Quale rapporto intercorre tra antisemitismo e nazionalsocialismo? Nella Germania Federale, il dibattito pubblico su questo tema è caratterizzato dalla dicotomia tra i liberali e i conservatori, da un lato, e la sinistra, dall’altro. Liberali e conservatori tendono a mettere l’accento sulla discontinuità tra il passato e il presente: quando evocano il passato nazista, si focalizzano sulla persecuzione e lo sterminio degli ebrei, e tralasciano altri aspetti centrali del nazionalsocialismo. In questo modo, intendono sottolineare la presunta «discontinuità assoluta» che separerebbe la Repubblica Federale dal Terzo Reich. Così, l’accento posto sull’antisemitismo, permette loro paradossalmente di evitare un confronto radicale con la realtà sociale e strutturale del nazionalsocialismo. Questa realtà non si è certo completamente dissolta dopo il 1945. In altri termini, la condanna dell’antisemitismo nazista serve anche da ideologia di legittimazione del sistema attuale. Questa strumentalizzazione è possibile solamente nella misura in cui si tratta l’antisemitismo principalmente come pregiudizio, come ideologia del capro espiatorio, celando così il rapporto intimo tra l’antisemitismo e gli altri aspetti del nazionalsocialismo.
Quanto alla sinistra, essa tende a concentrarsi sulla funzione capitalistica del nazionalsocialismo, ponendo l’accento sulla distruzione delle strutture organizzative della classe operaia, sulla politica sociale ed economica del nazismo, sul riarmo, sull’espansionismo e sui meccanismi burocratici di dominio del partito e dello Stato. Essa sottolinea gli elementi di continuità tra la Repubblica Federale e il Terzo Reich. Se è vero che la sinistra non passa sotto silenzio lo sterminio degli ebrei, lo sussume comunque in fretta sotto le categorie generali di pregiudizio, discriminazione e persecuzione[1]. Considerando l’antisemitismo come momento marginale, e non centrale, del nazionalsocialismo, anche la sinistra cela così il rapporto intimo tra i due.
Queste due posizioni interpretano l’antisemitismo moderno come pregiudizio anti-ebraico, come un esempio particolare di razzismo in generale. L’accento posto sulla natura psicologica di massa dell’antisemitismo, scinde le considerazioni riguardanti l’Olocausto dagli studi socio-economici e di storia sociale sul nazionalsocialismo. Non si potrà perciò comprendere l’Olocausto, finché si consideri l’antisemitismo come un esempio di razzismo, finché si concepisca il nazismo solamente in termini di grande capitale e di Stato poliziesco, burocratico e terrorista. Non si dovrebbero considerare Auschwitz, Belzec, Chelmno, Maidanek, Sobibor e Treblinka al di fuori di un’analisi del nazionalsocialismo. I campi di concentramento rappresentano uno degli esiti logici di quest’ultimo, e non semplicemente il suo epifenomeno più terribile. Qualsivoglia analisi del nazionalsocialismo si riveli incapace di spiegare l’annientamento del giudaismo europeo, non è all’altezza del suo compito.
I
In questo saggio tenterò di inquadrare lo sterminio degli ebrei europei, sviluppando un’interpretazione peculiare dell’antisemitismo moderno. Il mio intento non è di spiegare perché il nazismo e l’antisemitismo moderno si siano affermati e siano diventati egemonici in Germania: un simile tentativo implicherebbe un’analisi della specificità dell’evoluzione storica tedesca. Esiste un numero sufficiente di studi a questo riguardo. Il presente studio cerca piuttosto di analizzare che cosa si affermò allora, proponendo un’analisi dell’antisemitismo moderno che mostri il legame intimo esistente tra questo e il nazionalsocialismo. Questo studio è una premessa necessaria, se si vuole spiegare in maniera adeguata per quale motivo tutto ciò si produsse proprio in Germania.
Che cosa rende specifici l’Olocausto e l’antisemitismo moderno? Non il numero degli esseri umani che furono uccisi, né la portata della loro sofferenza: non è una questione di quantità. Gli esempi storici di omicidi di massa e di genocidi non mancano (per esempio, i nazisti assassinarono molti più russi che ebrei). In realtà, si tratta di una specificità qualitativa. Alcuni aspetti dell’annientamento del giudaismo europeo restano inspiegabili, finché si continui a trattare l’antisemitismo come un esempio particolare di una «strategia del capro espiatorio», nel quale le vittime avrebbero potuto essere i membri di un qualsiasi altro gruppo.
L’Olocausto si caratterizza per un senso della missione ideologica, per una relativa assenza di emozioni e di odio diretto (contrariamente ai pogrom, per esempio) e, cosa ancor più importante, per la sua evidente mancanza di funzionalità. Il genocidio degli ebrei non è stato il mezzo per raggiungere un altro fine: gli ebrei non furono sterminati per ragioni militari o nel corso di un’annessione territoriale (come fu il caso per gli indiani d’America o i tasmaniani). Non si trattava, a maggior ragione, di eliminare i potenziali resistenti tra gli ebrei, per poter sfruttare più facilmente gli altri come schiavi. (Fu questa, d’altronde, la politica dei nazisti nei riguardi dei polacchi e dei russi). Non vi fu alcuno scopo «esteriore»: il genocidio degli ebrei non soltanto doveva essere totale, ma rappresentava un fine in se stesso – lo sterminio per lo sterminio, un fine che esigeva la priorità assoluta[2].
Né un’interpretazione funzionalista dell’omicidio di massa, né una teoria dell’antisemitismo centrata sulla nozione di «capro espiatorio», sono in grado fornire una spiegazione soddisfacente al fatto che, durante gli ultimi anni di guerra, un’ingente parte delle ferrovie fu utilizzata per trasportare gli ebrei verso le camere a gas, piuttosto che per sostenere la logistica dell’esercito tedesco, dopo che la Wehrmacht era stata sconfitta dall’Armata Rossa. Una volta riconosciuta la specificità qualitativa dell’annientamento del giudaismo europeo, risulta chiaro che tutti i tentativi d’analisi che si appoggino sulle nozioni di capitalismo, razzismo, burocrazia, repressione sessuale o personalità autoritaria, rimangono ancora troppo generici. Comprendere, anche solo in parte, la specificità dell’Olocausto, esige un’argomentazione anch’essa specifica.
È chiaro che l’annientamento del giudaismo europeo è legato all’antisemitismo. La specificità del primo deve dunque essere messa in relazione a quella del secondo. Inoltre, comprendere l’antisemitismo moderno, presuppone la concettualizzazione del nazismo come un movimento che, nella comprensione che aveva di se stesso, si pensava come una rivolta.
L’antisemitismo moderno, che non bisogna confondere con il pregiudizio anti-ebraico attuale, è un’ideologia, una forma di pensiero, che ha fatto la sua comparsa in Europa alla fine del XIX secolo. La sua apparizione presuppone l’esistenza secolare di forme di antisemitismo anteriori, che hanno sempre fatto parte della civiltà cristiana occidentale. Tutte le forme di antisemitismo hanno in comune l’idea di un qualche potere che viene attribuito agli ebrei: il potere di uccidere Dio, di scatenare la peste o, più recentemente, di generare il capitalismo e il socialismo. Il pensiero antisemita è un pensiero profondamente manicheo, all’interno del quale gli ebrei giocano il ruolo di «figli delle tenebre».
Non è solo il grado, ma anche la qualità del potere attribuito agli ebrei a differenziare l’antisemitismo dalle altre forme di razzismo. Probabilmente, tutte le forme di razzismo attribuiscono all’Altro un potere potenziale. Ma, di solito, questo potere è concreto, materiale e sessuale: è il potere potenziale dell’oppresso (in quanto represso), del «sub-umano» (Untermenschen). Il potere attribuito agli ebrei, non solo è concepito come qualche cosa di più grande, ma è anche un potere reale, e non solo potenziale. Inoltre, è un potere di tipo differente, non necessariamente concreto. Questa differenza qualitativa è espressa dall’antisemitismo moderno nei termini di una misteriosa presenza, impercettibile, astratta e universale. Questo potere non appare in quanto tale, ma cerca un supporto concreto – politico, sociale o culturale – attraverso il quale poter funzionare. Dato che non è fissato concretamente, che non è «radicato», esso è percepito come qualche cosa di immensamente grande e difficilmente controllabile: si presuppone che si nasconda dietro le apparenze, senza mai identificarsi con esse. La sua origine è dunque nascosta, cospiratrice: gli ebrei sono sinonimo di un’inafferrabile cospirazione internazionale, smisuratamente potente.
Un manifesto nazista offre un esempio eloquente di questo modo di vedere. Esso mostra la Germania – personificata da un operaio forte e onesto – minacciata, a Ovest, da un grasso e plutocratico John Bull, e a Est, da un commissario bolscevico barbaro e brutale. Tuttavia, queste due potenze nemiche sono soltanto delle marionette: chi sovrasta il globo e ne manovra i fili è l’Ebreo, che scruta la scena dall’alto. Questa concezione non è affatto monopolio dei soli nazisti: l’antisemitismo moderno si caratterizza per il fatto di considerare gli ebrei, come la forza oscura che si cela dietro i fratelli-nemici rappresentati dal capitalismo plutocratico e dal socialismo. Inoltre, la «lobby ebraica internazionale» è percepita come ciò che si nasconderebbe dietro la «giungla d’asfalto» delle metropoli cancerogene, dietro la «cultura moderna, materialista e volgare» e, in generale, dietro tutte le forze che concorrono alla rovina dei legami sociali, dei valori e delle istituzioni tradizionali. Gli ebrei rappresentano una potenza distruttrice, pericolosa e straniera, che mina il «benessere» sociale della nazione. L’antisemitismo moderno non si caratterizza, quindi, solamente per il suo contenuto secolare, ma anche per il suo carattere sistematico. Pretende di spiegare il mondo: un mondo divenuto rapidamente troppo complesso e – per molti – minaccioso.
Questa definizione descrittiva dell’antisemitismo moderno è certamente indispensabile per differenziarlo dal pregiudizio o dal razzismo in generale. Ma non mostra il legame intrinseco che lo lega al nazionalsocialismo. L’intento di andare oltre la separazione che viene operata correntemente, tra l’analisi socio-economica del nazismo e lo studio dell’antisemitismo, non è dunque ancora realizzato, a questo livello dell’analisi. È necessaria una spiegazione dell’antisemitismo che permetta di riconnettere i due aspetti. Questa spiegazione deve fondare storicamente la forma di antisemitismo poc’anzi descritta, con l’aiuto delle stesse categorie utilizzate per spiegare il nazionalsocialismo. La mia intenzione non è di negare le spiegazioni socio-psicologiche o psicanalitiche[3], ma di mettere in luce un quadro storico-epistemologico di riferimento, all’interno del quale delle specificazioni psicologiche si possano inscrivere. Questo quadro di riferimento deve permettere di afferrare il contenuto specifico dell’antisemitismo moderno, e insieme deve essere storico, poiché si tratta di spiegare perché questa ideologia, che appare alla fine del XIX secolo, acquisti proprio allora una tale ampiezza. In assenza di una simile cornice di riferimento, tutti gli altri tentativi di spiegazione che si focalizzano sulla dimensione soggettiva, restano storicamente indeterminati. Ciò che ci serve, è dunque una spiegazione in termini di epistemologia socio-storica.
Uno sviluppo esaustivo del problema dell’antisemitismo andrebbe oltre i limiti di questo saggio. Bisogna tuttavia sottolineare che un esame attento dell’immaginario antisemita moderno, fa emergere l’esistenza di una forma di pensiero in cui l’evoluzione rapida del capitalismo industriale è personificata nella figura dell’ebreo e identificata con esso. Gli ebrei non sono soltanto percepiti come i proprietari del denaro, come avviene nell’antisemitismo tradizionale; sono anche resi responsabili delle crisi economiche e identificati con le ristrutturazioni e le rotture sociali che accompagnarono la tumultuosa industrializzazione: l’esplosione dell’urbanizzazione, il declino delle classi e dei ceti sociali tradizionali, l’emergere di un vasto proletariato industriale che si organizza in misura crescente etc. In altri termini, il dominio astratto del capitale che – particolarmente con la rapida industrializzazione – imprigiona gli uomini in un reticolo di forze dinamiche che essi non possono comprendere, cominciò ad essere percepito come il dominio della «lobby ebraica internazionale».
Tutto questo non è che un primo approccio. La personificazione è descritta ma non spiegata. Alcuni tentativi in questa direzione sono stati fatti ma, a mio parere, nessuno di essi è soddisfacente. Il problema di queste teorie, che – come quella di Max Horkheimer[4] – riposano essenzialmente sull’identificazione degli ebrei con il denaro e con la sfera della circolazione, è che esse non possono rendere conto dell’idea antisemita, secondo la quale gli ebrei costituirebbero anche il potere che si cela dietro la socialdemocrazia e il comunismo. A un primo sguardo, teorie come quella di George L. Mosse[5], che interpretano l’antisemitismo moderno come una rivolta contro la modernità, sembrerebbero più adeguate: tanto la plutocrazia quanto il movimento operaio, furono concomitanti alla modernità e alla ristrutturazione sociale massiva risultante dall’industrializzazione capitalistica.
Ciò che rende problematiche queste teorie, è il fatto che la «modernità» include indubbiamente il capitale industriale che – come sappiamo – non costituì l’oggetto degli attacchi antisemiti, e ciò nemmeno durante i periodi di più rapida industrializzazione. Inoltre, l’attitudine del nazionalsocialismo verso numerose dimensioni della modernità (particolarmente la tecnologia moderna) fu positiva e non negativa. Gli aspetti della vita moderna che i nazisti rigettavano, e quelli che sostenevano, disegnano un motivo. Questo motivo dovrebbe essere parte integrante di una concettualizzazione adeguata del problema. E poiché tale motivo non ha riguardato solo il nazionalsocialismo, la problematica ha un significato di ben più ampia portata.
Il fatto che l’antisemitismo moderno abbia avuto un’attitudine positiva verso il capitale industriale, dimostra che serve un approccio capace di distinguere il capitalismo moderno dalla forma sotto la quale si presenta, la sua essenza dall’apparenza. Ora, il concetto di «modernità» non permette di operare una tale distinzione. A mio parere, le categorie sociali sviluppate da Marx nella sua critica della maturità – quali quelle di «merce» e di «capitale» – sono più adeguate allo scopo, dal momento che una serie di distinzioni tra ciò che è e ciò che appare, sono immanenti alle categorie stesse. Queste ultime forniscono la base per un’analisi che permette di distinguere differenti percezioni della «modernità». Un tale approccio tenterà di legare il «motivo» che stiamo studiando – che comprende al contempo una «critica sociale» e un’accettazione dell’esistente – alle caratteristiche stesse dei rapporti sociali capitalistici.
II
Queste considerazioni ci conducono al concetto marxiano di feticcio, il cui scopo strategico è quello di fornire una teoria socio-storica della conoscenza fondata sulla distinzione tra l’essenza dei rapporti sociali capitalistici e le loro forme fenomeniche. Ciò che sottende il concetto di feticcio, in Marx, è l’analisi della merce, del denaro, del capitale, non tanto come mere categorie economiche, quanto come forme degli specifici rapporti sociali che caratterizzano il capitalismo. Nell’analisi marxiana, le forme capitalistiche dei rapporti sociali non appaiono come tali, ma si esprimono solo in forma oggettivata.
Nel capitalismo, il lavoro non è soltanto un’attività sociale produttiva («lavoro concreto»), ma funge anche, in luogo di rapporti sociali non mascherati, da mediazione sociale («lavoro astratto»). Di conseguenza, il suo prodotto – la merce – non è soltanto un oggetto d’uso nel quale si oggettiva lavoro concreto, ma è anche una forma dei rapporti sociali oggettivati. Nel capitalismo, il prodotto non è un oggetto socialmente mediato da forme non dissimulate di rapporti sociali e di dominio. La merce, in quanto oggettivazione delle due dimensioni del lavoro esistenti sotto il capitalismo, è la mediazione sociale di se stessa. Essa ha dunque un «doppio carattere»: valore e valore d’uso. In quanto oggetto, la merce, al contempo esprime e dissimula i rapporti sociali che, fuori di essa, non hanno altro modo di manifestarsi. Questo modo di oggettivazione dei rapporti sociali è la loro alienazione. I rapporti sociali fondamentali propri del capitalismo, acquistano una vita quasi-oggettiva che è loro inerente: essi costituiscono una «seconda natura», un sistema di domino e di forza astratti che, per quanto sociale, è impersonale e «obiettivo». Questi rapporti non sembrano affatto sociali, ma naturali. Al tempo stesso, le forme categoriali esprimono anche una concezione particolare, socialmente costruita della natura, nei termini del comportamento oggettivo, quantificabile, regolato da leggi, di un’essenza qualitativamente omogenea. Le categorie marxiane esprimono simultaneamente dei rapporti sociali specifici e delle forme di pensiero. Il concetto di feticcio si riferisce a forme di pensiero fondate su percezioni che restano prigioniere delle forme fenomeniche dei rapporti sociali capitalistici[6].
Quando si considerano le caratteristiche specifiche del potere che l’antisemitismo moderno attribuisce agli ebrei – astrattezza, inafferrabilità, universalità e mobilità – ciò che colpisce è che si tratta delle stesse caratteristiche di una delle dimensioni delle forme sociali analizzate da Marx: il valore. Di più, questa dimensione – come il potere attribuito agli ebrei – non si manifesta in quanto tale, ma prende la forma di un supporto materiale: la merce.
Per interpretare la personificazione precedentemente descritta, e sapere così perché l’antisemitismo moderno mantenga un sorprendente silenzio riguardo (o adotti un’attitudine positiva verso) il capitale industriale e la tecnologia moderna, mentre si volge contro numerosi altri aspetti della «modernità», diventa indispensabile analizzare il modo in cui i rapporti sociali capitalistici si manifestano.
Cominciamo dalla forma-merce. La tensione dialettica tra valore e valore d’uso, nella forma-merce, implica che questo «doppio carattere» si esteriorizzi materialmente nella forma-valore: esso appare così «doppiato» nel denaro (forma fenomenica del valore) e nella merce (forma fenomenica del valore d’uso). Benché la merce sia una forma sociale che include sia il valore che il valore d’uso, il risultato di questa esteriorizzazione è che essa appare ora solamente nella sua dimensione di valore d’uso, come oggetto puramente materiale, come cosa. Il denaro, d’altra parte, si presenta come il solo depositario del valore, come la manifestazione del puramente astratto, anziché come la forma fenomenica della dimensione-valore della merce. A questo livello dell’analisi, la forma dei rapporti sociali oggettivati specifica del capitalismo, appare come l’opposizione tra il denaro, in quanto «astratto», e la natura «cosale».
Uno degli aspetti del feticismo è dunque il fatto che i rapporti sociali capitalistici non si manifestano in quanto tali e che, inoltre, si presentano in maniera antinomica, come l’opposizione dell’astratto e del concreto. Inoltre, poiché i due lati dell’antinomia sono oggettivati, ognuno di essi appare come quasi-naturale: la dimensione astratta sotto forma di leggi naturali, «oggettive», universali, astratte, e la dimensione concreta come natura puramente «cosale». La struttura dei rapporti sociali alienati caratteristici del capitalismo, prende la forma di un’antinomia quasi naturale nella quale il sociale e lo storico scompaiono. Questa antinomia si ritrova nell’opposizione tra le forme di pensiero positiviste e quelle romantiche. La maggior parte degli studi critici del pensiero feticizzato, si sono concentrati sul primo lato di questa antinomia, quello che fa dell’astratto un’ipostasi sovrastorica – il cosiddetto pensiero «positivo» e «borghese» – e dissimula con ciò il carattere sociale e storico dei rapporti esistenti. In questo studio, metterò l’accento sull’altro lato, quello delle forme di romanticismo e di rivolta che, pur pensandosi come antiborghesi, fanno in realtà del concreto un’ipostasi e restano così prigioniere dell’antinomia dei rapporti sociali capitalistici.
Le forme di pensiero anticapitalista che restano invischiate nell’immediatezza di questa antinomia, tendono a comprendere il capitalismo, e quel che è specifico di questa formazione sociale, solamente in funzione delle manifestazioni della sua dimensione astratta: per esempio, il denaro come «radice del male». La dimensione concreta esistente viene dunque opposta al capitalismo in modo positivo, come ciò che sarebbe «naturale» o ontologicamente umano, e si situerebbe fuori della specificità della società capitalistica. Così, in Proudhon, per esempio, il lavoro concreto è compreso come il momento non-capitalistico in opposizione al carattere astratto del denaro[7]. Il fatto che il lavoro concreto stesso incarni i rapporti sociali capitalistici e ne sia materialmente informato, non viene colto.
Con l’ulteriore sviluppo del capitalismo, della forma-capitale e del feticismo che le è associato, la naturalizzazione immanente al feticcio-merce assume nuove dimensioni. Allo stesso modo della forma-merce, la forma-capitale si caratterizza per il rapporto antinomico tra l’astratto e il concreto, che appaiono entrambi come dati naturali. Ma è la qualità del «naturale», ora, ad essere differente. Al feticcio-merce è associata la nozione di un sistema di relazioni in ultima istanza armoniose tra unità individuali autonome. (Questo modello concettuale è alla base dell’economia politica classica e delle dottrine del diritto naturale del XVIII secolo). Il capitale, secondo Marx, è valore che si autovalorizza; esso si caratterizza per un processo continuo, incessante, di autoespansione del valore. Questo processo è all’origine di cicli rapidi, su larga scala, di produzione e consumo, creazione e distruzione. Il capitale appare, ai differenti stadi del suo movimento a spirale, talvolta sotto forma di denaro, talaltra di merce, ma non si cristallizza mai in una forma fissa e definitiva. In quanto valore che si autovalorizza, il capitale appare come puro processo. Parallelamente, la sua dimensione concreta si trasforma. I lavori individuali cessano di costituire delle unità autonome; essi diventano in misura crescente i componenti semplici di un sistema allargato, dinamico e complesso, che ingloba l’uomo come la macchina, e la cui finalità è la produzione per la produzione. La totalità sociale alienata diventa più grande della somma degli individui che la compongono, così come la sua finalità è loro esteriore. Questa finalità è un processo infinito. La forma-capitale dei rapporti sociali ha un carattere cieco, processuale, quasi-organico.
Parallelamente al consolidamento della forma-capitale, la visione meccanicistica del mondo caratteristica dei secoli XVII e XVIII, perde terreno. I processi organici cominciano a soppiantare la meccanica statica come forma del feticcio. Questo fenomeno si traduce in forme di pensiero quale la teoria organicistica dello Stato, ma anche nella proliferazione delle teorie razziali e nell’avanzata del darwinismo sociale alla fine del XIX secolo. La società e i processi storici sono sempre più compresi in termini biologici. Non mi attarderò a sviluppare questo aspetto del feticcio-capitale; quel che importa, qui, sono i modi di percepire il capitale che ne risultano. Come ho precedentemente dimostrato, sul piano logico dell’analisi della merce, il suo «doppio carattere» consente a quest’ultima di apparire come un’entità puramente materiale, anziché come l’oggettivazione di rapporti sociali mediati. Correlativamente, ciò permette al lavoro concreto di apparire come processo creatore, puramente materiale, separabile dai rapporti sociali capitalistici. Allo stesso modo, al livello logico dell’analisi del capitale, il suo «doppio carattere» (processo di lavoro e processo di valorizzazione) permette alla produzione industriale di apparire come processo creatore, puramente materiale, separabile dal capitale. La forma fenomenica del concreto diventa ora più organica. Il capitale industriale può così presentarsi come il discendente diretto del lavoro artigianale «naturale», come «organicamente radicato», in opposizione al capitale finanziario, «parassitario» e «senza radici». La sua organizzazione sembra allora assomigliare a quella della corporazione medievale; l’insieme sociale nel quale si colloca, è colto come un’unità organica superiore: come comunità (Gemeinschaft), Popolo (Volk), Razza. Il capitale stesso – o piuttosto ciò che è percepito come l’aspetto negativo del capitalismo – è identificato con la forma fenomenica della sua dimensione astratta, col capitale finanziario e produttivo di interesse. In questo senso, l’interpretazione biologica che oppone la dimensione concreta (del capitalismo) in quanto «naturale» e «sana», alla negatività di quello che viene preso per il «capitalismo», non si trova in contraddizione con l’esaltazione del capitale industriale e della tecnologia: entrambe si tengono dal lato «materiale» dell’antinomia.
Questa relazione è abitualmente mal compresa. Per esempio, Norman Mailer, prendendo le difese del neo-romanticismo (e del sessismo) in Prigioniero del sesso[8], scrive che Hitler, se ha certamente parlato di sangue, ha nondimeno costruito la macchina. Ciò che non si comprende, è che in questo tipo di «anticapitalismo» feticizzato, tanto il sangue quanto la macchina sono concepiti come princìpi concreti in opposizione all’astratto. L’accento positivo posto sulla «natura», il sangue, il suolo, il lavoro concreto, la comunità (Gemeinschaft) si accorda senza problemi con la glorificazione della tecnologia e del capitalismo industriale[9]. Di conseguenza, non si possono bollare questi modelli di pensiero come anacronistici, né vedere in essi l’espressione di una non-contemporaneità (Ungleichzeitigkeit)[10] storica, così come non si deve interpretare come atavica l’ascesa delle teorie razziali alla fine del XIX secolo. Storicamente, si tratta di forme di pensiero nuove e non della rinascita di una forma anteriore. Queste forme appaiono ataviche o anacronistiche, nella misura in cui mettono l’accento sulla dimensione biologica; tuttavia, l’enfasi posta sulla dimensione biologica è essa stessa radicata nel feticcio-capitale. La tendenza alla biologizzazione e il desiderio per un ritorno alle «origini naturali» – combinati con l’affermazione della tecnologia – che appaiono sotto numerose forme all’inizio del XX secolo, devono essere compresi come un’espressione del feticcio antinomico, che genera l’idea secondo la quale il concreto è «naturale», e che presenta in misura crescente ciò che è socialmente «naturale» in modo che sia percepito in termini biologici.
Ora, fare del concreto un’ipostasi, identificare il capitale all’astratto fenomenico, è affermare una forma di «anticapitalismo» che tenta di oltrepassare l’ordine sociale esistente, a partire da un punto di vista che, di fatto, gli resta immanente. Così come questo punto di vista si situa all’interno della dimensione concreta, l’ideologia che ne discende mira ad una forma più concreta e più organizzata di sintesi sociale apertamente capitalistica. Non è dunque se non nelle apparenze, che questa forma di «anticapitalismo» si volge con nostalgia verso il passato. Espressione del feticcio-capitale, essa tende in realtà all’avvenire. Essa sorge all’epoca del passaggio dal capitalismo liberale al capitalismo burocratico, e diventa virulenta in una situazione di crisi strutturale.
Questa forma di «anticapitalismo», dunque, si fonda su una critica unilaterale dell’astratto. L’astratto e il concreto non vengono colti nella loro unità, come parti costitutive di un’antinomia in ragione della quale il superamento effettivo dell’astratto – della dimensione del valore – suppone il superamento pratico e storico dell’opposizione stessa e di ciascuno dei suoi termini. Infatti, non abbiamo qui che un attacco unilaterale contro la ragione astratta e il diritto astratto o, ad un altro livello, contro il capitale-denaro e il capitale finanziario. In tal senso, questo pensiero è antinomicamente complementare al pensiero liberale, presso il quale il dominio dell’astratto non viene problematizzato e non si fanno differenze tra ragione critica e ragione positiva.
Questo «anticapitalismo», in ogni caso, non si limita ad attaccare l’astrazione. Al livello del feticcio-capitale, non è solamente il lato concreto dell’antinomia a poter essere naturalizzato e biologizzato; anche la dimensione astratta fenomenica viene biologizzata – nella figura dell’Ebreo. Così, l’opposizione feticizzata del materiale concreto e dell’astratto, del «naturale» e dell’«artificiale», muta in opposizione razziale, avente un significato storico mondiale, tra l’Ariano e l’Ebreo. L’antisemitismo moderno consiste nella biologizzazione di un capitalismo concepito esclusivamente nei termini della sua dimensione astratta fenomenica, e che si trasforma per questa via in «lobby ebraica internazionale».
Sulla base di questa interpretazione, gli ebrei erano identificati non soltanto col denaro, con la sfera della circolazione, ma col capitalismo stesso. Inoltre, a causa della sua forma feticizzata, il capitalismo sembrava non includere l’industria e la tecnologia. Il capitalismo non appariva se non nella sua dimensione astratta fenomenica, che a sua volta era resa responsabile di tutta la serie di trasformazioni sociali e culturali concrete legate al rapido sviluppo del capitalismo industriale moderno. Gli ebrei non erano semplicemente considerati i rappresentanti del capitale (in tal caso, in effetti, gli attacchi antisemiti sarebbero stati specificati in termini di classe). Essi diventavano la personificazione del dominio internazionale, intangibile, distruttivo e immensamente potente del capitale. Se certe forme di malcontento anticapitalista si diressero contro la dimensione astratta fenomenica del capitale personificata nella figura dell’Ebreo, non è perché gli ebrei fossero coscientemente identificati con la dimensione del valore, ma perché, data l’antinomia tra l’astratto e il concreto, il capitalismo si manifestava in modo tale da generare esso stesso questa identificazione. Ecco perché la rivolta «anticapitalista» fu anche una rivolta contro gli ebrei: il superamento del capitalismo e dei suoi effetti negativi fu identificato con la soppressione degli ebrei[11].
III
Benché il legame intimo tra l’antisemitismo e il tipo di «anticapitalismo» che ha informato di sé il nazionalsocialismo, sia stato messo in evidenza, rimane da spiegare perché l’interpretazione biologica della dimensione astratta del capitalismo si sia focalizzata sugli ebrei. Nel contesto europeo, questa «scelta» non fu affatto casuale. Gli ebrei non avrebbero potuto essere rimpiazzati da nessun altro gruppo. Le ragioni sono molteplici. La lunga storia dell’antisemitismo in Europa, e l’identificazione dell’ebreo col denaro ad esso connessa, sono note. La rapida espansione del capitale industriale durante gli ultimi tre decenni del XIX secolo, coincise con l’emancipazione politica e sociale degli ebrei in Europa centrale. La presenza degli ebrei nelle Università, nelle professioni liberali, nel giornalismo, nelle belle arti, nel commercio al dettaglio, conobbe una vera esplosione. Gli ebrei divennero rapidamente visibili nella società civile, in particolare nelle sfere e professioni in via di espansione, quelle che corrispondevano alla forma che la società stava adottando.
Si potrebbero menzionare ancora molti fattori, ma vorrei soffermarmi su uno in particolare. Così come la merce, in quanto forma sociale, esprime il suo «doppio carattere» esteriorizzandosi nell’opposizione tra l’astratto (il denaro) e il concreto (merce), la società borghese si caratterizza per la separazione tra lo Stato e la società civile. Per quel che riguarda l’individuo, questa separazione si presenta come separazione tra il cittadino e la persona. In quanto cittadino, l’individuo è un’astrazione. Ciò si esprime, per esempio, nell’idea dell’uguaglianza davanti alla legge (astratta) o nel principio «una testa, un voto». In quanto persona, l’individuo è concreto, implicato in rapporti di classe reali, che sono considerati come «privati», vale a dire riguardanti la società civile, e che non dovrebbero quindi trovare un’espressione politica. In Europa, tuttavia, il concetto di nazione in quanto entità puramente politica, astratta dalla sostanzialità della società civile, non è mai stato pienamente realizzato. La nazione non era solamente un’entità politica, essa era anche qualche cosa di concreto: una comunità di lingua, di storia, di tradizioni e di religione. In tal senso, l’unico gruppo che in Europa soddisfacesse la definizione di cittadinanza come astrazione politica pura, erano gli ebrei emancipati politicamente. Erano costoro cittadini tedeschi o francesi, ma non realmente dei Tedeschi o dei Francesi; appartenevano astrattamente alla nazione, ma raramente in modo fattivo. Inoltre, cittadini ebrei si trovavano nella maggior parte dei Paesi europei. La qualità dell’astrazione, che non caratterizza solo la dimensione del valore nella sua immediatezza, ma anche, in modo mediato, lo Stato borghese e il diritto, fu identificata con gli ebrei. In un’epoca in cui il concreto veniva esaltato contro l’astratto – contro il «capitalismo» e contro lo Stato borghese – questa identificazione generò un’associazione fatale: gli ebrei erano senza radici, cosmopoliti e astratti.
IV
L’antisemitismo moderno è dunque una forma particolarmente pericolosa di feticismo. La sua forza e la sua pericolosità, risiedono nel fatto che esso propone una visione del mondo capace di spiegare e dare forma ad alcune forme di insoddisfazione anticapitalista, lasciando il capitalismo intatto e attaccando le personificazioni di questa forma sociale. Comprendere l’antisemitismo in questi termini, consente di isolare un momento essenziale del nazismo in quanto movimento anticapitalista snaturato, caratterizzato dall’avversione per l’astratto, dalla propensione a fare del concreto esistente un’ipostasi e da una missione che, anche se crudele e ossessiva, non è per forza animata dall’odio: liberare il mondo dalla fonte di tutti i mali.
L’annientamento dell’ebraismo europeo dimostra come sia troppo facile vedere nel nazismo un movimento di massa dai toni anticapitalistici, che, una volta raggiunto il suo scopo e conquistato il potere dello Stato, si sarebbe spogliato di questa sfumatura ideologica (al più tardi nel 1934, con il putsch contro Röhm). Da un lato, le forme ideologiche di pensiero non sono semplici manipolazioni coscienti. Dall’altro, questa concezione non comprende l’essenza dell’«anticapitalismo» nazista e ignora fino a che punto la visione antisemita del mondo gli sia intimamente inerente. Auschwitz illustra questo legame. Se è vero che, nel 1934, i nazisti hanno rinunciato all’«anticapitalismo» troppo concreto e plebeo delle SA, essi non hanno rinunciato all’idea fondamentale dell’antisemitismo: il «sapere» che la fonte di tutti i mali è l’astratto, l’Ebreo.
La fabbrica capitalistica è il luogo dove viene prodotto il valore, produzione che, «sfortunatamente», deve prendere la forma di una produzione di beni, di valori d’uso. È in quanto supporto necessario dell’astratto che il concreto viene prodotto. I campi di sterminio non furono la versione orrorifica della fabbrica capitalistica, bensì la sua negazione «anticapitalista», grottesca, ariana. Auschwitz fu una fabbrica della «distruzione del valore», che intendeva cioè distruggere le personificazioni dell’astratto. La sua organizzazione fu quella di un processo industriale diabolico, il cui obiettivo era di «liberare» il concreto dall’astratto. Il primo passo per realizzare questo scopo consistette nel disumanizzare gli ebrei, vale a dire nello strappare loro la «maschera» dell’umanità, della specificità qualitativa, per mostrarli «tali quali sono realmente»: delle ombre, delle cifre, delle astrazioni. Il secondo passo fu sterminare queste astrazioni, trasformarle in fumo, cercando al contempo di recuperare gli ultimi residui di «valore d’uso» materiale e concreto: vestiti, oro, capelli, sapone.
È Auschwitz – e non la presa del potere nel 1933 – a rappresentare la vera «rivoluzione tedesca», il vero tentativo di «rovesciamento» non solo di un ordine politico, ma della formazione sociale esistente. Questa impresa doveva preservare il mondo dalla tirannia dell’astratto. In questo modo, i nazisti «si liberarono» essi stessi della propria umanità.
I nazisti persero la guerra contro l’URSS, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ma vinsero la loro guerra, la loro «rivoluzione» contro gli ebrei d’Europa. Non solo riuscirono a sterminare sei milioni di bambini, donne e uomini ebrei, ma distrussero una cultura antichissima, quella del giudaismo europeo. Questa cultura si distingueva per una tradizione che incorporava una complessa tensione tra il particolare e l’universale; tensione interna che si duplicava in una tensione esteriore, che caratterizzava la relazione degli ebrei con l’ambiente cristiano circostante. Gli ebrei non fecero mai completamente parte delle società nelle quali vivevano; e mai, tuttavia, si trovarono completamente esclusi da esse. Ciò ebbe per gli ebrei delle conseguenze spesso funeste, ma talvolta molto fruttuose. Questo campo di tensione, in seguito all’emancipazione, si era sedimentato nella maggior parte degli individui ebrei. Nella tradizione ebraica, la risoluzione ultima di questa tensione tra il particolare e l’universale, è una funzione del tempo, della storia: l’avvento del Messia. È possibile che di fronte alla secolarizzazione e all’assimilazione, l’ebraismo europeo avrebbe rinunciato a questa tensione; forse questa cultura sarebbe gradualmente scomparsa come tradizione vivente, prima che la risoluzione della tensione tra il particolare e l’universale si fosse realizzata. Questa domanda rimarrà per sempre senza una risposta.
[Versione originale: Anti-Semitism and National Socialism, in Anson Rabinbach and Jack Zipes (a cura di), German and Jews since the Holocaust. The Changing Situation in West Germany, Holmes & Meier, New York 1986. Trad. it. a cura di Irene Battaglia e Fabrizio Bernardi]
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NOTE
[1] Nella Repubblica Federale Tedesca, tutti gli ebrei, indipendentemente dai loro trascorsi politici, percepiscono una pensione dallo Stato. Tuttavia non è in quanto ebrei che la percepiscono, ma in quanto «antifascisti».
[2] L’unico tentativo recente, sui mezzi di comunicazione della Germania occidentale, di specificare qualitativamente lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti, è stato fatto da Jürgen Thorwald, in Der Spiegel del 5 febbraio 1979.
[3] Cfr. Norman Cohn, Licenza per un genocidio. I «Protocolli degli Anziani di Sion». Storia di un falso [1967], Einaudi, Torino 1969.
[4] Max Horkheimer, Gli ebrei e l’Europa, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato [1939-40], Savelli, Roma 1978.
[5] George L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich [1964], Il Saggiatore, Milano 1968.
[6] La dimensione epistemologica della critica marxiana è immanente a tutto Il Capitale, ma viene esplicitata soltanto nel quadro dell’analisi della merce. L’idea che le categorie esprimono, allo stesso tempo, dei rapporti sociali «reificati» specifici e delle forme di pensiero, differisce essenzialmente dalla tradizione marxista mainstream, che concepisce le categorie in termini di «base economica» e considera il pensiero come una sovrastruttura derivante dagli interessi e dai bisogni delle classi. Questa forma di funzionalismo non può – come ho già detto – rendere conto in maniera adeguata della non-funzionalità dello sterminio degli ebrei. In maniera più generale, essa non può spiegare perché una forma di pensiero – che può certamente servire l’interesse di alcune classi o gruppi sociali – rivesta un tale contenuto piuttosto che un altro. Questo vale ugualmente per l’idea, partorita dall’Illuminismo, secondo cui l’ideologia (e la religione) sarebbero il prodotto di una manipolazione deliberata. Affinché una determinata ideologia si propaghi, bisogna che essa possieda una risonanza la cui origine è da spiegare. D’altra parte, l’approccio marxiano – in seguito sviluppato da Lukács, dalla Scuola di Francoforte e da Sohn-Rethel – si oppone alle reazioni unilaterali contro il marxismo tradizionale, che hanno rinunciato ad ogni serio tentativo di spiegazione storica delle forme di pensiero e considerano tutti gli approcci di questo tipo come «riduzionisti».
[7] Proudhon, che in questo senso può essere considerato come uno dei precursori dell’antisemitismo moderno, pensava dunque che l’abolizione del denaro – della mediazione fenomenica – fosse sufficiente ad abolire i rapporti capitalistici. Ma il capitalismo è caratterizzato da rapporti sociali mediati, oggettivati in forme categoriali, di cui il denaro è solo una delle espressioni e non la causa. In altre parole, Proudhon ha confuso una forma fenomenica – il denaro in quanto oggettivazione dell’astratto – con l’essenza del capitalismo.
[8] Norman K. Mailer, Il prigioniero del sesso [1971], A. Mondadori Editore, Milano1971. [NdT]
[9] Le teorie che presentano il nazionalsocialismo come un movimento «antimoderno» o «irrazionalista», non sono in grado di spiegare l’interazione di questi due momenti. La nozione di «irrazionalismo» tende a non mettere in questione il «razionalismo» dominante, e non può dunque spiegare il rapporto positivo che un’ideologia «irrazionalista» e «biologica» intrattiene con la razionalità dell’industria e della tecnologia. La nozione di «antimoderno» tende ad ignorare gli aspetti più moderni del nazionalsocialismo, e non può rendere conto della ragione per cui esso se la prende soltanto con alcuni aspetti della «modernità» e non con altri. Di fatto, entrambe le analisi risultano unilaterali e rappresentano soltanto l’altra dimensione – la dimensione astratta – dell’antinomia precedentemente delineata. Esse tendono a difendere in maniera acritica la «modernità» e la «razionalità» non-fasciste dominanti. Inoltre, aprono le porte all’emergere di nuove critiche unilaterali (questa volta di sinistra), come quelle di Michel Foucault o di André Glucksman, che presentano la civilizzazione capitalistica esclusivamente in termini di astrazione. Non solo tutti questi approcci non permettono di mettere a punto una teoria del nazionalsocialismo, che sia in grado di fornire una spiegazione adeguata del rapporto tra il «sangue» e la «macchina», ma sono per di più incapaci di mostrare come l’opposizione tra il concreto e l’astratto, tra ragione positiva e «irrazionalismo», non definisca i parametri di una scelta assoluta, ma viceversa i termini di questa opposizione siano intimamente connessi, alla stessa stregua delle espressioni antinomiche delle forme fenomeniche duali peculiari dei rapporti sociali capitalistici. (In tal senso, La distruzione della ragione [Einaudi, Torino 1974], scritta da un Lukács sconvolto dall’indicibile brutalità dei nazisti, rappresenta una regressione rispetto alla critica delle antinomie del pensiero borghese, sviluppata in Storia e coscienza di classe venticinque anni prima). Questo genere di approccio conserva l’antinomia anziché superarla teoricamente.
[10] Questo concetto, utilizzato da Ernst Bloch in Erbschaft dieser Zeit [Eredità di questo tempo], Zurigo 1935,spiega l’antisemitismo moderno nei termini di una collisione tra le forme di coscienza arretrate, arcaiche, inadeguate alla società moderna, da un lato, e le forme di coscienza massificate, reificate, tipiche di questa società, dall’altro. [NdT]
[11] Per rendere conto del fatto che l’antisemitismo moderno abbia trovato riscontri tanto differenti nei vari paesi, e che sia diventato egemonico proprio in Germania, bisognerebbe naturalmente ricollocare l’argomentazione sin qui sviluppata nel contesto sociale e storico di ciascun paese. Per quel che riguarda la Germania, ad esempio, il punto di partenza potrebbero essere lo sviluppo estremamente rapido del capitalismo industriale e i guasti sociali che esso generò, così come la mancata realizzazione preliminare di una rivoluzione borghese, con i suoi valori liberali e la sua cultura politica. La storia della Francia, dall’affaire Dreyfus fino al regime di Vichy, dimostra tuttavia come una rivoluzione borghese precedente l’industrializzazione, non costituisca una garanzia di «immunità» contro l’antisemitismo moderno. D’altronde, l’antisemitismo moderno non trovò grande diffusione in Gran Bretagna, benché le teorie razziali e il darwinismo sociale vi fossero egemoni tanto quanto sul continente. Una delle differenze specifiche di questo paese, potrebbe essere individuata nel grado e nel tipo di dominazione dell’astratto sociale all’inizio dell’industrializzazione. Così, ad esempio, si potrebbe concettualizzare la forma di socializzazione affermatasi in Francia, situandola a metà strada tra quella della Gran Bretagna e quella della Prussia; essa si caratterizzerebbe per una forma particolare di «doppio dominio»: il dominio della merce e quello della burocrazia di Stato. L’una e l’altra rappresentano delle forme razionalizzate; tuttavia si distinguono per il grado di astrazione col quale mediano il dominio. Forse esiste un rapporto tra la concentrazione istituzionale della dominazione concreta – la burocrazia di Stato (inclusi esercito e polizia) e la Chiesa – nel primo capitalismo, e il grado col quale la dominazione astratta del capitale viene poi percepita non solo come minacciosa, ma perfino come misteriosa e aliena.
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Argyris Sfountouris non ha ancora compiuto quattro anni quando, il 10 giugno 1944, soldati delle truppe d’occupazione tedesca in Grecia, irrompono nel suo villaggio, incendiano le case e danno inizio a un eccidio che farà contare 218 vittime civili. Tra queste anche i suoi genitori. A settant’anni di distanza Sfountouris scrive Il Silenzio è la mia lingua, libro diviso in due parti indirettamente legate fra loro.
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