Case Report di come funziona la memoria, analizzata dall’interno. Ovvero: l’ascensore della mia mente scende e si ferma ai vari piani, uno dopo l’altro, indipendentemente dalla mia volontà.
Il tutto non inizia prima dei 70 anni, almeno per chi ci arriva in condizioni decenti. Uno dei sintomi principali è la comparsa di antipatie non particolarmente giustificate. Per quanto mi riguarda, questo mi sembra strano essendo io di modello tendenzialmente molto docile affabile accondiscendente ed empatico. È però vero che tutti pensano di esser capaci di empatizzare con tutto, e di capire tutti gli altri dal loro interno. Io, comunque, sto bene dove sto, covando sereno la mia antipatia viscerale per il Sant’Ambrogio al quale era indirizzata la Lettera sulla Tolleranza di Simmaco … con l’età diminuisce perfino la tolleranza mia.
Quello che inizia in genere non prima dei 70 anni è un rincoglionimento progressivo e auspicabilmente tranquillo. Il processo può essere interrotto in qualsiasi momento da un infarto, o da un ictus, o da una malattia tra le tante che ci sono. Nei casi più fortunati questo non avviene ed il rincoglionimento procede normale, secondo le affettuose regole della Natura.
La Natura non esiste, ovviamente. Le regole si sono stabilite da sole mano mano, non possiamo prendercela con nessuno.
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Un altro aspetto chiave del processo di rincoglionimento è il cambiamento della qualità delle memorie. Bisognerebbe forse dire: “i cambiamenti”, perché ad un certo punto il sistema sembra perdere pezzi in più punti. Ma poi ci rendiamo conto che è il sistema nel suo insieme che ha cominciato a funzionare in modo differente. Quindi manteniamo, almeno per ora, la parola “cambiamento”. Ne fanno esperienza tutti, e nessuno giustamente ne fa un dramma: il nome della persona che non viene in mente quando ne parliamo o quando la incontriamo; tant’è che gli antichi romani ricchi avevano uno schiavo specializzato che li accompagnava per sopperire, il nomenclator; e nessuno se ne stupiva. Il numero del telefono di casa, che un certo giorno sparisce dalla mente e vuol essere letto sulla rubrica, i pin, le parole chiave, le cifre e le frasi d’accesso e tutto quello che rende possibile questi sistemi nuovi che ci semplificano la vita attraverso mortificazioni ripetute. Ma non è della parte negativa che voglio parlare, della perdita. Voglio parlare degli aspetti positivi del rincoglionimento della memoria, perché esistono, e sono molti.
Nota di precisazione: non mi interessa ripercorrere e chiarire, mettere in ordine, quello che si ricollega strettamente e direttamente a quello che c’è ora. Quello che c’è ora si ricorda da solo per il solo esserci. Giulio mio figlio è qui intorno da qualche parte, ed i ricordi che lo accompagnano e lo avvolgono fanno parte di lui nell’essere parte della mia vita. Quindi non sono ricordi ma una realtà unica e presente, non hanno bisogno di essere ricordati, non possono esserlo. Per questo non hanno posto in queste pagine. Questi sono ricordi che hanno la forma delle radici di una quercia (Quercus robur), finché c’è l’albero ci sono le radici, e queste non affiorano, e comunque è meglio non toccare nulla. Lo stesso vale per Margherita mia moglie, la cui presenza è un continuum a partire da un certo anno ben preciso e da situazioni ben definite, lontane nel tempo e che procedono con continuità, e non hanno la valenza dei ricordi, fanno parte di una realtà presente. E non hanno quindi il loro posto in queste pagine.
In qualche modo la realtà presente altera la valenza dei ricordi che la riguardano, li rende non-ricordi (Verità n. 1).
Che esistano aspetti positivi nel rincoglionimento senile e nel cambiamento della qualità della memoria non è certo una scoperta, un fatto nuovo. E come potrebbe mai esserlo? Tutti sanno che a un certo punto riaffiorano ricordi antichi, ricordi d’infanzia, memorie lontane.
La scoperta (ma che certamente non è tale) semmai è nella constatazione che la memoria riaffiora a strati ordinati (Verità n. 2).
L’osservazione che vorrei sviluppare è che la memoria segue, nel riapparire, nel tornare ad esistere, un ordine discendente preciso, come le stratificazioni che l’acqua lascia sulle sponde del lago, lungo i salici (Salix alba). Io ricordo le stratificazioni sui bordi del lago di Villetta Barrea, dalla parte che va dall’ estremità del ponte nella direzione che porta a Civitella, lungo la sponda che arriva fino a Barrea. Stratificazioni fatte di piccoli ciottoli disposti lì dal ghiaccio che copre (copriva) il lago a gennaio-febbraio. Ma è veramente così? Esiste un ordine di riapparizione, inversamente proporzionale alla dinamica del rincoglionimento?
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La parola dynamis in greco antico non significa dinamica nel restrittivo senso moderno di movimento relativo a qualcos’altro e di successione di eventi, ma si riferisce a possibilità. Socrate nei Memorabili di Senofonte (III 8, 8 sgg; IV 2, 25 sgg) discute quanto sia importante conoscere le dinameis, le possibilità, le proprie e quelle degli altri. E Iscomaco, l’interlocutore di Socrate nell’Oeconomicon (sempre di Senofonte) discute delle dinameis, sempre in termini di possibilità, offerte da un terreno incolto (XVI 4), da una moglie (VII 14), da una casa (IX 2). Io mi sono convinto che lo stesso vale per i ricordi, nella loro valenza reale ed attuale e, soprattutto, potenziale.
Io credo che sì, che esiste un ordine preciso nel processo di rincoglionimento, e che quest’ordine possa essere sia ricostruito per capire meglio, sia per essere vissuto e percorso con calma, approfittandone. L’unico modo per capire se tutto questo è vero, dato che manuali precisi ancora mancano, è esaminare se stessi, prima che sia troppo tardi. Guardo allora meglio, ponendo limiti precisi, dalle primissime memorie ai 12-13 anni, prima dei grandi cambiamenti. Essendo io nato nel ’45, questo corrisponde ad un’Italia in mezzo al guado, ricostruzione che non sapeva di essere un boom e campagne dove ancora qualcuno cantava.
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Prima di tutto mi vengono in mente quelli che è facile definire ricordi dolorosi. Quando era livida in volto nella stanza da letto quasi al buio, voleva un altro bambino, il dottor Valeriano Compagnucci la curò bene e la volta successiva lei riuscì a portare a termine, e due anni dopo è nato mio fratello Stefano. Quando fu operata duramente come facevano allora. Quando poco prima della fine si era rotta un femore. Forse quelli dolorosi sono i ricordi che rimangono di più, più numerosi e più a lungo. Vorrei che non fosse così, perché la vita non era affatto solo quello. Era andare al Teatro Eliseo, o a prendere un gelato banana-split al Bar Americano al primo incrocio a sinistra, all’angolo di Via Nazionale con Via Torino, quella che costeggia l’Opera. Il Bar Americano non c’è più da anni, siamo andati lì anche il giorno che andò a farsi visitare dal dottor Gabbianelli, che aveva lo studio a Via Gallia, e che le diagnosticò una cosa grave e poi la operò; siamo andati a prendere il gelato dopo la visita, io non avevo capito bene, anche se a quella età avrei potuto e dovuto (ah, è vero, siamo fuori del periodo cronologico consentito che mi sono proposto, ma questa storia arriva spesso da sola fino alla superficie). Ma le cose a quell’epoca erano differenti, si parlava meno e si sapeva meno. I ricordi di questo tipo sono tanti, e se si comincia a scriverne si sommano uno con l’altro. Allora faccio così: me lo ripasso in mente e non ne scrivo. Per ora mi basta così.
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Ceccano è un comune di 20.000 abitanti nella bassa Ciociaria, di clima mediterraneo ma con punte estreme dovute alla vicinanza dei monti Lepini e ad effetti conca. D’inverno fa freddo. Città volsca (Fabrateria vetus) divenuta presto romana, ha una intensa storia religiosa e papalina, paese di santi e natìa di papi, sede di potenti Conti. Pur non essendo particolarmente industrializzata né essendo importante snodo, fu bombardata pesantemente dal novembre ’43 al maggio ’44 e quasi completamente rasa al suolo. Le marocchinate, una delle quali è raccontata ne La Ciociara, sono avvenute qui, in numero di 21. Ceccano è stata insignita della “Medaglia d’argento al Merito Civile“.
Mamma ha fatto la maestra supplente a Ceccano per 4 anni, dal ’49 al ‘53. Io vivevo con lei, papà era in servizio all’aeroporto di Guidonia. Avere una macchina in famiglia era molto di là da venire. Papà veniva a Ceccano col treno il sabato e ripartiva la domenica. La scuola dove insegnava mamma era una casetta agricola lungo il fiume Sacco a qualche chilometro dalla stazione, non lontanissimo, ma la strada per arrivarci era bianca e piena di buche, spesso trasformate in pozzanghere perché allora pioveva molto. Però lei aveva un paio di bellissime galosce americane di plastica trasparente con i bottoncini al lato, probabilmente regalo di zio Paolo, emigrato. Il posto si chiamava Località Sterparo, lei ci andava in bicicletta, il grembiule nero lucido, scuola rurale multi-classe in frazione agricola, dove era sola con i bambini dei contadini ciociari. Era abbonata a SIM, Scuola Italiana Moderna e la sera si preparava le lezioni. Io andavo alle Elementari dalle monache, si pagava una retta. La strada in salita dove era la mia scuola, che arrivava fino alla Piazza del Comune, aveva da una parte il Convento, dall’altra l’edificio della scuola, molto ben messo rispetto al resto del paese. L’anno della mia Prima era il ‘50-’51, avevo 5 anni, essendo nato 4 giorni dopo la bomba di Nagasaki. A Hiroshima, al centro della zona della prima bomba, era incredibilmente sopravvissuto un albero di kaki (Dyospiros kaki). Ricordo i nomi di due compagni di classe: Ennio Cinque e Vincenzo Zaccari.
Il padre di Ennio produceva mozzarelle, Ennio era sempre vestito bene ed era rubizzo e rubicondo, più forte di me, aveva un fratello più grande ed era l’unico, oltre a me, ad avere i pantaloni alla zuava. Non passavamo insieme il pomeriggio. Io ne avevo due paia, uno grigio, uno marrone, molto belli. Il giorno che sono andato a vedere lo sgozzamento del maiale a fine novembre, però, avevo i pantaloni corti e le cosce livide di freddo, sullo spazio terroso del sacrificio cruento scendeva qualche fiocco.
La signora Zaccari, probabilmente vedova, era padrona di tutto il palazzo, ci affittava la casa al terzo piano, il salotto era diviso da una staccionata interna perché non lo affittavamo. Avevamo diritto solo alla cucina all’entrata dopo la porta di ingresso e, passando per il salotto diviso dalla staccionatina di sedie, alla stanza da letto e al bagnetto. Quest’ultimo non lo ricordo bene. D’inverno faceva molto freddo, il riscaldamento era un camino ed un braciere, per andare a letto mamma aveva dei bellissimi calzini di lana fatti ad uncinetto da lei. Le finestre della cucina davano sul vicolo, da lì io pescavo le rondini. Le due finestre della camera da letto davano invece sul Caùto zona di ruderi anneriti avanzi dei bombardamenti e pieni di cacche e, in certi punti, zeppo di canne (Arundo donax). Le due finestre guardavano sulla vallata del Sacco, a sinistra sul bordo del fiume c’era lontana la fabbrica di sapone Annunziata, le due finestre si aprivano sull’infinito. Sporgendomi e guardando in su, verso il bordo aggettante del tetto, c’erano attaccati in fila i nidi delle rondini che ogni anno tornavano, quando tornavamo anche noi. Non avevo il permesso di sporgermi.
Andare a pesca di rondini era divertente. Avevo una canna presa al fiume e all’estremità del filo attaccavo, senza amo naturalmente, una piumetta di gallina. Sporgevo la canna dalla finestra della cucina sul vicolo e ogni tanto le rondini, incredibilmente, quando le condizioni del vento erano particolarmente favorevoli, abboccavano alla piumetta e non la lasciavano. Le prendevo, le accarezzavo e le rilasciavo io. Avevano zampette rattrappite. Più avanti nel vicolo c’era un locale buio dove una vecchia faceva il sapone mettendo grasso e cenere in un pentolone.
Vincenzo Zaccari aveva una faccia volpina, buona, e nessuno mi toglie dalla testa che fosse lui uno degli impiegati al rettorato dell’Università La Sapienza negli anni ’80, che incrociavo spesso al bar. Ma non glielo ho mai domandato. Dalla parte del Caùto, il palazzo della signora Zaccari aveva un giardino recintato da un muro alto; in un angolo del giardino c’era un albero di feijoa (Acca selliwoniana), prima suggestione tropicale della mia vita. In un angolo del giardino, una porta male in arnese lasciava entrare in uno stanzone con un tavolo pieno di lettere abbandonate che venivano dal Venezuela, dove non sono mai andato.
Una volta venne da Anagni per un concorso una collega amica di mamma, che si chiamava maestra Consalvi, di nome forse Anna, e stette da noi un paio di giorni dormendo in un letto sistemato in salotto. Aveva con sé la figlia della mia stessa età, ricordo con grande chiarezza le due serate passate a giocare a cuscinate.
Nel terreno abbandonato del Caùto c’era di tutto, io ci correvo felice a cavallo di una canna, schiaffeggiandomi il sedere come uncowboy con le redini, le canne migliori venivano dal bordo del fiume Sacco. Le loro radici nell’acqua mi sono rimaste impresse, quasi come la visione della radice che aveva avuto Sartre qualche anno prima.
A Ceccano c’era e succedeva tantissimo altro: la processione al manicomio, il Mercoledì delle Ceneri, gli sversamenti nel fiume ed i pescetti morti, il cinema d’inverno, i western e Totò, i giornaletti di Pecos Bill, i geloni, gli aranci cazzacci, il ciabattino che chiamava per nome i ministri quando lo venivano a trovare, i consigli del Direttore, le montagne di stracci.
Vediamo se funziona il provare a mettere ordine nei ricordi a strati. Prima di tutto, gli strati sono disposti, nella loro chiarezza e nella loro ricchezza, in ordine temporale inverso: prima i più recenti, poi i più vecchi. Così:
Anno 4 a Ceccano: il mercoledì delle ceneri, le rondini, il cinema d’inverno.
Anno 3 a Ceccano: il mercoledì delle ceneri, Pecos Bill, il cinema d’inverno, il ciabattino, l’uccisione del maiale.
Anno 2 a Ceccano: il mercoledì delle ceneri, Pecos Bill, gli sversamenti e i pescetti morti, il cinema d’inverno, il ciabattino, l’uccisione del maiale.
Anno 1 a Ceccano: la processione al manicomio, il cinema, la vecchia che faceva il sapone.
Il cinema durante l’inverno era quasi obbligatorio, si entrava che era giorno, si usciva che era notte. I film durante la settimana erano cow-boy e indiani, qualche Totò; il sabato e la domenica qualche film con un po’ più di respiro, ma a me questi film non interessavano affatto né in realtà sapevo bene che esistevano. Una conseguenza diretta di tutti quei western è stata la mia passione per i fumetti di Pecos Bill, quegli Albi d’Oro settimanali che segnavano con valenza mondiale universale eterna, infinita e luminosa il giorno atteso in cui il giornaletto arrivava in edicola. Il negozio-edicola era giù a valle del paese, allo slargo dove da una parte c’era un ponte e l’entrata allo Stabilimento, la ferrovia e la Stazione, e la strada che saliva verso il paese con quella sorta di locale-teatro della Chiesa dove si preparavano le recite. Lì una volta io, il Figlio della Maestra, mi rivelai essere clamorosamente impreparato e fui rimosso dalle prove del preparando spettacolo. Stranamente l’esclusione mi fu del tutto indifferente, quasi una lieve non-importante liberazione. Nella vita mi è poi successo spesso, la gioia di non dover più fare una cosa accettata programmata impegnativa.
Memoria di alleggerimento. Non è vero, come ha sostenuto Italo Calvino, che da un testo è più difficile togliere che aggiungere. Dal testo della vita è facile, spesso piacevole, togliere, semplicemente non attingendo alla sua memoria (Verità n. 3).
Comunque, il giorno dell’arrivo del nuovo numero di Pecos Bill, andavo ad aspettare nel primo pomeriggio l’auto Zeppieri che portava da Frosinone giornali e giornaletti.
Da questo nodo di ricordi traggo molte informazioni: che stavo a tutti gli effetti vivendo una assoluta età dell’oro nella quale la povertà che mi circondava e che in parte filtrava nella mia vita quotidiana era normale, ovvia, uno stato-di-fatto-più-che-sopportabile; e che 4 anni formano un sostanziale pacchetto unico di memorie diventate modo di essere. All’interno di questi 4 anni, le stratificazioni dei ricordi sono ambigue, labili, confuse, districabili solo a posteriori e solo parzialmente. Il modo di essere no, è altra cosa, e questo lo vediamo meglio alla fine del periodo ceccanese.
La Processione dalla Chiesa di Santa Maria a Fiume (rasa al suolo dai bombardamenti del ‘44) alla Chiesa della Madonna delle Grazie è certamente del primo anno. Era maggio o giugno, faceva caldo, c’erano gigli bianchi (Lilium auratum) sia nelle mani dei processionanti sia nei giardini delle casette lungo la strada: quindi era piuttosto maggio. La tappa iniziale, la prima fermata della Processione, era al Manicomio. La Processione entrava nel cortile attraverso un grande portone, poi passava dentro un enorme gabbione di sbarre di ferro nel quale da una parte si entrava e dall’altra si usciva in fila, assolutamente terrorizzati dai matti che erano aggrappati alle sbarre. Io almeno ero talmente spaventato che mamma negli anni successivi non mi portò più. I matti avevano il volto deforme, sbavavano, erano molto curiosi, vestiti di stracci o di quello che a me sembrarono stracci. Ricordo con terrore i canti e le candele. Quella Processione mi è certamente servita molto, è un ricordo che affiora solo a comando, solo se voglio. Però una cosa la ricordo: la mèta era nella direzione di Monte Cacùme, che mi colpì molto per la sua strana forma, il monte pizzuto che si vede bene dall’Autostrada all’altezza di Frosinone, verso ovest. Ne parla Dante (Purgatorio, IV):
«Vassi in Sanleo e discendesi in Noli, / montasi su Bismantova e ‘n Cacume /con esso i piè; ma qui convien ch’om voli». Ogni volta che passo su quell’autostrada mi torna in mente tutto, da sempre.
Non smetterei più di raccontarmi quei ricordi. Al lato destro del Caùto bombardato c’era il giardino dove il pomeriggio si sedeva a leggere il Direttore Didattico, uomo serio e benevolo con baffi e bastone da zoppo ferito in guerra. Rispondeva al mio saluto, mi raccomandava di fare attenzione alle bombe a mano. Il mercato la mattina, davanti alla Villa Comunale (correvo anche lì, quando era aperto, con la pistola a ditalini che mi aveva portato la Befana) era fatto da contadine con i geloni, piaghe orribili alle quali facevano poco caso, una di loro vendeva aranci grandi che lei stessa definiva “grossi e cazzacci”. A volte accanto a lei una donna vendeva delle rane spellate. Lungo la strada che portava dal mercato alla scuola c’era la bottega del calzolaio, che conoscevo bene e che a volte andavo a trovare il pomeriggio per ascoltare dei discorsi che non capivo, lui mi indicava i passanti chiamandoli Signor Ministro oppure Eccellenza. Una volta lungo la riva del fiume nelle pozze d’acqua lasciate dalla piena c’erano gruppi di pescetti morti, la schiumetta che li aveva uccisi veniva dallo Stabilimento; quel giorno non ero solo, c’era anche Ennio. Non smetterei più, anche se gli strati, i volti, le sensazioni, gli odori si mescolano sotto la pressione schiacciante del tempo. Andavo ad aspettare papà che arrivava con il treno nascosto nell’androne degli stracciaroli, mettendomi dietro il grande mucchio di pezze puzzolenti. Lui lo sapeva ma, ovviamente, ogni volta faceva finta di spaventarsi. Papà arrivava con la littorina delle 3 del sabato pomeriggio (Guidonia-Roma, e poi Roma-Ceccano sulla linea di Frosinone) e ripartiva alle 6 della domenica pomeriggio.
Di tutto ciò a Ceccano non c’è più assolutamente niente, come se nulla fosse esistito. Rimane tutto però nei miei neuroni, anche se non voglio (stranissima verità n. 4).
Comunque, piovesse o non piovesse, mamma mi portava a spasso tutti i giorni, per le ragioni più diverse, andare a comprare uova in campagna, andare dal prete a farsi mettere la cenere in testa il mercoledì mattina, andare a vedere se erano spuntati gli asparagi.
Si pone allora la domanda: questi ricordi fanno parte della stratificazione che riaffiora solo ora in epoca di maturo rincoglionimento (forse in parallelo alla crescente acuta coscienza di mancanza di futuro), oppure non sono andati mai andati via? E la lucidità della loro presenza è solo dovuta a questa mia momentanea ansia analitica e alla mia volontà? Oppure a entrambe le cose? A questo punto ancora non lo so.
Guidonia è un gioiello, comune sparso di 90.000 abitanti all’estremità est della piana romana, sotto Montecelio, che prima prima si chiamava Corniculum. Nel ’34 sorse come città bauhaus nostrana intorno all’aeroporto, entrambi straordinari modelli di architettura e di ingegno. Dal ‘43 le strutture del Centro sperimentale di Guidonia furono distrutte dai bombardamenti alleati e dal minamento operato dai tedeschi in ritirata, che portarono via tutto l’amovibile, dalle rubinetterie alla Galleria Ultrasonora. Delle bombe inglesi sganciate su Guidonia ed il suo aeroporto, una troncò un braccio a Ernesto Cucinella, che poi mi insegnò ad allacciarmi gli scarponi da sci con una mano sola, e a sciare; un’altra cadde su un lato del palazzo rivestito di travertino nel quale ho abitato a lungo, in via Tiberio Cavallo, eroe dell’aviazione. Guidonia non ha avuto la medaglia d’argento al valor civile o a quello militare, ma gli è stato concesso il titolo di Comune d’Italia “in quanto essa risulta essere un ammirevole esempio di città di fondazione del periodo architettonico razionalista”. È vero. Pochi anni dopo …
Per molti anni mamma prendeva il treno, ancora una littorina, molto presto la mattina per andare da Guidonia ad Oricola-Pereto a fare la maestra; ritornava il pomeriggio verso le 3, che ad ogni modo da mangiare lo preparava Elvira, quella brava donna di Elvira, come dicevano tutti ed era proprio vero, emigrata dalla Romagna prima della guerra, con il marito facchino alla stazione che aveva un carretto di legno per portare le valigie da spingere a mano, spesso ubriaco, lei metteva mezzo bicchiere di vino rosso nella sua scodella di brodo quando mangiava da noi, era asciutta, gentile, affidabile, instancabile, sorridente, e mi voleva molto bene. Chissà che fine ha fatto, ha sofferto la sua vita, ha meritato il suo riposo in paradiso.
Oricola-Pereto è l’ultimo comune del Lazio, dopo Arsoli lungo la Tiburtina, sul cocuzzolo di una collina al bordo della pianura dall’altro lato della quale c’è Carsoli e comincia l’Abruzzo. A quei tempi arrivare alle 8 e 15 nella scuola nel paesello partendo da Guidonia non era agevolissimo. Il lunedì mattina i bambini erano sonnacchiosi, e dopo un po’ mamma capì che la domenica si ubriacavano, con i genitori, con quel vinaccio aspro di montagna. Le littorine erano piccoli treni, slanciati e color della polvere, inventati dal regime per le linee ferroviarie dell’Eritrea e dell’Etiopia, ideali per arrampicarsi da Asmara sull’altipiano. Sono rimasti in funzione in Italia nelle linee interne appenniniche ed in Sicilia. Io l’ho presa a lungo per andare a Roma da Guidonia. Ora non ci sono più, il loro vantaggio era di essere sostanzialmente dei grossi motori diesel autoalimentati, molto pratici.
Tutto questo per dire che le scuole medie le ho fatte a Guidonia, dove mamma era finalmente tornata diventando maestra ad Oricola-Pereto. Solo negli ultimi suoi anni di lavoro avrà una classe a Guidonia, punto di arrivo sospirato e sofferto, ma in classe, nella scuola nuova di Via Roma, lei ormai non era più la stessa.
Intorno alla scuola elementare di Guidonia c’era una lunga siepe di cespugli di pitosforo (Pittosporum tobira), che ancora ci sono, ma pochi, invecchiati e troppo curati. Il profumo intenso è rimasto lo stesso. Quello che non c’è più è la grande pianta di passiflora passion fruit (Passiflora edulis), che sporgeva dal lato dell’edificio sulla strada in discesa che porta ai villini degli ufficiali, davanti alla casa del Dottor Valeriano Compagnucci. Era una grande pianta con i suoi fiori tropicali, ora c’è un muro. La strada della scuola elementare da una parte monta alla Chiesa, di fronte ha un palazzo dove abitava tanta gente che conoscevo bene ed i cui nomi ricordo bene tutti; sotto il portico d’angolo c’era il negozio di ciabattino di Antenore Rossi, marchigiano, la moglie si chiamava Pina, la figlia Mirella, il figlio Giulio. Mirella ha sposato il maresciallo Coppola ed il figlio si chiama Flavio, Giulio ha fatto la guerra in Somalia, poi non è tornato in Italia ma ha aperto una officina meccanica in Rhodesia del Nord, come si chiamava allora. Durante una delle visite ai genitori mi ha regalato molti numeri di Pecos Bill, quelli che mi mancavano perché durante l’estate non li compravo. Dall’altro angolo della scuola elementare c’era la Scuola Media.
Io ho fatto gli ultimi giorni di Quinta elementare e gli esami di ammissione a Guidonia, poi, sempre lì, le Medie. Dei compagni di classe ricordo quasi tutti i nomi, e sempre di più me ne tornano alla mente [potrei, se continua così, fare il nomenclator a tempo perso; ma a ben pensarci sarebbe tempo ritrovato]. Solo qualcuno: Annetta Longo, Loretta Silvestri, Marinella Daniele, Giuliana Bartolomucci che aveva gli occhi azzurri, Gianna Cotroneo che sarà professoressa di greco e di latino, e poi Roberto Lucarini, Roberto Borrelli, Gianni Dellino che ha fatto l’ingegnere ed è morto prestissimo di infarto tuffandosi in mare, Rodolfo Ficacci ripetente di un anno che ha vissuto costruendo ponti radio in Canada, Antonio Fazio di famiglia siciliana, Franco Festa di famiglia napoletana, Felice Capuano che diventerà perito elettronico e balbettava solo in privato, Franco D’Aquino di Montecelio e figlio del padrone della linea di autobus che portavano a Roma, la “D’Aquino-De Bonis”. Di Franco D’Aquino, ricciolino e con il naso aquilino, ricordo due cose: una che durante la consueta pisciatina nei bagni all’inizio della ricreazione dalle 11 alle 11 e un quarto una volta avevo i pantaloni nuovi e non riuscendo a sbottonarmi rapidamente dissi incautamente: “non lo trovo più”, e da allora fu una presa in giro impietosa e continua. L’altra è la gita organizzata dai frati francescani alla Madonna del Divino Amore. In quell’occasione lui ed io abbiamo fatto tanto casino che Padre Tarcisio ci mise in castigo sull’autobus, che apparteneva al padre di Franco, parcheggiato all’ombra delle acacie (Robinia pseudoacacia). Pino Armezzani, e Luciano e Mario Baldassarre i due gemelli forse erano in classe con me e forse no, tanto la loro presenza ludica era costante, associata all’inizio ai primi afflati verso Emanuela Brachitta il cui padre era sempre ed elegantemente in giacchetta bianca in Piazza davanti al suo negozio di profumeria. E questo sconfina ed espande alla vita non-di-scuola, la vita ampia della Pineta.
La memoria procede per blocchi o per strati fini fini? Mi sembra di poter concludere che funziona a blocchi, almeno a posteriori, come se il tempo sia una gravità che li cementa insieme (precisazione della Verità n. 2).
Le separazioni tra le faglie più forti rimangono e dividono i ricordi in blocchi: blocco Ceccano, blocco Guidonia scuola media, blocco Guidonia a spasso, la Vigna, Valmontone. Una analisi più accurata, forse possibile, potrebbe portare a capire se all’interno dei blocchi si creano delle preferenze e delle priorità di intensità.
Spesso andavamo al cinema della Parrocchia, nello stanzone ricavato nel corridoio tra le colonne di muratura che chiudevano la piazza della Chiesa. D’inverno facevamo uno strato di cappotti ammonticchiati sotto i quali stendevamo braccia e gambe, e ridevamo molto. Soprattutto io, Lori e Marinella. Ma la vita vera era quella che io vivevo in Pineta.
Chi non conosce Guidonia, o conosce solo la Guidonia di oggi, può solo intuire come il vero centro di aggregazione fossero quei prati aperti, senza alcuna recinzione, con le panchine a strisce di ferro, all’ombra dei pini (Pinus pinea) piantati nel ’34-35, bordata da alberi di melià (Melia azedarach) fatti mettere dal colonnello Nicola Di Mauro. Nicola era mio zio, eroe dell’aria e del volo stratosferico, pilota personale di Mussolini, stabilì record e primati mondiali di altezza tuttora imbattuti, collaudò il primo aereo a reazione italiano, comandò il reparto di alta quota di Guidonia dal ’40 al ’42. Non lo ho mai conosciuto, voleva molto bene a mio padre, era appassionato di alberi, fece piantare le melià dentro e fuori l’aeroporto perché amava il profumo dei suoi fiori blu, perché sono alberi molto resistenti dell’altipiano etiopico e glielo ricordavano. Quando i partigiani arrestarono Nicola, lo liberarono subito dicendo che era un militare puro.
In pineta sedevamo sull’erba o sulle panchine, passeggiavamo, lasciavamo passare il tempo, prendevamo a volte una grattachecca, ci salutavamo quando ci incontravamo e quando ci lasciavamo, facevamo progetti e a volte li realizzavamo. Da grandi o quasi avremmo cominciato a leggere il giornale e a commentarlo, è lì che ognuno è diventato se stesso e quello che è, senza fare niente.
Dalla analisi dei ricordi della pineta, tanti e tutti simili e tranquilli, concludo che alcuni ricordi assumono una funzione d’uso continua, che non sono affatto un ripescaggio, che sono la base sulla quale poggia la formazione della personalità. La presenza lontana di quegli alberi mi aiuta a mantenere radici, stabilizza il nucleo ontologico per il fatto di essere lì. Ho piantato una melià a Manciano.
Aver parlato prima di mamma non significa che papà non avesse un posto privilegiato ed onnipresente, fatto di affetto estremo e di comprensione sempre molto forte. Qualsiasi cosa facessi, lui di me era orgoglioso, ed io ho cercato sempre di essere all’altezza di questo riconoscimento preventivo. Quando mi rimproverava, aveva ragione. Papà era bello. Alto, biondo-castano, gli occhi azzurri, elegante in divisa ed in borghese (quasi tutto era preso da Schostal e conservato necessariamente comme il faut) e tutto era sempre e comunque portato con cura; era preciso, puntuale, gentile, di educazione elegantemente innata, non lo ho mai visto perdere un colpo o lamentarsi davanti ad altri, non lasciar passare prima una signora o sedersi prima degli altri, mai, e mai le scarpe sporche. Spesso la sua anima salernitana affiorava con ironia e con spirito, a volte ai limiti del cinismo. Esempio imprescindibile, ne sono certo, per non sopravvalutare né l’animo umano né aver troppa indebita pietà. Andava a caccia, ed i suoi cani lo adoravano; comprò una 500 quando se la poté permettere, me ne regalò una quando fu possibile. Ma ai tempi dei quali sto parlando, andava in bicicletta.
Siamo andati in bicicletta, prima io sulla canna e lui pedalava; poi io su un seggiolino costruito apposta e lui pedalava, dappertutto intorno a Guidonia. In aeroporto, certamente, ma soprattutto fuori. Verso Tivoli, lungo la strada dove a un certo punto, dopo il bivio di La Botte, c’è uno stabilimento agricolo circondato da un muretto che era allineato di gelsi (Morus alba). Qualche albero è sopravvissuto fino ad oggi. O anche dall’altra parte, verso Bagni e i Laghetti, il che mi piaceva moltissimo, e finiva spesso con un tuffo nell’acqua sulfurea, tra le biciclette abbandonate tra i giunchi (Juncus acutus). Una volta mi insegnò a costruire un cappio per acchiappare lucertole con un filo di erba, senza che soffrissero e per poi liberarle. Una volta mi raccontò la sua disavventura con i gelsi il giorno della sua Prima Comunione a Cava, che gli avevano macchiato tutto il vestito prima di andare in Chiesa. Queste gite campagnole con papà, sorridenti, piene di affetto, di avventura e di sole, spostano i ricordi della stessa epoca a Valmontone. Rimangono però ben distinti, tra loro e da questi altri.
I cassetti dove sono riposte le memorie sono ben fatti (Verità n. 5).
Valmontone è l’ultimo paese della campagna romana, verso sud, sulla Casilina, 15.000 abitanti. Di origini albane, è l’antica Tolerium, storia romana agricola e laboriosamente tranquilla. La nomina Dickens “… Valmontone, la tonda cittaduzza che sorge cinta di mura sulla montagna …” (Pictures from Italy, 1846). Se Dickens si fosse preso la pena di visitarla meglio avrebbe parlato delle sue splendide strade seicentesche, del Palazzo Doria-Pamphilj e della Collegiata fatta dagli architetti delle scuole di Bernini e di Borromini. Peccato che nel maggio-giugno 1944 gli Alleati hanno attaccato ripetutamente la città con bombardamenti aerei a tappeto. L’80% dei suoi edifici fu raso al suolo, i restanti ne uscirono danneggiati e pericolanti. Valmontone è stato insignito della “Medaglia d’argento al Valor Militare“.
Pochi anni dopo …, no, subito dopo, dato che la famiglia di mamma è lì da tempo immemore, e che io sono nato lì nel ’45 in una delle pochissime case ancora in piedi.
A Valmontone tutto si mescola, si sfoca, entra in altri punti focali e ne esce subito, si disperde in un tempo senza tempo. Il primo ricordo è un io e un fiore di lillà e mamma, il secondo è la caduta dall’albero di noci sulla canna e sul filo spinato, ferita doppia, prima antitetanica e scheggia di canna nella coscia. Con ordine:
La Vigna è un terreno di mia proprietà tra il sito di Tolerium, il sito di Labicum e quello più lontano di Prenestae (che è già però di altra cultura: “Palestrina, passa e cammina”). Di Tolerium e di Labicum non resta assolutamente nulla, e di tutto quello che era di famiglia solo io ho conservato un piccolo appezzamento di 10.860 mq nei quali ho piantato di tutto. Il nome “la Vigna” è ormai del tutto improprio, in una vigna ci sono viti, in una vigna si va a pasquetta a mangiare i carciofi e a prendere il fresco d’estate. Nulla di tutto questo avviene più, ed il nome si perde nel venticello, comunque per me molto piacevole, quando ci vado.
Prima che fosse ceduto, nel terreno a destra accanto al mio arrivava ogni pomeriggio zio Gerardo, un uomo anziano calvo e allampanato che veniva a prendere le uova dal gallinaio e tastava il sedere alle galline per vedere se avrebbero comunque fatto presto un altro uovo. Aveva una grande collezione di scarpe che teneva allineate, tutte dono di uno dei membri della famiglia emigrati in America e dai quali ogni tanto arrivava un baule di vestiti ed altro. Le scarpe calzavano bene solo a lui. Questo ricordo occupa numerosi anni, non serve a molto. Il primo ricordo, dicevo, è quello di me in braccio a mamma che dico “lillà” e allungo la mano. La pianta di lillà (Syringa vulgaris) è morta da poco, l’ho ripiantata ma non ha preso. Ci riprovo quest’ anno, nello stesso punto.
Altro problema è che i ricordi sedimentati di quel terreno e su quel terreno sono talmente tanti e così privi di punti di interpunzione che diventa difficile cercare di mettere un ordine qualsiasi. Provo cercando di dividere in categorie.
Categoria 1. Madre.
Categoria 2. Padre.
Categoria 3. Contadini o mezzadri o coloni o fattori.
Categoria 4. Odori.
Categoria 5. Piante e luci.
La ragione della ricerca di un ordine è la seguente: dato che io sono la mia [consciousness, autocoscienza, coscienza di me], e dato che questa è la percezione del mondo in questo momento presente [proiettata su, verificata con, selezionata da, messa in contrasto contro] più le mie memorie, e dato che io reagisco a seconda delle mie memorie, devo capirle meglio. Cioè devo fare un Case Report sul soggetto che conosco meglio, me stesso, scegliendo per l’analisi il periodo che è notoriamente il più formativo, e vediamo se riesco a tirar fuori qualche regola.
Categoria 1. Madre
È molto strano. È certamente mamma la figura centrale di tutta questa zona di ricordi, ma non riesco a definirne (quasi) nessuno, oltre ai lillà. È possibile che sia un caso di rimozione, ci devo pensare meglio. Forse è un transfer potentissimo tra una persona ed un luogo, con sovrapposizione di nuclei ontologici. Credo proprio che sia così, perché lì fioriscono ancora giunchiglie, viole, biancospini, mughetti, ciclamini, pungitopo (Narcissus jonquilla, Viola odorata, Crataegus azarolus, Convallaria majalis, Cyclamen persicum, Ruscus aculeatus). Questi fiori tentano di dirmi qualcosa che non so ascoltare.
Non est signum nisi aliquid aliquo significet, senza un ricettore un ricordo non esiste (Verità n. 6).
Categoria 2. Padre
Il ricordo è nitido e molto antico. Sono io che cado da un albero di noci (Jugans regia) dove lui (elegante, sorridente, efficiente e perfettamente adatto alla funzione, come al solito) mi teneva alzato sulle braccia a raccogliere i frutti. C’era una fila di una decina d’alberi, molto belli, lungo il bordo di sinistra della proprietà di una parte diversa della famiglia, io ero al primo degli alberi della fila, le noci erano per fare scorta per preparare i pangialli per Natale. In qualche modo caddi, infilandomi una scheggia di canna e un pezzo di vecchio fil di ferro arrugginito nella coscia. Dato che ero con papà non piansi né ebbi paura di nulla, solo lui era preoccupato, e tutto si risolse per il meglio. Quegli alberi di noce sono crollati da poco sotto il peso delle loro edere. Ho deciso di non ripiantarli.
Non ho mai smesso di andare su quel terreno, negli anni ’70 ho piantato molte conifere (Pinus pinea, Pinus nigra, Pinus alepensis, Pinis isthmica, Pinus maritima) e due tipi di eucalipti (Eucalyptus alba e Eucalyptus baueriana), con il risultato che tutti quegli alberi sono arrivati rapidamente a 40 metri, che ora il bosco è maturo, che ho privato i vicini di destra e di sinistra di tre ore di luce, che ho perso terreno per scopi migliori, che alcuni vicini mi hanno giustamente imposto di tagliarne molti lungo il loro confine per paura di crolli rovinosi. Però ho una foresta tutta mia e, dopo due passi, entro in un mondo al di fuori dello spazio e del tempo, umido, profumato di funghi e di alloro (Laurus nobilis), dove nessuno sa che esisto e che sono mai esistito, sensazione straordinaria. Nel ’75, prima di andare qualche mese negli Stati Uniti, ho fatto, lungo un bordo e lontano dal bosco magico, una serie di piccole buche “multivalenti”. In ogni buchetta ho messo insieme: una noce (Jugans regia), una ghianda (Quercus robur), una castagna (Castanea sativa), una nocchia (Corylus avellana), un seme di dattero (Phoenix dactylifera). Risultato: si è fatta una fila bellissima di querce e castagni che svettano felici e si agitano al vento. La loro ombra e il loro canto sono lì, memorie vive e presenti.
Tornando alle categorie “madre” e “padre”, è, come dicevo, molto strano. Dopo il primissimo, antico ricordo lì con l’una e con l’altro, certamente ancora fine anni ’40, non c’è più nulla nella mia memoria, salvo quello singolo di una cena che ho organizzato sotto un castagno con loro due, portando elettricità ed acqua da lontano, le farfalle notturne sbattevano intorno al bulbo della lampadina, calda serata di luglio di fine anni ’70. Possibile che sia l’effetto di una rimozione selettiva, molto forte e mirata, o forse non sono ancora abbastanza rincoglionito.
I ricordi più intimi possono nascondersi bene (Verità n. 7).
Categoria 3. Contadini o mezzadri o coloni o fattori
Non ho mai capito come andasse chiamata la famiglia Romagnoli (detti “Panzettoli”), numerosa, di persone che coltivavano quel terreno che si estendeva su gran parte del Colle S. Angelo, da sopra il Convento dei Cappuccini ed il Cimitero fino a molto avanti, verso i confini del territorio di Labico. Una bellissima zona di collina limitata da valloni sul fondo dei quali da una parte passa la strada per Palestrina, dall’altra la Casilina verso Frosinone. Il signor Romagnoli si chiamava Benito, ricordo bene il volto suo e quello di sua moglie, lui era minuto e forte, lei una vera robusta figura contadina. Dei figli uno si chiamava Renato, uno Vittorio, una Luigina, un’altra figlia ha sposato Otello con il quale ho fatto amicizia e che mi ha insegnato molto, morto da troppo vino che faceva lui perché gli piaceva così. Dell’altro maschio non ricordo il nome, per ora, perché era partito a Roma a lavorare. Andavano a prendere l’acqua con l’asino alla fonte dello Jùiero, sgranavano in cerchio le pannocchie sotto l’albero di castagno, con la riforma agraria del ’50 o giù di lì sono diventati padroni di metà del terreno, scavarono a mano un pozzo dove non trovarono l’acqua. I rapporti sono rimasti buoni, e nonna mise a grano il terreno restante, rendeva 16 quintali ad ettaro. Il figlio di Vittorio si chiama Benito e fa il fabbro, gli somiglia molto, dice che quando c’era il padre era tutto un frutteto, che è vero.
Quei giorni che andavo alla Vigna a far finta di fare qualcosa, Otello si avvicinava sempre verso l’imbrunire, quando vedeva che stavo smettendo di lavorare ed accendevo il fuoco. In genere cuocevo una braciola ed un paio di salcicce. Lui portava un boccione di vino da due litri, fatto da lui con l’uva pignoletta, quella che rende molto e matura a fine agosto, non accettava nulla. Quel tipo di vino è opaco e beverello, di bassa gradazione e buono di sapore ma, a giudicare dall’effetto nefasto che ha fatto su di lui, doveva anche essere molto tossico, come il fragolino ed il clintòn; troppo alcool metilico, forse. Quel poco che so sulle piante lo ho imparato da lui.
Da un lato della Vigna c’è la casetta di pertinenza, rimasta separata dal terreno, e per arrivare sulla terra devo fare un giro, potrei rimediare e comperare un passaggio, ma non lo faccio. Questo cambierebbe troppo il passato ed altererebbe in modo irreversibile i ricordi. Sono sicuro che se lo facessi cambierebbe anche il gusto dell’acqua, cosa che non potrei sopportare. Sarebbe una indebita intrusione della sfera della fenomenologia della percezione in quella della memoria. Da non fare e da non toccare.
Le memorie occupano uno spazio tutto loro, invalicabile ed immiscibile (Verità n. 8)
La casetta fa parte di un fabbricato in una parte del quale abitava, tra la fine degli anni ’40 e l’inizio dei ’50, il colono della proprietà accanto. I suoi figli si chiamavano Guido e Tomassa. Erano, come il padre, biondi, di un biondo contadino rossiccio ed abbronzato, Tomassa aveva un occhio di vetro. Se ne andarono a un certo punto, forse verso il ’50 in seguito alla riforma, e a sostituirli venne l’Alatrese (il signor Buccitti) e la sua famiglia.
Categoria 4 e Categoria 5. Odori, piante e luci
È ben noto che gli stimoli olfattivi sono in rapporto diretto con le memorie, ma in questo caso specifico non funziona. In tutto il terreno sento, più o meno forte a seconda dei punti e della stagione, odore di sambuco (predominante) (Sambucus nigra), di funghi, di erba pestata o tagliata, di alloro (Laurus nobilis), di mentuccia (Clinopodium nepeta), di vari tipi di eucaliptus, di foglie di melo, di fiori di acacia (Robinia pseudoacacia), e così via. I ricordi che questi odori stimolano si incrociano con quelli stimolati dalla parola padre, i profumi si incrociano con la presenza della madre, o con quelli degli amici o con quelli di me da solo, la maggior parte delle volte. Ma si mescolano anche con il ricordo della luce che filtra tra i pampini delle viti che non ci sono più, delle prospettive cambiate, con la sensazione di star vivendo le ore inoltrate di un pomeriggio di un giorno di sole di fine ottobre, della mia vita e di quella dell’umanità.
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Le memorie che apparentemente non ci sono
Se dal registro dei nomi della seconda elementare qualche nome manca, questo può essere per due ragioni: o perché quel nome/quel volto non mi hanno colpito e si sono confusi con il rumore di fondo, o perché mi era antipatico e non ho voluto ricordarlo. Ma non credo proprio che sia così, né per la prima né per la seconda ragione. Credo che tutto sia lì nei miei neuroni, e che semplicemente non ho fatto i dendriti per ripescare rapidamente l’informazione. Volendo potrei, senza alcun dubbio. Un cervello umano è fatto di 76 miliardi di neuroni, ognuno ha un numero di dendriti molto alto e variabile che li connette. I dendriti stabiliscono le connessioni e determinano la funzione. Nel caso della memoria: determinano cosa ricordo e cosa non ricordo. I dendriti sono delle linguette filiformi di citoplasma che fanno sì che, se rimangono, passi di lì attraverso di loro la connessione elettrica tra i neuroni dove è scritta la memoria specifica, il volto, un nome. La rete di connessioni dendritiche è la mia memoria (sto semplificando molto, ma il principio è questo). Fatto è che il cervello fa un milione di dendriti al minuto, li fa e li disfa quasi tutti. Solo pochissimi dei dinamici ed instabili dendriti rimangono, a permettere e testimoniare le scelte fatte e le situazioni vissute, e sono le memorie stabili, rinforzate dall’uso e dalla corrente elettrica che hanno fatto passare. Ecco allora che sulla foto di classe che è nella mia mente traccio qualche cerchio neuronico e qualche linea dendritica, con una penna fatta di ormoni e di altre memorie, e tutto quello che è in questi cerchi e in queste linee è disponibile subito e chiaramente. Ma il resto rimane per sempre nella foto che sbiadisce poco a poco senza essere riletta. Tutto l’archivio fotografico è ripristinabile e consultabile, sapendo come fare ed avendo la voglia, le energie, e le connessioni giuste per farlo.
Parlo ovviamente solo di ricordi positivi, in senso lato. Per i ricordi negativi faccio fatica, tendo a dimenticarli, come in genere si fa per il dolore, probabilmente è lo stesso meccanismo. Qualche esempio? No, li tengo per me. Tanto, facciamo tutti così, e sappiamo bene come funziona, senza che nessuno provi a spiegarcelo.
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Tiro le somme di questa autoanalisi:
Verità n. 1: la realtà presente altera la valenza dei ricordi che la riguardano, li rende non-ricordi, li ingloba.
Verità n. 2: la memoria riaffiora a strati ordinati, a blocchi.
Verità n. 3: esiste una memoria di alleggerimento. Non è vero che da un testo è più difficile togliere che aggiungere: dal testo della vita è facile togliere ricordi, in modo apparente.
Verità n. 4: tutto rimane nei miei neuroni, anche se non voglio. Vedi anche Verità n. 9.
Verità n. 5: i cassetti dove sono riposte le memorie sono ben fatti.
Verità n. 6: non est signum nisi aliquid aliquo significet. Un ricordo ha bisogno di un ricettore, di qualcuno che ne colga il significato, altrimenti non esiste.
Verità n. 7: i ricordi più intimi possono nascondersi bene.
Verità n. 8: le memorie occupano uno spazio tutto loro, invalicabile ed immiscibile.
Verità n. 9: assolutamente tutto rimane scritto nei neuroni, se si fanno i dendriti giusti torna fuori. La selezione avviene scegliendo cosa “può”, o “deve”, o “è meglio che”, rimanga non-letto nel cassetto dove è riposto.
Verità n. 10: i ricordi negativi tendono ad essere dimenticati, come in genere si fa per il dolore.
Questa lista si è formata seguendo l’ordine di analisi, così come descritto nel racconto fatto e come le “verità” sono affiorate. La lista si può razionalizzare meglio, riscrivendola in forma più raggruppata e discorsiva, come segue:
I RICORDI SONO BEN ORDINATI: i cassetti dove sono riposte le memorie sono ben fatti. In questi cassetti le memorie occupano uno spazio tutto loro, invalicabile ed immiscibile.
I RICORDI SONI BEN CONSERVATI: tutto rimane nei miei neuroni, anche se non voglio. Se si fanno i dendriti giusti torna fuori. La selezione avviene scegliendo cosa “può”, o “deve”, o “è meglio che” venga recuperato, oppure rimanga non-letto nel cassetto dove è riposto. I ricordi più intimi possono nascondersi bene.
I RICORDI SONO SENSIBILI AL TEMPO: la realtà presente altera la valenza dei ricordi che la riguardano, li rende non-ricordi, li ingloba. Con il passar del tempo, quando il “presente” perde respiro, la memoria riaffiora a strati ordinati, a blocchi.
I RICORDI POSSONO ESSERE IGNORATI: decodificazione, un ricordo ha bisogno di un ricettore, di qualcuno che sia pronto o disposto a coglierne il significato, altrimenti non esiste. Rimozione: esiste una memoria di alleggerimento. Dal testo della vita è facile togliere ricordi, almeno in modo apparente. I ricordi considerati negativi tendono ad essere dimenticati.
Non c’è ovviamente nulla di nuovo, ma ora lo so meglio anch’io.
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Il mio fallimento esistenziale è quello di non aver saputo far rivivere nessuno di questi ricordi, ed è un mio vero unico totale assoluto inscusabile imperdonabile fallimento. Però il sambuco, i sambuchi, ancora fioriscono. Le loro infiorescenze forniscono la giusta soluzione al problema della intrusione dei ricordi nella vita reale.
Dato che non si vive di soli ricordi, né della loro estenuata analisi, ho appena piantato una trentina di alberi da frutto, non per posteri che non andranno a raccoglierli, non per aspirazione a lasciare qualcosa, non per un futuro che non mi riguarda perché non ci sarò, non per chi comprerà il terreno e li taglierà per costruirci. Lo ho fatto perché spero che basti questo, ovunque sarà il corpo, a far meritare ai miei ricordi il riposo al fresco dell’ombra del castagno, e perché inverano una memoria antica e profonda.
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Al di là di considerazioni personali, forse si può cercare di fare qualche conto, tenendo comunque presente che sono calcoli molto approssimativi perché ognuno di noi è differente, e perché non tutto è noto con esattezza. Comunque, ragionevolmente:
un cervello umano è fatto di 76 miliardi di neuroni. Accettiamo che il 10 % sia impegnato in processi di memorizzazione, e che il numero non cambi molto durante la vita, che assumiamo essere di 76 anni (quello che ho vissuto finora): 7,6 miliardi di neuroni in funzione per 27.740 giorni. Dando un corredo per neurone di 20 dendriti, nel mio cervello ci sono 152 miliardi di dendriti della memoria, in funzione per 1.440 (il numero di minuti di un giorno) moltiplicato 27.740 (il numero di giorni che ho vissuto). Uguale 39.945.600 minuti durante i quali si sono stabilizzati e conservati 152 miliardi di dendriti. Arrotondiamo: 150 miliardi di connessioni per 40 milioni di minuti (non prendendo in considerazione gli aspetti dinamici, ovvero cosa prima, cosa dopo). Questa è la dinamica della base strutturale del film della mia memoria.
Procediamo prendendo in considerazione che, inoltre, ogni minuto si fanno 1 milione di dendriti, e che la maggior parte di essi viene subito riassorbita, che non rimangono, che rimane solo quello che viene determinato dall’uso preferenziale e mirato, secondo regole complesse che sostanzialmente non conosciamo ma che in parte possiamo intuire. Viene scelto, e destinato alla conservazione e al suo facile ripescaggio, quello che mi serve per affinità, pericolo, calcolo di previsione, sfera emotiva, ormonale, fisiologica, psicologica, novità, adattamento, e tutto ciò che la poesia e la letteratura hanno potuto e saputo concepire, abitudini comprese. Fatto sta che quando esco dalla classe seconda elementare, ho fissato nel cervello la nuova forma di alcuni neuroni che hanno inscritto tutto ma hanno connesso qualcosa si, qualcosa no. Ricordo allora il nome di Ennio Cinque e quello di Vincenzo Zaccari. Se poi incontro di nuovo Ennio, e lui ha i pantaloni alla zuava come i miei (cosa inattesa), e poi incontro Vincenzo Zaccari e scopro che lui è il figlio della padrona di casa, allora i dendriti del pomeriggio si sommano a quelli della mattina in classe, e nuovi neuroni entrano in gioco, forse nella stessa clique, forse molto lontani, forse sono gli stessi, forse si collegano a quelli di prima, forse li rinforzano soltanto, forse e più probabilmente molte di queste cose insieme. Diventa allora possibile cominciare ad intuire le regole del gioco. Rimane lontana la comprensione del fatto che i due nomi riaffiorino solo ora, essendo rimasti nascosti per 70 anni. Forse sono connessi ai neuroni nei quali riposa mia madre, forse ad altro, comunque legati tra loro da un filo di citoplasma.
Il che mi porta ad estendere il calcolo. Sono nato con un vaucher di 50 milioni di kilocalorie. Una caloria è definita come l’energia necessaria per innalzare di 1 °C (precisamente da 14,5 °C a 15,5 °C) la temperatura di 1 grammo di acqua distillata alla pressione atmosferica. Ogni giorno consumo a riposo 1800 kilocalorie, ed ogni sera il vaucher viene controllato, vidimato, la sua validità accorciata del valore usato. Il calcolo è presto fatto il vaucher vale 27.777 giorni, uguale a 76 anni. Il conto quindi torna, e non voglio pensare a quanto spesso ho abusato usando più delle 1800 kcal previste, né a quanto è scritto sui bordi del vaucher spiegazzato.
Il cervello costa molto, circa metà di quanto consumiamo, usa 25 milioni delle kilocalorie che mi sono state concesse per fare, mantenere, e ripescare 150 miliardi di connessioni. Ma no, non è poi in fondo così tanto:1 kilocaloria ogni 6000 connessioni. Ovvero: per fare 6 connessioni ho impegnato una caloria, come stiepidire una goccia d’acqua. In fin dei conti ne è valsa la pena, è stato un buon affare.
Ma un affare molto meccanico, il bilancio della trasformazione della forma dell’energia.
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