Da oltre cento anni la nonviolenza si è trasformata da esperienza testimoniale di singoli in efficace metodo di lotta di massa. Solo per fare qualche esempio, è accaduto in Sudafrica, in India e perfino durante il nazismo in Danimarca. Oggi la straordinaria potenza della nonviolenza come lotta è nutrita anche da molte donne iraniane.
Ho letto su Domani del 12 novembre un articolo del politologo Vittorio Emanuele Parsi dal titolo “Gli ucraini sono pronti a morire per la libertà, e noi italiani?”, la cui argomentazione è finalizzata – se ho bene inteso – a rilegittimare “la guerra come strumento ultimo al quale affidare la difesa della nostra libertà”. Recuperando, a questo scopo, il pensiero binario ottocentesco di Carl Schmitt che fonda la politica sulla dicotomia amico/nemico, che – a suo dire – dovremmo riportare in auge, perché aver rimosso l’hostis, il nemico, dal nostro orizzonte, porterebbe non alla pace ma “alla lotta di tutti contro tutti per il trionfo degli interessi particolari”. È l’antica logica del capro espiatorio, ampiamente spiegata da Renè Girard, sulla quale non ho nulla da aggiungere se non che è stata recuperata dal fascismo – “taci, il nemico ti ascolta” – ma è principio caro a ogni dittatura – o autocrazia o democratura – che risolve il problema del conflitto interno (o, a volte, più banalmente del calo nei sondaggi) nella santa alleanza col popolo contro il comune nemico esterno.
Ma il punto focale del pensiero di Parsi, che esplicita quanto contenuto nel titolo del pezzo, sta nella domanda “per che cosa siamo disposti a morire e a uccidere?”. Alla quale risponde che aver fede in un “irenismo integrale”, facendo del principio “non uccidere” una prescrizione assoluta “che non tollera eccezioni”, non può che essere una “testimonianza” ossia una scelta individuale “poco efficace rispetto alla sopravvivenza di un popolo in quanto tale – cioè di un soggetto politico”. Anzi questo equivarrebbe alla scelta di “vivere da servi su questa terra”, perché un “popolo vive finché è capace di lottare per la propria libertà” – ossia fare la guerra contro un nemico, nel linguaggio di Parsi – “altrimenti cessa di esistere come popolo”. Ho virgolettato i concetti salienti del politologo perché non vorrei interpretare il suo pensiero diversamente dalla sua intenzione, visto il susseguirsi di frasi che paiono desunte direttamente dai discorsi dannunziani delle “radiose giornate di maggio”, che precipitarono il Paese nella “inutile strage”, come fu definita da papa Benedetto XV la prima guerra mondiale.
In queste righe Vittorio Emanuele Parsi fa un salto all’indietro che bypassa e ignora quanto scritto nella Costituzione repubblicana, alla quale i Costituenti iniziarono a lavorare a poco meno di un anno dalle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Per questo non sembrò loro abbastanza esplicito il verbo “rinunciare” della prima stesura di quello che sarebbe diventato l’Articolo 11 e scelsero il verbo “ripudiare”, che contiene il disprezzo per ciò che si è conosciuto e si vuole allontanare definitivamente. Inoltre, non sembrò sufficiente ripudiare la guerra come “strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”, ma aggiunsero anche come “mezzo di risoluzione delle controverse internazionali” perché sapevano sia che i conflitti non sono eliminabili, sia che nessun conflitto – soprattutto nell’epoca atomica – può essere risolto davvero con la guerra, per cui è necessario trovare mezzi alternativi ad essa per affrontarli e risolverli. A questo scopo il secondo comma dell’articolo 11 – che “consente alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” e “promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo” – fa riferimento all’ONU, costituita nel 1945 con lo stesso spirito della Costituzione italiana: “liberare l’umanità dal flagello della guerra” attraverso la risoluzione delle “controversie internazionali con mezzi pacifici”.
Non solo Parsi pare ignorare tutto ciò – ponendosi in un’orizzonte pre (o anti) costituzionale – ma non riconoscendo alternativa tra il fare la guerra e il “vivere da servi” dimostra di non conoscere la teoria e la prassi politica – tutt’altro che “testimonianza individuale poco efficace” – fondata storicamente da Mohandas Gandhi l’11 settembre del 1906 nel Teatro imperiale di Johannesburg, con il quale trasformò la nonviolenza da esperienza testimoniale di singoli asceti in efficace metodo di lotta di massa. Prima in Sudafrica e poi in India, fino alla conquista dell’indipendenza e dell’autogoverno “di un popolo in quanto tale”, appunto. Narrano le cronache che quella sera, di fronte a chi contestava la lotta nonviolenta rivendicando la necessità di “uccidere qualche qualche funzionario” per far cambiare le leggi sbagliate, Gandhi rispondesse che essere disposti a morire per la causa in cui si crede è necessario, ma è necessario altresì non essere disposti a uccidere per nessuna causa. E su questo principio fondò la forza – non la debolezza – della lotta nonviolenta. Che, da allora in avanti, si è diffusa in ogni parte del mondo, contro regimi e oppressioni di ogni colore politico e religioso. Pensi Vittorio Emanuele Parsi, per esempio, alla straordinaria lotta in corso delle donne iraniane.
Potrei suggerire molti testi di filosofi italiani della politica che hanno affrontato con grande acume l’irruzione del metodo nonviolento sullo scenario della politica internazionale – per esempio, Aldo Capitini, Norberto Bobbio, Giuliano Pontara – ma suggerisco invece la rilettura del testo classico di una filosofa che viene spesso citata nel dibattito pubblico, ma non sempre letta fino in fondo, ossia Hannah Arendt. La quale, ne La banalità del male, indicava nella resistenza danese all’occupazione nazista un esempio da studiare in tutte le università: la Danimarca è l’unico paese europeo nel quale il governo decise di non contrapporre alla potenza di fuoco della wehrmacht il piccolo esercito, che sciolse, ed il popolo organizzò una grande e significativa resistenza civile e non armata, fatta di sabotaggi e solidarietà. Spiega Hannah Arendt:
“A quel che si sa fu questa l’unica volta che i nazisti incontrarono una resistenza aperta, e il risultato fu a quanto pare che quelli di loro che vi si trovarono coinvolti cambiarono mentalità. Non vedevano più lo sterminio di un intero popolo come una cosa ovvia. Avevano urtato in una resistenza basata su saldi principi, e la loro durezza si era sciolta come ghiaccio al sole permettendo il riaffiorare, sia pur timido, di un po’ di vero coraggio”.
“Su questa storia – che salvò, unico paese in Europa, il 98 per cento dei cittadini danesi di origine ebraica (ndr) – si dovrebbero tenere lezioni obbligatorie in tutte le università ove vi sia una facoltà di scienze politiche, per dare un’idea della potenza enorme della nonviolenza, anche se l’avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori”.
Tra uccidere e morire c’è dunque una terza via, che non passa necessariamente attraverso la “servitù volontaria” come spiegava Étienne de la Boétie già nel 1549: vivere, come suggeriva la Cassandra di Christa Wolf. E lottare con la nonviolenza.