1. La guerra dei nostri giorni

La frequenza delle guerre nell’ultimo ventennio, dopo il crollo del blocco sovietico, costringe a riflettere sul “nuovo ordine mondiale” e in particolare sui fini perseguiti su scala mondiale dalla “grande potenza” rimasta. Quanto ai mezzi, la guerra resta evidentemente in primo piano, anzi tende a diventare permanente e senza regole.

Ben prima del 1989, negli anni Settanta, era iniziata la svolta restauratrice, con le ricette della Commissione Trilaterale per la democrazia (v. Crozier, Huntington e Watanuki 1977) e con quelle monetariste per l’economia, con il neo-liberismo più o meno illiberale e antidemocratico, con Reagan, Thatcher e, prima ancora, Pinochet. Il mito di un mondo unificato dallo “sviluppo” è stato sostituito dalla preoccupazione per la “sicurezza” rispetto alle resistenze della periferia globale, le cui riserve di risorse naturali e di lavoro a buon mercato devono garantire, al centro, i profitti dell’ipertrofica finanza.

Come sempre, le guerre si spiegano in riferimento al quadro storico, all’evolversi delle istituzioni economiche e politiche, nazionali e internazionali. D’altra parte, le nuove caratteristiche della guerra sono di per sé rilevanti, e illuminanti riguardo alla situazione complessiva.

Vi sono guerre locali e periferiche, che occorre comunque comprendere in rapporto con le dinamiche globali del mercato e del potere. Vi è poi quella che potremmo definire guerra civile globale, permanente e asimmetrica. I termini pubblicitari via via inventati per designare gli episodi di questa guerra ne rivelano la novità, mentre ne dissimulano il significato: “operazione di polizia internazionale” (Iraq 1991), “Restore Hope” (Somalia 1992-93), “guerra umanitaria” (Yugoslavia, 1999), “Enduring Freedom” (Afghanistan, 2001), fino alla “guerra preventiva” contro l’Iraq.

Nella guerra “globale” iniziata nel 1991 il conflitto è essenzialmente “civile” e interminabile perché si tratta della vita stessa delle società, del loro modo di organizzare la sussistenza e la convivenza. E naturalmente, si tratta degli Stati Uniti d’America. Non perché siano migliori o peggiori degli altri, ma semplicemente perché sono i protagonisti, nel senso letterale del termine, del “capitalismo universale”, come scriveva Karl Polanyi all’inizio del 1945 (v. oltre).

Per dire quel che è ovvio, ma non si deve dire, cito un libro pubblicato nel centro dell’impero, dove si legge che l’interventismo americano ha, sinteticamente, i seguenti scopi:

“1) rendere il mondo aperto e ospitale per – come si usa dire – la globalizzazione, cioè in particolare per le corporations transnazionali con base americana; 2) migliorare i conti finanziari di coloro che forniscono, in patria, beni e servizi per la difesa, e hanno dato generosi contributi ai membri del Congresso e agli ospiti della Casa Bianca; 3) prevenire il sorgere di qualsiasi società che possa offrire un esempio di successo di un’alternativa al modello capitalistico; 4) estendere l’egemonia politica, economica e militare sulla più larga parte del mondo possibile, per prevenire l’affermarsi di qualsiasi potenza regionale che possa sfidare la supremazia americana, e per creare un ordine mondiale ad immagine dell’America, come conviene all’unica superpotenza del mondo.”(Blum 2000, pp. 13-14)

Diversi aspetti del cambiamento della guerra andrebbero considerati: da quelli giuridici al progressivo aumento della proporzione delle vittime civili sul totale, arrivata alla fine del secolo a oltre l’80%. Quest’ultimo, drammatico problema è legato alle caratteristiche – tecniche, politiche, ideologiche – della guerra contemporanea. Mary Kaldor (1999) scrive, riferendosi in particolare alla guerra nell’ex-Yugoslavia, che appare sempre più difficile distinguere tra civili e militari, tra coloro che portano legittimamente le armi, i non combattenti e i criminali. Inoltre, argomenti morali vengono addotti a giustificazione della guerra, e ciò porta facilmente a contrapposizioni – fra etnie e fra “civiltà”, fra il bene e il male, fra umanità e disumanità – sempre più radicali e irrimediabili, insomma assolute e quindi senza regole. Rientra in questo quadro anche la bilancia truccata di quella che Danilo Zolo (2000) chiama “‘giustizia politica’ internazionale”, la quale è tanto adatta a fini propagandistici quanto in contrasto con il principio della separazione dei poteri. I vincitori hanno istituito e finanziato i tribunali, imputato crimini ai vinti e assolto se stessi a priori, svolgendo perfino funzioni di polizia giudiziaria. Essi possono, del resto, far valere il precedente, a loro stessi dovuto, dei vinti processati in Germania e Giappone dopo la Seconda guerra mondiale.

Le norme dello jus in bello – anzitutto quelle contenute nelle Convenzioni di Ginevra del 1949, nei Protocolli Aggiuntivi del 1977 e in quelli derivanti dalla “Convenzione delle Nazioni Unite su certe armi convenzionali” del 1980 – vietano “metodi e mezzi di guerra capaci di causare mali superflui o sofferenze inutili” ai combattenti, e a maggior ragione ai non combattenti, i quali non devono comunque essere attaccati direttamente. Occorre anche evitare “danni estesi, durevoli e gravi all’ambiente naturale”. Nelle nuove guerre, in realtà, i divieti sono stati progressivamente vanificati; non solo, ma morte, sofferenze e danni vengono provocati con armi esse stesse vietate, come le bombe a frammentazione, quelle al fosforo, o l’uranio impoverito.

Nel 2004 sono iniziate, contro obiettivi in territorio pakistano, le operazioni americane che impiegano “droni”, aerei senza pilota, e sono soggette a segreto in quanto gestite direttamente dai servizi segreti. Neanche il rapporto tra i governi americano e pakistano è molto trasparente. Azioni di questo tipo non hanno più nulla a che fare con la guerra tradizionale e con il diritto internazionale, ma manifestano piuttosto l’arbitrio di chi possiede sufficiente capacità tecnica per colpire chiunque e dovunque e sufficiente potere politico per non essere messo sotto accusa. E non si tratta semplicemente della follia isolata di un generale, come nel film Toys di Barry Levinson (1992), ma dell’affermarsi di una tendenza. Questo sviluppo della “guerra contro il terrorismo” ne accentua l’asimmetria tecnica e politica, e anche, o anzitutto, l’asimmetria delle vite perdute: nessun rischio per gli attaccanti, mentre si valuta che, nel 2009, fra le 708 persone uccise, i presunti terroristi siano solo uno su 140. Philip Alston, che ha condotto un’indagine per conto dell’United Nations Human Rights Council (UNHRC), ha chiesto il 27 ottobre 2009 che gli Stati Uniti dimostrino che non si tratta di uccisioni indiscriminate di civili e, successivamente, che, almeno, siano le forze armate regolari ad usare i droni. Gli operatori di tali apparecchi, in effetti, potrebbero essere considerati criminali, non solo per il “random killing”, ma anche per l’assenza delle condizioni (ad esempio, la riconoscibilità data dalla divisa) che, secondo le Convenzioni di Ginevra, consentono di applicare le garanzie previste per i combattenti regolari. Proprio l’assenza di quelle condizioni viene (asimmetricamente) invocata per giustificare il trattamento (giudiziario e carcerario) dei detenuti nella base di Guantanamo (cfr. Reuters 2009 e Savage 2010).

Nella guerra asimmetrica, e nella forma di conflitto permanente che essa assume in dati territori, tendono a non venire più rispettati i principi dell’uguaglianza fra combattenti, della distinzione tra combattenti e non combattenti e della protezione di questi ultimi, del divieto di pratiche quali l’assassinio (le “uccisioni mirate”), la tortura e il ricatto. Sembra che non ci sia modo di ottenere il rispetto dei diritti delle popolazioni di territori occupati. I duri fatti non solo vanificano i buoni principi, ma tendono a modificare il nostro atteggiamento, e quindi la nostra percezione della realtà.

Appare significativo in questo senso, fra i numerosi studi sulle nuove guerre, il libro che Michael Gross dedica ai Dilemmi morali della guerra moderna (2010). Tortura, assassinio e ricatto, egli scrive ad esempio, tendono a diventare la regola. Stati potenti e aggressivi, che impiegano anche tali metodi, possono contare sull’acquiescenza internazionale. Inoltre, la realtà di fatto, l’asimmetria dei conflitti in primo luogo, preme per una revisione di regole quali l’immunità dei non combattenti e il divieto di provocare danni superflui e sofferenze non necessarie. E così via. Ma egli stesso sembra propenso ad accettare una nuova “morale”, che riguarda in particolare la criminalizzazione di coloro i quali resistono contro interventi umanitari, difendono “stati canaglia” o sono agenti o sostenitori del terrorismo internazionale. E ai criminali non si addicono le vecchie norme umanitarie. L’analisi esaustiva e intelligente di Gross tende a limitarsi a considerazioni tecniche, da una parte, e morali dall’altra. Ma le prime restano ambigue e le seconde moralistiche, nella misura in cui è assente l’analisi storica concreta. Gross non si cura, per esempio, dei motivi reali delle guerre umanitarie, non si chiede chi e su quali basi attribuisca la qualifica di “canaglia” a uno stato, dà per scontato che la NATO rappresenti la “comunità internazionale”, ritiene che si possa nettamente distinguere il terrorista dal combattente per la liberazione, attribuisce paradossalmente un’uguale responsabilità riguardo alle distruzioni e alle stragi di civili ad entrambe le parti del conflitto asimmetrico. Infine, del blocco come metodo di guerra non si parla in tutto il libro, neanche nell’Appendice, dedicata alla guerra di Gaza (dicembre 2008-gennaio 2009), asimmetrica quanto mai.

È ben vero che, dopo mezzo secolo di embargo contro Cuba, tale provvedimento sembra divenuto normale. Ma più di un secolo fa era normale, invece, dire che il blocco come mezzo di guerra, quando non riguarda un presidio militare nemico, ma è “diretto ad arrestare il commercio dei privati e dei neutri”, va considerato “in opposizione ai principii fondamentali del diritto delle genti, ormai ammessi in modo indiscutibile” (Carnazza Amari e Peratoner, 1894, pp. 392-3). Possiamo considerare questo un sintomo del grande cambiamento della qualità della guerra nel corso del XX secolo, non solo dal punto di vista tecnico, ma anche da quello storico-sociale. Ripercorrere tale evoluzione – della quale soprattutto gli inermi, popolazioni intere, subiscono le conseguenze – sarebbe utile per capire la guerra attuale. Naturalmente, potrò fare solo qualche accenno, riferendomi, essenzialmente, a questioni poste da autori del passato, in particolare da Polanyi.

 

2. La pace prima e dopo la Grande Guerra

 

Polanyi fu ufficiale di cavalleria nell’esercito austro-ungarico dal 1915 al 1917, quando fu riformato per malattia. Nell’articolo “La missione della nostra generazione” (1918) egli riflette sulla guerra, sull’angoscia provocata dalla difficoltà di dare ad essa un senso. Particolarmente impressionante, inaudito, egli osserva, è il martirio di popolazioni intere:

La guerra, smisurata qual è, contiene un paradosso, che turba la ragione. La guerra è strumento per uno scopo. Ma questa guerra e questo esercito non possono esserlo. Le poche migliaia di soldati degli eserciti del passato stavano allo stato per il quale combattevano come la parte sta all’intero. E può essere ragionevole sacrificare la parte per la salvezza dell’intero. Ma in questa guerra tutti hanno contato come soldati; anche chi non era militare ha subito la limitazione della libertà, ha rischiato il patrimonio, è stato soggetto a una vita di stenti. La guerra, che riduce alla fame interi popoli, non risparmia nemmeno donne e bambini. Il numero degli infanti periti in questa guerra è quasi uguale a quello degli uomini adulti. Qui non ci sono più scopo e mezzo, parte e intero, ma piuttosto il rischiare l’intero e, se necessario, sacrificare l’intero… per l’intero. (Polanyi 1918, p. 40)

Emigrato da Budapest a Vienna nel 1919, Polanyi scrive dapprima per giornali ungheresi; nel 1924 inizia il suo lavoro di redattore del settimanale “Der Österreichische Volkswirt”, del quale diviene “direttore all’estero” dal 1933 – anno in cui è nuovamente costretto ad emigrare, a Londra. Fino al 1938, quando il “Volkswirt” viene chiuso in seguito all’Anschluss, Polanyi vi pubblica oltre 250 articoli, prevalentemente sulla politica e sull’economia mondiali. Il tema della pace rimane un suo interesse costante.

Commentando nel 1925 il Congresso dell’Internazionale Socialista e Laburista tenutosi a Marsiglia, Polanyi mostra di condividere la tesi della delegazione austriaca guidata da Otto Bauer: solo l’Internazionale potrebbe agire costruttivamente per la pace, perseguendo una politica indipendente da quella della Società delle Nazioni, oltre che dai Diktat del capitale finanziario americano e inglese, e mantenendo un rapporto con Mosca e l’Internazionale comunista. La sconfitta nel Congresso di questa tipica posizione del socialismo austriaco ostacola, secondo Polanyi, la funzione che l’Internazionale potrebbe svolgere per garantire la pace. Solo essa, in effetti, sarebbe in grado di predisporre una condizione essenziale a tal fine: la costruzione in ogni paese di una democrazia politica e di un “movimento popolare” capaci di costringere i governi a collaborare con la Società delle Nazioni (Polanyi 1993 [1925], pp. 19-20). Polanyi considera significativo in questo senso che il pur moderato Labour Party, nel breve tempo in cui rimase al governo nel 1924, abbia lavorato per la pace. Il Protocollo di Ginevra, presentato dal primo ministro inglese Ramsay MacDonald insieme al suo collega francese Edouard Herriot, era un tentativo di risolvere il problema delle sanzioni da comminare in caso di azioni di guerra e di avviare un piano di disarmo. Ma la caduta del governo laburista suscita in Polanyi il timore di un’inversione di rotta della diplomazia britannica (Polanyi 1993 [1924]). Infatti il successivo governo conservatore di Stanley Baldwin ripudiò il Protocollo.

Polanyi viene influenzato dal dibattito sulla pace tra socialisti e liberali, nella “Vienna rossa” dei primi anni Venti. Si forma allora il nucleo della tesi sviluppata nella Grande trasformazione: con la Grande guerra la crisi del capitalismo liberale del XIX secolo ha raggiunto il culmine. L’equilibrio del potere tra le potenze europee e la rete internazionale degli interessi della haute finance, sostiene Polanyi, avevano garantito, dopo il Congresso di Vienna del 1815, un secolo di pace, nel senso di evitare almeno “le guerre generali”, anche se non i duri metodi del colonialismo e “l’uso spietato della forza contro i paesi più deboli”. L’interesse per la pace era stato un sottoprodotto di quello economico e del “contatto tra finanza e diplomazia” (Polanyi 1974 [1944], pp. 18 e 14). Ma la Prima guerra mondiale è precisamente l’esito della crisi definitiva del sistema liberale, provocata dalla concentrazione del capitale, dai diritti politici conquistati dal movimento operaio, dall’intervento protezionistico dello stato, dall’imperialismo e dalla sfida all’egemonia britannica. Ora, conclude Polanyi, la pace potrà solo essere il frutto di una consapevole costruzione, sulla base di una vita politica democratica, che a sua volta presuppone un’opinione pubblica informata, responsabile e coinvolta. Occorre inventare un nuovo adattamento della società alla rivoluzione industriale, sviluppando le conquiste democratiche del liberalismo in direzione del socialismo. Occorre difendere l’autonomia dei popoli, promuovendo la cooperazione tra loro.

Questo modo di considerare il problema della pace rientra nel grande cambiamento del modo in cui la società contemporanea concepisce la propria organizzazione e in particolare la propria organizzazione produttiva: dall’utopia utilitaristica del laisser faire, dell’autoregolazione mediante il mercato, all’organizzazione secondo un piano. Notoriamente intorno alla Prima guerra mondiale c’è stata un’intensificazione mai eguagliata non solo dei tentativi concreti di cambiamento, ma anche delle proposte di modi diversi di riorganizzazione. Basti qui ricordare, nel vasto ventaglio di progetti, oltre ai vari socialismi, “l’ingegneria sociale” invocata dagli “istituzionalisti” americani, o i due poli rappresentati dalla “nuova economia” di Walther Rathenau (1918) e dall’“economia naturale” di Otto Neurath (1919). Quest’ultimo riprende la teoria già avanzata prima della guerra: la programmazione economica in tempo di guerra può costituire il modello per un’economia di pace, in cui le transazioni di mercato e la moneta stessa vengano sostituite da un controllo diretto delle risorse, da una loro gestione in senso lato politica.

V’erano, d’altra parte, coloro i quali, anche di fronte alla guerra, continuavano a ritenere il libero mercato l’unica vera garanzia della pace. Questa era ormai, secondo Polanyi, un’anacronistica ideologia, una tesi mistificante o almeno illusoria. La si trova, ad esempio, nel libro in cui un protagonista della Scuola austriaca di economia, Ludwig von Mises, sostiene la necessità di attenersi alla razionalità economica, che si esplica nel libero mercato e apporta benessere e pace. Mises contrappone tale razionalità al protezionismo e al bellicismo, che a suo avviso sono insiti nell’ideologia statalista, sia quella delle vecchie classi dominanti, in particolare degli Junker, sia quella dei socialisti (Mises 1919). Un altro protagonista dell’ambiente viennese, Joseph Schumpeter, si rende conto che il mercato è in realtà determinato dal potere di trust e cartelli, ma grosso modo collima con il pensiero di Mises la sua opinione che ciò dipenda soprattutto dal protezionismo statale, residuo di una mentalità premoderna. Secondo Schumpeter (1919), lo sviluppo del capitalismo e della concorrenza farà decadere il dominio del capitalismo monopolistico basato sulla produzione per l’esportazione (“Exportmonopolismus”), fautore dell’imperialismo e quindi della guerra. Schumpeter tenta insomma un’impossibile mediazione tra Mises e John Hobson (1902). Secondo quest’ultimo, l’imperialismo e la guerra costituiscono un vantaggio per i grandi interessi economici, capaci di indirizzare la politica degli stati, ma non per la nazione nel suo complesso. Schumpeter, in seguito, non solo riconoscerà l’inevitabile e irreversibile evoluzione monopolistica del capitalismo, ma vi scorgerà qualche vantaggio. Per il momento, tuttavia, egli resta nell’ambito della “critica piccolo-borghese e reazionaria dell’imperialismo capitalista”, la quale, scrive Lenin (1971 [1917], p. 183) sogna “un ritorno indietro, alla ‘libera’, ‘pacifica’, ‘onesta’ concorrenza”.

L’opinione che il libero mercato e l’interesse economico siano la vera garanzia della pace s’intreccia, prima della Grande Guerra, con la discussione sulla “convenienza” della guerra. I nazionalisti pretendono che essa sia vantaggiosa anche economicamente; i pacifisti chiamano questa “la grande illusione”: così suona il titolo del famoso libro di Norman Angell (1910), dove si sostiene che il paese che si appropria della ricchezza del nemico finisce per esserne danneggiato economicamente. Quest’idea verrà ripresa da Keynes (1919) nella sua critica ai Trattati di pace. Angell continua, comunque, a dare un certo credito all’illusione che il libero commercio scongiuri la guerra.

In un articolo del 1915, Thorstein Veblen riflette sulla congiuntura della guerra come resa dei conti – sbandierata, non senza fondamento, dalla propaganda dello schieramento opposto, sedicente democratico – con quel che resta dei sistemi di potere assoluto. Un sistema del genere vige in Giappone, secondo Veblen, ma anche in Germania si cerca di sfruttare il moderno sviluppo industriale ai fini di una politica di tipo dinastico, “facendo ricorso al patriottismo servile dell’uomo comune”. In questi casi è particolarmente evidente che l’interesse della popolazione non coincide con quello dei gruppi dominanti, e a colmare il divario interviene il sentimento, sollecitato dalla propaganda (Veblen 1954 [1915], pp. 251 e 248). Secondo Veblen, l’impresa moderna, la “business enterprise”, non si cura certo, di per sé, di fini dinastici e nazionali: ma non è affatto detto che, nel sistema industriale basato su di essa, gli interessi “affaristici” coincidano con quelli della società; né che il business non si giovi dei buoni uffici di intellettuali servi e del potere dei governi, anche del potere militare dello stato, fino alla guerra. Questi temi vengono già trattati nella Teoria dell’impresa (1904), in cui Veblen analizza la crisi del capitalismo (più o meno) concorrenziale, sostituito dal grande business industriale e (sempre più) finanziario. Lo sviluppo tecnico e le dimensioni raggiunte dalla produzione renderebbero necessario affrontare il problema dell’organizzazione complessiva del sistema economico, indirizzandolo a fini utili per la società. Ma gli “uomini d’affari, spinti dal movente dell’utile”, appoggiati da “militari, politici, clero e uomini di mondo”, reagiscono contro il cambiamento (Veblen 1970 [1904], pp. 284 e 248).

Un cambiamento è inevitabile, secondo Hobson: ma quale sarà? In quale direzione? Precorrendo le analisi di Polanyi sulla “trasformazione” e sulla necessità della democrazia per garantire la pace, Hobson prospetta l’eventualità di un nuovo capitalismo, non più liberale ma corporativo, in cui i “big business men”, organizzati in trusts, cartelli e associazioni, dispongono in pace e in guerra delle risorse nazionali, appoggiandosi a staffs di impiegati e politici, e, per il “governo dell’opinione pubblica”, alla stampa, alla scuola, alle Chiese, alla propaganda patriottica. La funzione di controllo da parte dello stato, in gran parte sottratta al parlamento e all’elettorato, dovrà essere congruente con “la più ampia libertà e il moltiplicarsi delle occasioni di fare privatamente profitti”, anche riorganizzando le tendenze imperialistiche del capitalismo (Hobson 1919, pp. 144 e 199-200). Questi sono motivi forti, secondo Hobson, per mettere in guardia contro “l’illusione pacifista” di coloro i quali affidano la pace all’interesse economico. In realtà, un fondamentale motivo dell’imperialismo e della guerra è la tendenza, inerente al capitalismo, all’eccesso dell’offerta di capitale in rapporto al livello della “domanda effettiva”. Occorre dunque mettere preliminarmente fuori gioco le “forti organizzazioni affaristiche”, capaci di condizionare le politiche degli stati. Allora la pace potrà essere costruita, mediante il passaggio dalla supremazia di classe a un governo realmente democratico, basato sullo sviluppo della “cooperazione intelligente” in vista di “finalità chiaramente definite” (ibid., pp. 79, 87 e 143).

Ciò che si verifica, invece, è che le tensioni non risolte portano alla grande crisi, al fascismo e a una nuova guerra. Si attua intanto la “grande trasformazione” del capitalismo, dal sistema istituzionale liberale a quello corporativo. Polanyi ne coglie i sintomi già negli anni Venti, ad esempio commentando l’inchiesta Britain’s Industrial Future (1928) (v. Polanyi 1993, pp. 50-64); ma solo l’emergenza della Grande crisi, come egli sottolinea nella Grande trasformazione, rende inevitabile il cambiamento istituzionale, necessario da decenni, sperimentato durante la Prima guerra mondiale (v. ad es. Maier 1975), ma sempre osteggiato dall’ideologia liberale. Ora il cambiamento – nelle sue diverse forme, dal New Deal al nazismo – ha via libera; ma a condizione che, sconfitte le classi lavoratrici, esso sia controllato dalle classi dominanti.

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3. Guerre esterne, guerre civili

 

Polanyi si dedicò all’insegnamento agli adulti durante tutto il periodo della sua permanenza in Gran Bretagna, principalmente collaborando con la Workers’ Educational Association (WEA). Questo era il suo modo di impegnarsi per la democrazia e la pace: diffondere la conoscenza critica della storia passata e presente. In tale attività rientra il saggio Europe To-Day (1937), in cui egli analizza, in modo chiaro e sintetico, ma profondo, l’evolversi della situazione internazionale dalla fine della Prima guerra mondiale alla Guerra Civile spagnola. Negli anni Trenta, egli spiega, la contesa tra stati che chiedevano la “revisione” dei Trattati di pace e stati fautori della “sicurezza collettiva” appare definitivamente come un “circolo vizioso” della diplomazia europea. La minaccia di una nuova guerra rende obsoleti i tentativi di garantire la vecchia pace. La crisi economica e la presa del potere da parte di Hitler segnano una frattura storica. Gli schieramenti – le alleanze e le contrapposizioni – dipendono ora, più che dalle contraddizioni del “sistema di Versailles”, dallo scontro tra progetti diversi di società: tra democrazia e fascismo, e, più in profondità, tra socialismo e capitalismo. Motivi ideologici, “civili” ora prevalgono nel determinare la dinamica dei rapporti internazionali. Inoltre, la scena si è allargata, dall’Europa al mondo (v. Polanyi 1995 [1937]).

L’idea del sovrapporsi del conflitto sociale alla vecchia politica di potenza, l’idea dell’intreccio tra guerra esterna e guerra civile, diviene drammaticamente attuale con la Guerra Civile in Spagna, ma viene già affacciata da Polanyi nell’articolo intitolato La pietra miliare 1935, che inizia considerando il senso e le conseguenze dell’aggressione italiana contro l’Etiopia. Siamo entrati in un nuovo periodo storico, egli osserva. Da una parte permangono o risuscitano i peggiori aspetti della vecchia politica “di potenza e di conquista territoriale”, evidenti nell’attività diplomatica e bellica dell’Italia, ma anche nella preminenza che la Gran Bretagna dà ai propri interessi coloniali in Africa e nel mondo rispetto a una difesa intransigente dei “principi della Società delle Nazioni” calpestati dall’Italia. D’altra parte, diviene determinante lo scontro tra forme alternative di organizzazione sociale. Ne deriva

lo stretto intricarsi di avvenimenti politici interni ed esterni. Non l’Italia ma il fascismo, non la Germania ma il nazionalsocialismo, non la Russia ma il bolscevismo, non gli Stati Uniti ma le nuove idee dell’epoca rooseveltiana sono i fattori del processo. L’Inghilterra lotta per mantenere la democrazia, il Giappone sperimenta un feudalesimo industriale di conio orientale. (Polanyi 1935, p. 183)

Un accenno a Carl Schmitt consente di mettere in rilievo come, all’epoca, alcune questioni s’imponessero alla riflessione, tanto che concetti simili si ritrovano in autori come Schmitt e Polanyi, che in generale interpretano la storia in modo divergente, e le cui teorie (e antropologie) politiche appaiono contrapposte.

Nel saggio sul “concetto di ‘politico’”, apparso originariamente nel 1927 e rielaborato nel 1932, Schmitt riconduce alla crisi della società liberale ottocentesca e al trauma della Prima guerra mondiale il superamento della guerra “limitata”, il fine della quale era di riequilibrare le relazioni tra stati, di cui presupponeva e garantiva l’esistenza. Si tende a ritornare – aggiunge Schmitt nel “Corollario” del 1938 al suo saggio – alla “guerra totale” del tempo delle guerre di religione o delle antiche faide, quando il fine non era la pace, cioè qualche tipo di stabilizzazione dei rapporti di potere fra stati, ma era l’annientamento del “nemico”, non più distinto dall’empio, dal “criminale”. Il mutamento della natura della guerra, sostiene Schmitt, è connesso con la tendenza del “politico” a divenire “politico di partito”: allora, “le contrapposizioni interne allo Stato acquistano intensità maggiore della comune contrapposizione di politica estera nei confronti di un altro Stato”. Contrasti economici e ideologici interni agli stati divengono “politici”, cioè determinano essi “il raggruppamento decisivo amico-nemico” e quindi “il caso di conflitto”, la decisione riguardo al quale caratterizza specificamente “il politico”. “In presenza di un simile ‘primato della politica interna’”, la “possibilità reale del conflitto” si riferisce dunque, secondo Schmitt, “non più alla guerra fra unità nazionali organizzate (Stati o Imperi), bensì alla guerra civile” (Schmitt 1972, pp. 115 e 126).

Il “breve” secolo ventesimo (1914-1989) – scrive Eric Hobsbawm in tempi che sono già i nostri e nel contesto di un’interpretazione complessiva della storia del XX secolo molto vicina a quella di Polanyi – è “un secolo di guerre religiose”; ovvero, per usare termini adatti alla modernità, di “religioni secolari antagoniste”, di guerre ideologiche. L’evoluzione in questo senso avviene durante il primo periodo, che dura dal 1914 a tutta la seconda guerra mondiale, e che Hobsbawm chiama “l’Età della catastrofe”. Nella voce War dell’edizione del 1911 dell’Encyclopedia Britannica, egli osserva, è indicata come acquisizione civile nel costume dei popoli europei la concezione della guerra “limitata […] a porre in condizioni di non nuocere le forze armate dell’avversario”, tenendo conto inoltre di regole umanitarie e, in senso lato, cavalleresche. La prima guerra mondiale ha avuto invece la tendenza ad assumere un carattere “totale”, nella misura in cui i suoi scopi erano illimitati. Tale illimitatezza dipendeva dalla pretesa di coinvolgere la massa degli appartenenti alle nazioni e, soprattutto, dal fatto che la rivalità politica internazionale prendeva a modello, o addirittura a motivo, la crescita e la competizione economiche, che sono processi di per sé illimitati. All’illimitatezza della guerra corrispose una pace limitata, “punitiva”, che impediva il reinserimento della Germania nel consesso internazionale, attribuendole la “colpa della guerra”, e che Schmitt considerava una non-pace, una continuazione della guerra (Hobsbawm 1995, pp. 16, 58 e 26-27).

Nel 1914, nota Hobsbawm, il tratto più tipico della guerra del nostro secolo non si era ancora affermato: “non era certo l’ideologia a dividere i belligeranti”, egli osserva; e le rivoluzioni che seguirono non furono una conseguenza della guerra, ma una reazione ad essa. Dopo la Seconda guerra mondiale, invece, tensioni rivoluzionarie “derivarono dalla partecipazione dei popoli alla battaglia mondiale contro i nemici”: contro i fascismi, contro gli imperialismi. L’alleanza antifascista tra capitalismo e comunismo aveva caratterizzato questa guerra, divenuta pienamente “guerra di ideologie” e nello stesso tempo “guerra totale”. Tanto è vero che la pace, stavolta, venne negoziata tra le sole potenze vincitrici (ibid., pp. 70, 19 e 58).

Anche Karl Polanyi, in The Great Transformation, mette in rilievo la differenza tra le due guerre mondiali. “La prima rimaneva ancora legata al tipo di guerra del diciannovesimo secolo”; essa era un “conflitto di potenze scatenato dalla caduta del sistema di equilibrio del potere”. La seconda invece, egli continua, è parte dello “sconvolgimento mondiale”, che ha radici lontane, ma erompe con la Grande crisi. Negli anni Trenta, e nella guerra in cui essi fatalmente finiscono, “il destino delle nazioni” appare “legato al loro ruolo nella trasformazione istituzionale”, alle diverse alternative, che esse rappresentano, di superamento del sistema liberale (Polanyi 1974, pp. 37 e 36). Il conflitto è fra diversi modi di interpretare il mondo, come al tempo delle guerre di religione; o meglio, modernamente, fra diversi progetti, fra diversi modi di cambiarlo.

La Guerra Civile spagnola appare a Polanyi (1937) la chiara manifestazione di una “contrapposizione interna” che indica “i poli opposti degli schieramento politici mondiali in un’ineluttabile guerra”. La Guerra Civile spagnola divenne, scrive a sua volta Hobsbawm (1995, pp. 189-190), “l’espressione più pura dello scontro globale” fra la democrazia e la rivoluzione sociale da un lato, e dall’altro “lo schieramento intransigente della controrivoluzione e della reazione” (ibid., pp. 192-193).

In Spagna fu finalmente affrontata l’avanzata del fascismo da parte delle sinistre e prefigurata l’alleanza dei fronti nazionali, che consentirà la vittoria contro il fascismo. D’altra parte, nota Hobsbawm (ibid., p. 195), dietro gli equivoci e le ipocrisie della politica di “non intervento” traspare l’ostilità del governo inglese a qualsiasi rivoluzione sociale. In Spagna si configura, sì, l’alleanza democratica che batterà il fascismo, ma, afferma Hobsbawm, resta in profondità la divisione più ovvia e costante, quella che divide l’Unione Sovietica da tutti gli altri stati. La politica internazionale del secolo può essere complessivamente interpretata, egli scrive, come una guerra “condotta dalle forze del vecchio ordine contro la rivoluzione sociale, ritenuta un processo legato alle fortune dell’Unione Sovietica e del comunismo internazionale” (ibid., p. 73).

Perché, si chiede Polanyi, le potenze “democratiche” si attengono a un’ipocrita neutralità di fronte all’assalto fascista contro la democrazia spagnola? Perché in precedenza (1933) era stato siglato il Patto delle Quattro Potenze? Perché Gran Bretagna e Francia adottano la politica illusoria dell’appeasement, che porta in realtà verso la guerra? In piena guerra, all’inizio del 1943, egli torna sulle ambiguità e gli scricchiolii dell’alleanza antifascista (v. Polanyi 1943). In The Great Transformation troviamo la spiegazione: in politica estera, la Germania nazista ha tratto vantaggio dal proprio ruolo di guida in un tipo di trasformazione delle istituzioni sociali che ostentava il proprio contrapporsi a quello sovietico, e che le “classi proprietarie”, tutto sommato, paventavano meno di quest’ultimo (Polanyi 1974, p. 308).

La “guerra civile” determina gli schieramenti e alimenta la tensione fra le nazioni; d’altra parte, il confrontarsi “ideologico” delle nazioni aggrava a sua volta il conflitto interno e danneggia la democrazia. Sia nella Grande trasformazione sia in articoli precedenti (v. p. es. Polanyi 1993 [1931]) Polanyi denuncia l’anticomunismo, che fa tutt’uno con l’identificazione del nemico nell’URSS, come strumento della lotta contro i tentativi di estendere e rendere effettiva la democrazia; perfino contro i moderati e passeggeri esperimenti di governo intrapresi dai laburisti in Gran Bretagna nel 1924 e nel 1929, e contro i governi di coalizione in altri paesi. Nella congiuntura in cui il crollo delle istituzioni economiche e politiche del capitalismo liberale ha scatenato la Grande crisi e il diffondersi del fascismo, Polanyi (1987 [1935]) arriva ad asserire l’“incompatibilità” tra capitalismo e democrazia. E scrive anzi, pochi anni dopo, che nella società capitalistica il “virus fascista” è connaturato e sempre pronto a svilupparsi in periodi di crisi (Polanyi ms. s.d.).

In un articolo precedente dedicato all’Italia (1928), Polanyi vede la guerra come prospettiva inevitabile, insita nell’atteggiamento “nazionalimperialistico” del fascismo. In Europe To-Day lo stato totalitario fascista viene presentato come l’organizzazione del popolo intero per la “guerra totale” e permanente, per “la guerra come risposta finale al problema della storia” (Polanyi 1995 [1937], p. 53).

Verso la fine della Seconda guerra mondiale, in uno manoscritto (s.d., ma fine 1944 o inizio 1945; tradotto in Polanyi 1987, pp. 151-160) in cui cerca di definire i nuovi termini in cui la “guerra civile internazionale” continuerà a dominare la scena dopo l’auspicata sconfitta del fascismo, Polanyi afferma che in tale guerra continua ad essere in gioco la democrazia: il suo significato, le sue istituzioni, i suoi metodi. Sulla democrazia, egli scrive, è tipicamente incentrato lo scontro delle ideologie nel XX secolo.

Sconfitti i regimi fascisti, la polarità USA-URSS diviene esplicitamente decisiva e dà forma alla nuova fase della “guerra civile internazionale”. Gli USA, che in occasione della guerra si sono decisi ad assumere attivamente il loro ruolo egemonico, sono rimasti, scrive Polanyi (1987 [1945], p. 158), “la patria del capitalismo liberale”; in quanto tali, essi “insistono in una concezione universalistica della politica mondiale”, in una politica estera pervasa dalla lotta ideologica per il “capitalismo universale”, identificato con la libertà e la democrazia. Il periodo rooseveltiano delle riforme e delle aperture democratiche, intanto, è finito. Nel tempo della guerra fredda torna a verificarsi il circolo vizioso – denunciato da Polanyi più volte (v. p. es. 1987 [1944-45]) e con diversi riferimenti storici, a cominciare dalla “reazione di panico” della classe dominante inglese di fronte alla Rivoluzione francese – tra involuzione della democrazia all’interno e aggressività all’esterno. Si noti che gli articoli che stiamo esaminando sono da due a cinque anni precedenti rispetto all’inizio ufficiale, nel 1947, della Guerra fredda.

 

4. Come fare pace?

 

Apprezzamento e speranza aveva suscitato in Polanyi, alla fine del 1935, “il sollevarsi dell’opinione pubblica inglese contro il piano di pace parigino”, cioè il piano concordato da Hoare e Laval l’8 dicembre, che salvaguardava gli interessi francesi e inglesi a danno dell’Etiopia. Hoare dovette lasciare la carica di ministro degli esteri. Il movimento popolare, pervaso da una “religione pacifista e sanzionista”, potrebbe ottenere, confida Polanyi, la pace attraverso la democrazia, cioè una decisa politica di pace da parte del governo britannico mediante il controllo democratico sul suo operato (Polanyi 1993 [1935], p. 184).

Successivamente, la sinistra socialista britannica – la Socialist League in particolare, alla quale Polanyi era vicino – condannò la politica di “falsa neutralità” del governo nei confronti della Guerra Civile spagnola. Occorre rendersi conto, scrive ad esempio Henry Brailsford, che in Spagna i dittatori fascisti stanno attuando il “primo esperimento di dittatura internazionale”. Di fronte a questa nuova realtà, strangolare la Repubblica con un blocco unilaterale significa “favorire Franco per la stessa ragione per cui si era lasciato correre riguardo all’impresa di Mussolini in Etiopia” (Brailsford s.d., pp. 4 e 12). G. D. H. Cole, nella prefazione a Europe To-day, riferendosi in particolare alla Spagna, auspica che il libro di Polanyi aiuti a rafforzare un’opinione pubblica democratica capace di costringere il governo britannico “a scendere in campo dalla parte della civiltà e della decenza”. Finora, prosegue Cole, “i cosiddetti paesi democratici sono rimasti follemente a guardare” l’aggravarsi della minaccia fascista.

Il movimento popolare, tuttavia, non riuscì a far cambiare direzione al Foreign Office. Prevalse l’opinione +che l’aiuto sovietico alla Spagna facesse parte del disegno di propagare la rivoluzione nel mondo. Poteva, questo, giustificare l’intervento della Germania e dell’Italia? L’azione della Luftwaffe (e dell’aviazione italiana) doveva in realtà, commenta Polanyi, indurre l’Inghilterra a preoccuparsi della propria sicurezza. Sappiamo bene, adesso, che a Guernica fu inaugurata la serie mai cessata dei bombardamenti indiscriminati e terroristici, che in seguito anche la Gran Bretagna subì, rifacendosi peraltro abbondantemente sulla popolazione tedesca. Inoltre, proprio nell’anno in cui Polanyi scriveva, nel 1943, gli USA decisero di costruire la bomba atomica, il cui impiego contro il Giappone, che era ormai disposto alla resa, s’inseriva piuttosto in un disegno di dominio globale e, in particolare, nella prospettiva della contrapposizione con gli alleati sovietici.

È ben vero che il problema per la Gran Bretagna, negli anni Trenta, era complesso. V’era anzitutto il dubbio che essa non fosse economicamente e militarmente in grado di sostenere azioni di ristabilimento della pace, che avrebbero gravato essenzialmente su di essa. Questa difficoltà, già presente negli anni Venti, si aggravò quando, in seguito all’aggressività del Giappone contro Cina e URSS, il problema della pace divenne mondiale. La Gran Bretagna commise comunque un errore, secondo Polanyi, a non ostacolare i piani del Giappone nel 1931, quando fu invasa la Manciuria. D’altra parte, egli si chiede, il fallimento dei negoziati sul disarmo non dimostra forse, più in generale, che gli stati capitalistici non sono in grado di garantire stabilmente la pace, proprio per il modo in cui sono organizzati? (Polanyi 1995 [1937], pp. 41 e 30).

Che cosa rendeva le democrazie occidentali tanto restie a sostenere la democrazia spagnola? È vero – come sostengono all’epoca Polanyi e Otto Bauer, ma in seguito anche Hobsbawm – che il fascismo è una reazione non semplicemente contro le tendenze rivoluzionarie, ma contro la civiltà moderna, e che quindi i sostenitori di un cambiamento radicale in direzione del socialismo non erano i soli interessati alla lotta antifascista. Ma è vero anche, per Polanyi e Bauer come per Hobsbawm, che la realizzazione piena della democrazia moderna contrasta con il dominio delle “leggi del mercato”, e del capitale, sull’economia e sulla società. Questo contrasto determina la polarità, che, come scrive Hobsbawm, resta cruciale e permanente nel “secolo breve”, tra “rivoluzione sociale” (intesa come sviluppo della democrazia) e “vecchio ordine”. L’ostilità ideologica, civile, verso la rivoluzione sociale tende poi ad impedire una politica internazionale realistica. Se non si tiene conto di tale ostilità, è difficile spiegare perché la grande alleanza antifascista si formi solo in occasione della Seconda guerra mondiale, e perché, fino alla guerra, le nazioni cosiddette democratiche non siano riuscite a contrastare la diffusione del fascismo e l’aggressività dei regimi fascisti. Perché, infine, con la sconfitta di questi ultimi la guerra civile internazionale non solo non cessi, ma investa il mondo intero.

Una valutazione realistica della situazione, scrive Hobsbawm (1995, pp. 186-87), avrebbe suggerito che una politica di compromesso e di negoziato con il nazionalsocialismo era vana, essendo esso intrinsecamente aggressivo, e i suoi obiettivi politici “irrazionali e illimitati”. Le ragioni per cui non si seguirono vie realisticamente necessarie per bloccare l’espansionismo fascista ed evitare la Seconda guerra mondiale erano ideologiche, erano inerenti a un conflitto “civile”.

La valutazione di Hobsbawm corrisponde, come abbiamo visto, a quella di Polanyi. Quale strada quest’ultimo pensava che si sarebbe potuta prendere per garantire la pace? Due condizioni vengono indicate da Polanyi, appartenenti entrambe al suo concetto di democrazia.

La prima condizione è che la pace va intesa come un’istituzione, connessa con il complessivo assetto istituzionale della società, in una data situazione storica. Deriva da ciò la critica rivolta da Polanyi alle posizioni pacifiste che prescindono dal fatto che “gli ostacoli all’abolizione della guerra sono connessi con le istituzioni politiche ed economiche della nostra società” e che un mondo pacifico potrà essere tale solo sulla base di date istituzioni (Polanyi 1938, p. 1). Il principio per il quale i pacifisti si battono è valido: ma “quali cambiamenti istituzionali trasformeranno il postulato della pace in una realtà effettiva?”(p. 4). L’attuale “struttura di classe della società”, conclude Polanyi, dovrebbe essere sostituita dal “controllo della vita economica da parte della generalità delle persone” (p. 5). Su questa base sarebbe pensabile una comunità internazionale, in cui i popoli potrebbero svilupparsi autonomamente, e contare al contempo su un’autorità sovranazionale davvero in grado di dirimere pacificamente eventuali controversie.

Nell’articolo dell’inizio del 1945 qui sopra citato troviamo un’applicazione di questo concetto “istituzionale” della pace. Polanyi osserva che

i partigiani del maresciallo Tito promettono bene di risolvere il problema degli odi balcanici semplicemente perché partono dal presupposto di un sistema non più dominato dal mercato e non più gestito dalla classe media. (Polanyi 1987 [1945], p. 146)

Il “regionalismo”, inteso come autogestione democratica delle proprie risorse, sottratte alle dinamiche della finanza internazionale e agli interessi del capitale monopolistico, potrebbe curare, non solo in Yugoslavia,

almeno tre malattie politiche endemiche: il nazionalismo intollerante, il frazionamento della sovranità e la non cooperazione economica. Tutte e tre sono le conseguenze inevitabili di un’economia di mercato in una regione d’insediamenti etnicamente misti. (Ibid., p. 145)

Abbiamo effettivamente potuto constatare, non solo nell’area balcanica e ben al di là della retorica umanitaria, che la pressione imperialista a sostegno del “capitalismo universale” tende ad essere piuttosto la causa del divampare di conflitti “etnici” che una soluzione ad essi.

L’ultima attività di Polanyi fu il progetto della rivista “Co-Existence”, il cui primo numero uscì poco dopo la sua morte, nel 1964. Eminenti ricercatori di diversi paesi avevano collaborato al progetto, accettando di analizzare i rapporti internazionali e i problemi dello sviluppo senza cedere alle logiche di parte dei due “blocchi”. “Coesistenza”, infatti, non significava per Polanyi l’equilibrio del terrore atomico, che manteneva il mondo sottomesso all’una o all’altra delle due sfere d’influenza, ma, al contrario, la libertà di moltiplicare esperienze regionali di organizzazione sociale, autonome e diversificate. In questo modo di intendere la “coesistenza” consisteva per lui non solo la garanzia, ma anche il significato stesso della pace.

La seconda condizione non è che modo in cui, per essere davvero tale, il cambiamento istituzionale dovrebbe essere realizzato: i cittadini stessi dovrebbero promuoverlo e viverlo direttamente. Abbiamo visto sopra che Polanyi rivolgeva la sua attenzione e le sue speranze alle reazioni dell’opinione pubblica e al movimento popolare. Il fatto che egli abbia ampiamente dedicato la sua attività d’insegnamento agli sviluppi della situazione internazionale, che su questo tema si sia impegnato in discussioni pubbliche e in scritti commissionatigli dalla WEA e dalle Trade Unions, non è, insomma, casuale. La formazione di un’opinione pubblica autonoma e matura, capace di influire sulla politica dei governi, costituisce, a suo avviso, la condizione essenziale per la realizzazione di due fini strettamente connessi: la democrazia e la pace. Solo la conoscenza delle “funzioni istituzionali” sulle quali si regge la società e del loro sviluppo storico consente di non accettare acriticamente i valori della classe dominante (cfr. Polanyi 1945 e Mendell 1994). La conoscenza consente all’opinione pubblica di essere critica e responsabile riguardo alla politica estera, di essere capace di controllare l’attendibilità degli esperti, della propaganda governativa e dei mezzi di comunicazione di massa: così argomenta Polanyi in un nell’opuscolo The Citizen and the Foreign Policy, con il quale egli intende offrire gli strumenti concettuali essenziali per la partecipazione consapevole di tutti i cittadini alle decisioni riguardanti la politica estera, in base al presupposto che quest’ultima non costituisce “una faccenda a parte, in cui ‘il parere degli esperti’ debba pesare più di quello del comune cittadino” (Polanyi 1947, p. 20).

L’utopia di Polanyi è quanto mai lontana, oggi, dalla realtà di un’opinione pubblica sempre più assente o manipolata. In quello stesso opuscolo, inoltre, si trovano anche cupe considerazioni sullo sviluppo tecnico degli armamenti, che è tale da cambiare i termini stessi del problema della pace. “Mai nella storia – scrive Polanyi – è accaduto che la guerra comportasse una minaccia così terribile come ai nostri giorni” (ibid., p. 4). L’arma atomica mette a repentaglio l’esistenza stessa dell’intera civiltà umana. Quindi il dilemma posto da Polanyi: la guerra è da evitare a tutti i costi: anche al costo di rinunciare a lottare per la propria libertà?

Oggi, nel tempo dei conflitti asimmetrici, dei sistemi satellitari e dei droni, sappiamo che il dilemma può porsi anche a prescindere dalle bombe atomiche.

 

5. Conclusione

 

Finita la guerra fredda con il crollo del sistema sovietico, finito il “secolo breve”, la “guerra civile internazionale” continua in una forma diversa dalla polarità fra “blocchi”. Essa continua nella forma dell’imposizione del “nuovo ordine mondiale”, mediante la pervadente globalizzazione dell’economia e la forza militare, asimmetrica quanto mai, dell’unica “grande potenza” rimasta. Tale forza viene messa all’opera spesso e diffusamente, e senza remore, provocando stragi e inaudite devastazioni materiali e sociali di interi paesi. Guerre di questo tipo, come le guerre di religione e le faide, tendono a perpetuarsi. Impedendo la “coesistenza”, esse bloccano lo sviluppo della libertà e della democrazia, in base a una concezione “monoteistica” e “discriminatoria” dell’ordine internazionale (v. Terranova e Zolo, 2008). Sembra che l’Occidente combatta “contro se stesso” (v. Preterossi 2004), contro la sua propria civiltà fondata sul diritto, sulla libertà, sulla democrazia. Giustamente Zolo (2008) trova in Schmitt la previsione dell’avvento della “guerra globale discriminatoria” dei nostri giorni, legata alla vocazione imperiale degli Stati Uniti d’America, e cita, di Schmitt, il passo seguente:

La discriminazione del nemico come criminale e la contemporanea assunzione a proprio favore della justa causa vanno di pari passo con il potenziamento dei mezzi di annientamento e con lo sradicamento spaziale del teatro di guerra. Si spalanca l’abisso di una discriminazione giuridica e morale altrettanto distruttiva. […] Nella misura in cui oggi la guerra viene trasformata in azione di polizia contro turbatori della pace, criminali ed elementi nocivi, deve essere anche potenziata la giustificazione dei metodi di questo police bombing. Si è così indotti a spingere la discriminazione dell’avversario in dimensioni abissali. (Schmitt 1991, p. 430)

Come il “pensiero unico” esalta i benefici della libertà di mercato – che è in realtà quella delle grandi corporations, come Polanyi sottolinea al termine della Grande trasformazione – così il “doublethink” identifica la pace con la guerra, la preminenza dei propri interessi e la potenza senza uguali del proprio armamento con la “giusta causa”, la libertà con la subordinazione, la democrazia con il dispotismo, l’ordine con il disordine, la sicurezza con l’insicurezza, anzi con la distruzione e l’eccidio.

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