvi e l’assenza di futuro, 6. Dipendenza, responsabilità e libertà.

 

 

1. Sfaccettature del neologismo permacrisis

 

La parola, nella storia dell’uomo, ha sempre svolto una funzione rassicurante e ansiolitica, poiché, sostituendosi a una realtà complessa, tende a renderla più malleabile e controllabile, ma soprattutto tende a diminuirne la carica stressante. Un neologismo anglosassone degli anni Settanta, tornato di moda oggi – permacrisis – sembra d’acchito inquadrarsi in questa prospettiva. Analizziamo pertanto nel dettaglio la parola, per verificare se ciò sia vero o se, paradossalmente, sia vero l’inverso. Il termine deriva dal latino per-manere (rimanere lungo, durante, attraverso, oltre) e dal verbo greco κρίνειν, che allude letteralmente al separare e figurativamente all’atto della decisione, la quale, a sua volta indica un taglio, una svolta. Nel concetto di permacrisi ci troviamo pertanto di fronte a una condizione cronica in cui è in atto una separazione, una decisione e qualcosa di rivoluzionario in cui la realtà viene all’improvviso soppiantata da un’altra realtà. Potremmo parlare allora di una “rivoluzione permanente”, ossia di un ossimoro laddove da un lato prevale la connotazione dell’immutabilità, dall’altro invece emerge in tutta la sua dirompenza il momento della rottura e del taglio. Tuttavia nel termine “crisi” emerge un’ulteriore differenziazione semantica, dal momento che vi sono precipitati due significati conseguenti, cioè il momento di separazione e cambiamento, nonché la “necessità” di decidere, di operare delle scelte.

In sintesi la permacrisi significa il mantenersi di una condizione in cui sono frequenti le separazioni rivoluzionarie nonché la necessità di operare delle scelte conseguenti o, nel nostro linguaggio, delle immunizzazioni. Ma seguiamo ancora per un momento le suggestioni etimologiche: il permanere connota anche una dimensione temporale, e il tempo che deriva dal latino tempus, il quale a sua volta rimanda al greco τέμνειν, “tagliare”, “separare”. Ci ritroviamo quindi all’interno di un circolo in cui la temporalità sembra aver a che fare con la crisi e il tutto in un contesto di permanenza. Il tempo è critico in sé, poiché ogni istante cela la possibilità dell’evento, della rottura e della svolta. Essere cosciente del tempo significa essere cosciente della criticità di una vita che procede sempre per sobbalzi e per decisioni mancate o errate.

Se invece ci soffermiamo sull’attuale accezione della parola “permacrisi”, sottentrano elementi nuovi come quello di insicurezza e di instabilità: nel dizionario inglese Collins viene espresso precisamente il significato di “un lungo periodo di instabilità e insicurezza”. L’uomo contemporaneo di sente insicuro, cioè oppresso da angustie e da preoccupazioni per il futuro. Se effettivamente analizziamo l’epoca in cui viviamo, la vediamo costellata da numerosi momenti di criticità, dal rischio della guerra atomica all’insorgere inatteso di nuove epidemie nonché di nuovi conflitti all’interno di un’Europa che dopo millenni di guerre si sentiva ormai esente da ogni rischio. Ma su ogni cosa aleggia la crisi demo-climatica che riguarda il riscaldamento globale e l’esplosione demografica della specie umana sulla terra con il conseguente rischio negli approvvigionamenti e un mutamento epocale che rivoluziona un’immagine del mondo che da sempre ritenevamo immutabile nel tempo.

Insomma, le ragioni reali per utilizzare il neologismo “permacrisi” ci sono, eccome; sebbene il nostro intento in questa sede non sia quello di delineare analiticamente una per una le attuali criticità e la loro resilienza, né soprattutto quello di ipotizzare con una certa presunzione delle vie di uscita. Semmai si tratta di prendere atto di come uno stato di crisi cronica sia funzionale se non essenziale al capitalismo, e di studiare come questo stato funzioni all’interno del “dispositivo di sicurezza” in cui viviamo.

2. Il dispositivo di sicurezza

 

Nella prima parte del corso al Collège de France del 1977-1978, Michel Foucault focalizza un argomento che rimane atipico nell’ambito delle sue ultime riflessioni, incentrate prevalentemente sui processi di soggettivazione e di governo del sé a partire dalla Grecia classica. Si tratta della delineazione di quel dispositivo di sicurezza che caratterizzerebbe l’epoca moderna e che seguirebbe in successione più o meno cronologica i dispositivi fondati sulla sovranità e sulla disciplina: esso si contrappone nettamente a quella dimensione della “cura di sé” che invece caratterizzava l’uomo antico, dal momento che sembrerebbe indicare un’assenza di sollecitudine o preoccupazione (cura), una liberazione dalle fatiche che comportano le tecniche di soggettivazione e una delega “ad altri” di queste stesse preoccupazioni. Foucault fa l’esempio di un evento delittuoso come il furto: nel dispositivo giuridico-legale esso costituiva una ferita all’interno del corpus sociale e soprattutto una lesione del potere sovrano che doveva essere ristorata con gli interessi, spesso mediante punizione eccessive, ma soprattutto spettacolari. La pena in questo senso costituiva un rito sociale in cui veniva messo in scena ed enfatizzato il momento risarcitorio, in vista di una ricomposizione del potere del monarca. Nell’epoca disciplinare, invece, nella quale prevale soprattutto l’organizzazione militare sette-ottocentesca, emerge il concetto di “correzione” in base al quale il reo può essere rieducato e riutilizzato lavorativamente nel contesto sociale. Ci troviamo ai tempi della prima rivoluzione industriale in cui prevaleva su tutto l’importanza della forza-lavoro, mentre si era notevolmente indebolito il principio della lesa maestà. Il dispositivo di sicurezza segna invece un cambio di passo, soprattutto dal punto di vista immunologico. Ogni evento delittuoso viene inserito nell’ambito di una statistica che tiene conto del territorio, della scolarità, della condizione famigliare, della psicologia, etc.; inoltre entra in gioco il fattore economico, per cui ogni cosa viene valutata in base al rapporto costo-benefici. Quanto costerà recludere per mesi in carcere il presunto ladro? L’eventuale processo di rieducazione porterà un giovamento economico alla società, mediante l’integrazione in un contesto produttivo? E poi: qual è la percentuale di furti in quel determinato quartiere? Quali sono le probabili cause di un incremento nel tasso di criminosità? Che competenze attivare per descrivere e prevenire questi eventi?

Nel dispositivo di sicurezza balza immediatamente agli occhi la centralità del fattore economico: tutti gli eventi sociali vengono misurati, parametrati, gestiti e controllati secondo le legge del costo-benefici e in vista di un complessivo incremento del profitto. Ora, la configurazione del dispositivo in epoca contemporanea appare arricchirsi di ulteriori elementi, anche se già presenti in modo più o meno implicito in passato: partiamo proprio dal termine “sicurezza” che deriva dal prefisso disgiuntivo se- e dal latino cura, sollecitudine, preoccupazione, ambascia, ma anche “cura” in senso stretto come “curarsi di qualcuno”. Sicurezza significa sine cura e vuol essere un’apparente espressione di autonomia e libertà: l’uomo contemporaneo non vuole avere preoccupazioni, ma la permacrisi lo condanna beffardamente alla perenne insicurezza. È una condizione di auto-stress, per cui ciascuno si sente insicuro proprio quando si sta paradossalmente “curando” della propria sicurezza, dell’essere sine cura.

I meccanismi in cui si realizza questo cortocircuito sono almeno due: 1) la delega, per cui viene incaricata un’entità esterna affinché si faccia carico delle proprie preoccupazioni e cerchi di immunizzarle. L’esempio classico è costituito dagli enti assicurativi che per statuto tentano di alleviare il peso delle ambasci e mercé il pagamento di un premio: se qualcuno ha paura di venir meno improvvisamente e di lasciare in difficoltà la propria famiglia, ecco la polizza “rischio morte immediata” per cui anche il timore atavico nei suoi confronti viene edulcorato e mercificato attraverso una transazione pecuniaria. Un altro esempio è l’impianto di sorveglianza in casa, per cui si delega a un’apposita società la predisposizione di telecamere, sensori, allarmi, etc. per garantire l’inviolabilità della propria magione e la propria tranquillità. Nel nostro tempo tutto avviene per delega, dal governo della propria società alla gestione dei capitali, dalla compilazione della dichiarazione dei redditi alla propria difesa in tribunale in caso di processo. Per essere sicuro l’uomo è divenuto passivo e dipendente, privo ormai di futuro. 2) La deresponsabilizzazione che si compie paradossalmente attraverso un meccanismo moltiplicativo delle responsabilità. Sempre affannato nella ricerca della tranquillità e della sicurezza, il soggetto vuole liberarsi dalle proprie responsabilità, cioè dall’imperativo del dover rispondere di qualcosa a qualcuno. Il meccanismo è duplice, cioè si realizza attraverso la “responsabilizzazione dell’altro” e attraverso la moltiplicazione parossistica delle responsabilità, per cui per ogni evento infausto ci sono così tanti responsabili che viene nebulizzata di fatto ogni responsabilità soggettiva. Questa deresponsabilizzazione fa sì che ancora oggi non si prenda atto della nostra condizione climatica e della crisi che stiamo vivendo: nessuno in sintesi si sta sentendo responsabile per ciò che sta facendo, dai consumi smodati all’utilizzo di automobili inquinanti, dalla plastica ai condizionatori d’aria, etc.

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3. Permacrisi e tardo-capitalismo

 

Con delle manovre di aggiramento concentrico ci stiamo lentamente avvicinando al nucleo del problema. Abbiamo sinora evidenziato il carattere a un tempo angosciante e contraddittorio della parola “permacrisis”, approssimando qualcosa che muta in continuazione con qualcosa che invece si mantiene inalterato nel tempo. Il suo significato più comune indica una condizione di insicurezza, per cui abbiamo tratteggiato anche il dispositivo di sicurezza che caratterizza la nostra epoca: consistendo quest’ultima nell’assenza di preoccupazioni, si può ben capire come una condizione di permacrisi possa apparire quasi troppo stressante. L’uomo contemporaneo, proprio quando vorrebbe raggiungere una condizione edenica di serenità e tranquillità, si trova a subire passivamente gli eventi, appagato dall’illusione di non averne alcuna responsabilità. Il filosofo tedesco Peter Sloterdijk negli anni Ottanta ha descritto questa condizione con il termine di neo-cinismo, a indicare la psicologia di un soggetto consapevole, ma che agisce ciò nondimeno per seguire esclusivamente il proprio profitto. Egli sa quello che fa, ma lo fa comunque, rimodulando il noto aforisma di Marx. Si tratta di una “falsa coscienza illuminata” per cui l’agire viene completamente deresponsabilizzato dall’illusione che comunque le cose del mondo non potranno mai cambiare.

Il meccanismo tardo-capitalistico funziona grazie a un perenne stato di crisi: una delle grandi narrazioni che migrano qua e là nei mass-media è che la stabilità e la costanza siano le migliori garanzie per uno sviluppo economico soddisfacente. Potremmo dire che non c’è nulla di più errato, poiché il capitalismo, sin dagli esordi, si sviluppa attraverso rivoluzioni, assestamenti e nuove criticità. Facciamo un esempio pertinente alla permacrisi: da quando, nonostante i vari scetticismi, il riscaldamento globale e la compromissione dell’uomo in questo processo sono stati accertati e acquisiti dalla coscienza popolare, ci saremmo dovuti aspettare un decremento dei consumi, l’esclusione dei materiali plastici dalla produzione industriale, la rivoluzione della mobilità urbana ed extra-urbana, la riduzione dei traffici, dei voli aerei, dei trasporti su gomma, dell’uso degli idrocarburi, etc. Ebbene, niente di tutto ciò. Senza parlare degli stolti progetti di sfruttamento petrolifero e marittimo dell’Artico in fase di progressivo scongelamento, il tardo-capitalismo ha reagito cambiando apparentemente pelle e mettendo in campo ciò che va sotto il nome green-washing, cioè una ritinteggiatura-lavaggio di attività produttive che sono rimaste sempre le medesime per quantità e qualità. Una crisi epocale si è trasformata in un volano economico per aumentare crescita e redditività. Allo stesso tempo il consumatore neo-cinico si sente appagato e deresponsabilizzato nel mangiare “bio” e nell’utilizzo di plastiche di cui ben il 30% è riciclato. Green è divenuto un nuovo brand con tanto di logo e di certificazioni che attivano tutto un mercato della burocrazia di supporto in cui certamente si moltiplicano i documenti, ma non certamente le emissioni di anidride carbonica.

Il tardo-capitalismo funziona grazie alla permacrisi o, meglio, ne è forse la causa prima, la ragion d’essere per cui può sempre risorgere dalle proprie ceneri, cambiando ogni volta completamente assetto. Dall’economia della pura produzione automatizzata dell’Ottocento, siamo arrivati all’economia puramente finanziaria e smaterializzata oppure a quella digitale, per finire con il vestimento green di ogni attività economica, per cui non è importante come avvenga la produzione di energia, ma l’importante per la coscienza è che l’autovettura sia elettrica. C’è una sorta di compartecipazione e di tacito accordo tra l’uomo occidentale e un sistema economico il quale, sebbene palesemente lo stia portando verso l’estinzione, rimane accettabile ed esclusivo, ossia privo di qualsiasi possibilità alternativa. Ci dobbiamo pertanto interrogare sulle ragioni di questa acquiescenza e di questa implicita condivisione: perché non ci rendiamo conto che il sistema tardo-capitalistico costituisce una fiction? E non comprendiamo la sua natura ipocrita e sin troppo irridente, allorquando si ipotizzano riduzioni dell’emissione di gas serra in percentuali assolutamente inutili e soprattutto pianificate nell’arco di decenni e decenni? Non si tratta forse di una commedia tragico-comica di cui tutti noi siamo più o meno inconsapevolmente partecipi?

Se vogliamo cogliere l’essenza di questa collusione, dobbiamo analizzare anche un’altra funzione del tardo-capitalismo, che è quella di immunizzare gli stress sociali endogeni e gli agenti stressanti allogeni, come appunto le pandemie, i cambiamenti climatici, etc. Il fatto che tutto divenga oggetto di profitto e di speculazione, fa sì che il soggetto si senta protetto e rassicurato, per cui il termine “permacrisi” può diventare il titolo di un nuovo fondo specializzato in determinati investimenti. Per ottenere questo risultato, il tardo-capitalismo usa sostanzialmente due tattiche: 1) la “mercificazione e il consumismo”, dimodoché qualsiasi evento, dal terremoto all’eruzione vulcanica diviene un oggetto di consumo nelle forme più svariate, dai gadget fatte di lava, ai documentari, dalle speculazioni edilizie all’edificabilità di spazi prima inaccessibili, dagli scoop giornalistici all’incremento legislativo-burocratico con tutto il suo correlato di nuove professionalità adibite ai processi di mediazione e in interpretazione delle norme. Tutto insomma è trasformabile in denaro, anche la catastrofe climatica e la morte di migliaia di esseri umani. 2) la “distrazione”: si tratta forse della tattica immunologica più importante, tant’è che una parola che potrebbe benissimo contendere il primato dell’anno a “permacrisi” è metaverso, termine coniato nel 1992 dallo scrittore Neal Stephensons. Come osserva il filosofo sloveno Slavoj Žižek, la nostra epoca è caratterizzata da un’ “epidemia dell’immaginario”, cioè da una fuga del soggetto verso mondi e involucri alternativi, i quali finiscono per sostituirsi alla realtà. Rinserrato in casa come una talpa con il condizionatore acceso, l’uomo si perde veleggiando nei suoi mondi virtuali in 3D nei quali si illude di comunicare con gli altri e di condividere fatti che di fatto sono inesistenti. La distrazione crea distanze sia temporali che spaziali, e rassicura il soggetto schermandolo dalle paure e dalle ubbie della crisi, facendone qualcosa di addomesticabile con la quale è possibile la convivenza. Disperso nella rete, egli risulta completamente deresponsabilizzato, se non – sempre per la falsa coscienza illuminata – ritiene davvero che la sua attività allo smartphone non sia impattante dal punto di vista climatico, senza pensare che i server che fanno funzionare l’intero accrocchio informatico sono terribilmente energivori.

 

4. Stress sociale e politiche fobogeniche

 

Definiamo fobogenesi quel processo per cui vengono poste in essere azioni finalizzate all’incremento generale della paura per ragioni politiche, economiche o di potere. La paura il cui etimo è la radice pat- che indica un essere-percosso, uno scuotimento, per sua natura è paralizzante e nelle sue forme più deteriori rende passivi. Storicamente la paura e le politiche fobogeniche sono state delle eccezionali forme di potere e di controllo sociale. Se pensiamo soltanto gli immaginari messi in gioco dal Terzo Reich, dalle divise delle SS agli stendardi con la croce uncinata nera e contornata di rosso sangue, dalle espressioni facciali dei protagonisti alle vere e proprie politiche di repressione sociale e di invenzione di capri espiatori multipli (ebrei, zingari, omosessuali, testimoni di Geova, etc.), ci rendiamo conto come il tema dominante sia la creazione della paura. Per Sloterdijk ciascuna società si costruisce attorno a nuclei di stress, tanto che il mantenimento di determinati agenti stressanti sono indispensabili alla sua coesione. In altre parole, i consorzi umani “inventano” in continuazione dei motivi di stress collettivo per incrementare l’aggressività interna in vista di qualche suo utilizzo futuro, proprio come usa fare una banca con il denaro affidato, oppure per cementificare i rapporti interpersonali in vista di una difesa da un presunto “nemico”.

Con la permacrisi siamo di fronte a una sorta di doppia immunizzazione: da una parte la parola stessa sembra sostituire una condizione reale effettivamente urgente, facendone un oggetto malleabile, del quale si può discutere e dissertare proprio come ora stiamo facendo; dall’altra la permacrisi è funzionale a quelle politiche fobogeniche le quali, oltre a mantenere elevato lo stress sociale, diventano pure funzionali all’ingranaggio tardo-capitalistico. La crisi permanente è essenziale al meccanismo economico, ne è il propulsore anche etiam perinde cadaver, poiché esso non è più un elemento essenziale per la vita di una comunità garantendo lo scambio delle merci e la sopravvivenza degli individui, ma si è trasformato in una “macchina astratta”, come dicevano Deleuze e Guattari. L’uomo non è il fine del tardo-capitalismo, ma esattamente come il pianeta che abitiamo, è divenuto un semplice mezzo per un accrescimento asintotico che non avrà termine se non con l’estinzione della specie.

L’incremento sociale causato dalle politiche fobogeniche, aumenta paradossalmente il bisogno di ulteriori fonti di sicurezza, portando così a speculazioni estreme (pensiamo ai costi iniziali delle mascherine chirurgiche durante il covid-19) oppure al ricorso a pratiche emergenziali in cui sullo sfondo, oltre al rischio delle derive totalitarie, rimane sempre la ricerca del surplus di profitto. Le politiche fobogeniche sono quasi immanenti al sistema sociale e all’indole umana, per cui vengono ad esempio supportate e rafforzate dalla comunicazione mass-mediatica che, alla stregua di un amplificatore, radicalizza l’informazione a scopi palesemente terroristici. L’elenco giornaliero dei decessi in guerra, per l’epidemia o per qualche catastrofe climatica manifesta un disegno perverso, che vuol far soccombere un animale ormai atterrito e senza difesa onde renderlo più malleabile e veicolabile.

 

5. Il cupio dissolvi e l’assenza di futuro

 

Senza scomodare il Todestrieb di Freud, cioè quella “pulsione di morte” che spingerebbe ogni essere vivente verso lo stato inorganico, indubbiamente la psicologia del soggetto oggi presenta un connotato abbastanza frequente, almeno nel mondo occidentale: l’assenza del futuro. Martin Heidegger in Essere e tempo aveva dato un’impostazione futurocentrica all’esistenza di un uomo usualmente disperso nel presente e nell’immediato. Egli definì questa condizione “deietta”, come se rappresentasse una caduta nei confronti invece di una vita che si basa sulla progettualità e sull’apertura del pensiero verso il tempo che verrà. In fondo però Heidegger non celava delle tonalità oscure, in sintonia con un certo clima tanatologico della sua epoca: questa apertura nei confronti del futuro in fondo si fondava nella sua teoria sulla possibilità di quell’impossibilità che è la morte, cioè qualcosa che fuoriesce dai circuiti del senso e del controllo dell’uomo. Ora, riprendendo la figura del neo-cinico di Sloterdijk, potremmo dire che l’uomo agli inizi del XXI° secolo è certamente heideggeriano, con la differenza che la possibilità del non-senso o, se vogliamo, la consapevolezza che nulla ha senso, innesca indubbiamente i meccanismi della prassi ma non orientandoli verso una responsabilizzazione collettiva. In breve, il soggetto sa che quello che fa non è giusto poiché depaupera le risorse ambientali, inquina, danneggia gli altri, incrementa la povertà globale, surriscalda il clima, etc., ma lo fa comunque poiché è convinto che nessuna di queste cose abbia senso. Si tratta forse dell’ondata lunga del nichilismo novecentesco, cioè dell’Occidente nel suo significato originario riferito al movimento del sole, cioè dell’occaso o del tramonto della nostra civiltà: come in ogni tramonto, la perdita sentita emotivamente viene compensata da un atteggiamento cinico e dalla dispersione nell’immaginario, nella convinzione che tutto sia fatuo.

 

6. Dipendenza, responsabilità e libertà

 

Sempre rimanendo in territorio heideggeriano, l’insensatezza del dover morire e l’apertura del tempo verso il futuro, pongono il soggetto nella condizione di decidere, di fare delle scelte. Abbiamo visto come nel greco κρίνειν oltre all’elemento di taglio-rottura, sia compresente l’elemento della “decisione” che deriva dal latino de-cidere e da una radice kad- che originariamente rimanda a un “tagliare”, a un “separare”. La decisione implica una svolta che crea instabilità, insicurezza allo stesso modo della permacrisi: in sostanza, per tentare di smussare l’impatto con l’evento esterno è necessaria un’ulteriore esposizione al rischio, una sorta di scommessa che in un periodo di assenza di futuro vien data già per perduta.

Questo pessimismo collettivo, segno evidente di una società depressa che deve ricorrere a varie forme di ausilio artificiale per sostenere il quotidiano, viene sorretto dal controcanto dell’ideologia dell’autonomia e della libertà assoluta. Questa ideologia, in gran parte suggerita dal pensiero illuminista e da un Rousseau che ad esempio ipotizzava una libertà intesa come sganciamento totale dalle preoccupazioni mondane e dalle responsabilità soggettive, è stata probabilmente promossa dal pensiero neoliberista e dall’idea di origine fisiocratica che le cose si auto-regolano e si auto-stabilizzano indipendentemente dall’intervento umano. Come osserva Foucault, uno degli imperativi del dispositivo di sicurezza è proprio laissez faire, “lascia fare”, poiché la libertà è universale ed ogni processo in sé è autonomo. Questo “lasciar fare” prevale ancora oggi in gran parte delle geo-politiche che occultano questo “credo” con delle strategie finzionali a lungo termine che hanno soltanto lo scopo consolatorio di sentirci in pace con la coscienza.

L’ideologia della libertà assoluta collide tuttavia contro il concetto di dipendenza: è difficile e invero poco auspicabile pensare a un’autonomia assoluta, poiché anche quel soggetto che non dipenderà più dal proprio corpo, dagli organi, dal cuore pulsante, dal cervello, etc., in quanto, secondo l’ipotesi transumanista, sarà completamente disincarnato, ecco anche quel soggetto dipenderà dal silicio delle schede elettroniche, dai microchip e da chi li produce, dall’energia che serve per alimentarli, etc. Ma anche la dipendenza, come la libertà, non può essere assoluta, poiché in qualsiasi rapporto di subordinazione funziona un doppio-vincolo, cioè un legame che lega l’uno all’altro in uno stato di equilibrio in perenne oscillazione. A suo modo la dipendenza è securizzante e rasserenante, poiché lega più persone tra di loro in una mutualità che può essere anche solidaristica. Sullo sfondo tuttavia si profila una dipendenza assoluta – e questa sì che è ineludibile: possiamo chiamarla “reale” per utilizzare un termine caro a Lacan, oppure più semplicemente Terra o, ancora meglio, Γαῖα in greco ionico a indicare la dea primordiale. Probabilmente la secolarizzazione che ha caratterizzato l’Occidente negli ultimi secoli ha fatto sì che l’aspetto divino, out-of-joint e trascendente della terra sia venuto meno: tecnicamente anche l’idea antropocentrica che il destino della terra dipenda dall’uomo, costituisce l’effetto illusorio e mistificante di questa fallacia. L’uomo dipende dalla Terra, la quale, oltre a costituire un doppio-vincolo, cioè oltre a instaurare un rapporto di mutualità, può istituire un triplo-vincolo, cioè una dipendenza in più e non controbilanciabile dalla quale siamo necessariamente assoggettati.

Il processo di deresponsabilizzazione di cui abbiamo fatto cenno deriva forse da questa fallacia, dalla falsa credenza di essere indipendenti per cui non c’è nessun legame rispetto al quale sia applicabile una qualche forma di “dover-essere”. Le forme di immunizzazione fatalistica nei confronti del futuro – “prima che succeda qualcosa ci vorranno secoli e io sarò già morto”, “tutto diviene”, “torneranno le ere glaciali”, “e se cadesse una meteorite?”, etc. – nascondono la precisa volontà neo-cinica di non dover niente a nessuno e di non essere responsabili. Se effettivamente l’esistenza non ha senso, ancora più insensata appare l’idea di “non” dipendere dalla Terra in cui abitiamo: “avere de facto una responsabilità qualsiasi per un essere qualsiasi in qualsiasi momento (perciò neanche farvi fronte, soltanto sentirla) fa parte in modo così inscindibile dell’essere umano come il fatto che egli è in generale capace di responsabilità – o come il fatto che egli è un essere parlante – e dovrebbe perciò rientrare nella sua definizione, se qualcuno si preoccupasse di un’operazione così problematica. In questo senso un dover essere è contenuto molto concretamente nell’essere dell’uomo esistente” (Hans Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1990, p. 125).

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