Mentre, dopo lo shock, ci si rende conto della gravità fuori scala di quel che è accaduto e sta accadendo in Emilia-Romagna, è necessario mettere in fila e smontare le retoriche a cui è ricorsa la classe dirigente della regione dai primi di maggio, fin dalle prime ore di alluvione. Qui useremo l’espressione «classe dirigente» in un’accezione ristretta, per riferirci ad amministratori e amministratrici del PD.
Certo, in Emilia-Romagna non governa solo il PD, ci sono anche giunte di destra dichiarata, caratterizzate da politiche, superfluo dirlo, bieche. Nello specifico, spargono cemento quanto Bonaccini, Lepore o De Pascale. Del resto, basta vedere la situazione in Lombardia e Veneto, dove governano quasi ovunque. Su quel piano, la sola differenza è che la destra agisce con meno ipocrisia, meno lavaggi-in-verde.
Ad ogni modo, la destra dichiarata in Emilia-Romagna è ancora l’eccezione, mentre il PD è la regola. Oltre a essere forza di pregresso – discende in linea diretta dai partiti (PCI, PDS e DS) che hanno amministrato il territorio per una sessantina d’anni – il PD governa la Regione, il capoluogo di regione con la sua Città metropolitana, sette capoluoghi di provincia su nove con le relative Province, e la maggior parte dei più di trecento Comuni.
Il PD è dunque, senza alcun dubbio, il principale referente politico dell’economia reale emiliano-romagnola. Rappresenta precisi interessi economici, gli stessi che hanno devastato ambiente e territorio con le conseguenze che abbiamo sotto gli occhi.
Per capire il tracollo del “modello emiliano-romagnolo” sotto una distesa di fanghi tossici, è al PD e al suo mondo – il sistema delle cooperative e delle partecipate, il sottobosco di associazioni parapartitiche, gli intellettuali saprofiti, gli alleati-subordinati fintamente «più a sinistra», i «movimentisti» integrati con tanto di centri sociali di sottogoverno ecc. – che bisogna guardare.
È necessario, prima di tutto, smontare un po’ di cornici narrative. Troppo spesso si invoca una «manutenzione» che in realtà è manomissione, e si parla di «messa in sicurezza del territorio» intendendo altre infrastrutture, altri disboscamenti. Si parla di «ripartire», si scaricano le responsabilità su capri espiatori, ci si rifà al «cambiamento climatico» come se si parlasse di una fatalità.
1. Cementificazione: negare l’evidenza
In molte interviste e prese di posizione su Facebook – la loro vera “sede istituzionale” – svariati esponenti della classe dirigente regionale hanno negato l’evidenza, fingendo di non aver approvato colate di cemento e sostenendo che la famigerata legge regionale n.24 del 2017 «ha già impedito nuovi insediamenti per oltre 11mila ettari». Lo hanno detto, in primis, il presidente Stefano Bonaccini e l’assessora regionale alla programmazione territoriale Barbara Lori.
Chi ha seguito l’iter di quella legge – più volte emendata, tre volte prorogata e scritta in modo da consentire ampie deroghe – sa che ogni numero a essa riferito va preso con le pinze. Capire cosa si sia tutelato è quasi impossibile, dato che la maggior parte delle cementificazioni sfugge ai rilevamenti. Come ha scritto l’urbanista Paolo Pileri:
«l’Emilia-Romagna si è costruita una legge urbanistica talmente ingannevole da autoprodursi assoluzioni come quella che si può vedere sul sito della città metropolitana di Bologna dove, come per incanto, dal 2018 fino a oggi i consumi di suolo sono magicamente diventati zero. Ma non perché hanno smesso di consumare (tutt’altro), solo perché hanno manomesso le definizioni urbanistiche al punto tale da riuscire a non conteggiare più le cementificazioni e risultare così tutti virtuosi e contenti per legge, non per virtù.»
La legge 24/2017 – frutto di un compromesso al ribasso con le lobby dell’edilizia che spadroneggiano in regione – lascia ampio spazio a ogni sorta di gabole e aggiustamenti, di deroghe e svicolamenti, e il risultato si vede, ce l’abbiamo davanti ogni giorno. Tra gli altri, lo ha spiegato molto bene l’urbanista Gabriele Bollini, docente di Pianificazione e progettazione sostenibile all’Università di Modena e Reggio Emilia, in recenti interviste rilasciate a diversi media, tra cui il Fatto Quotidiano, Radio Città Fujiko e Il manifesto.
In soldoni: la legge ha fissato un tetto per ulteriori consumi di suolo da qui al 2050, che in ogni Comune non dovrebbero superare il 3% del territorio urbanizzato calcolato al 2017. In questo modo, si dice, nel 2050 si arriverà al «consumo di suolo a saldo zero».
Solo che, a tutt’oggi, nella maggior parte dei Comuni quel limite non è ancora scattato, vuoi perché le amministrazioni ritardano a bella posta l’approvazione del loro Piano Urbanistico Generale (PUG), vuoi perché la Regione ha prorogato tre volte l’entrata in vigore della legge. Proroghe giustificate in vari modi, non ultima la necessità della «ripartenza dopo il Covid». L’emergenza-pandemia torna sempre buona.
E cosa succede mentre il limite non scatta? Succede che si divora suolo in deroga. E così, allo scattare del limite, il 3% di suolo che i Comuni potranno consumare andrà ad aggiungersi a quello che hanno cementificato nel frattempo. Essendo fuori dai PUG e in anticipo sul limite fissato, quel consumo di suolo sfugge alle maglie della legge, non risulta. Anche grazie a questo, chi difende la 24/2017 potrà rimuovere il contesto reale e sbandierare “grandi risultati” del tutto farlocchi.
Il processo va avanti a una tale rapidità che, come avvertiva Legambiente nel 2022, «allo scattare del limite del 3% rischieremo paradossalmente di non avere più suolo consumabile.»
Bologna, quartiere Navile, all’angolo tra via di Saliceto e via Passarotti, 27 marzo 2021. Protesta contro il cemento e i «mostri urbani», organizzata dal «Comitato per una Bolognina da vivere» di fronte a uno dei tanti palazzoni tirati su a tempo di record in quella zona, spuntati nel paesaggio come funghi mutanti dopo una pioggia radioattiva. Foto di Michele Lapini / Eikon Studio.
Ma anche se il limite al 3% fosse una cosa seria (e non lo è), sarebbe aggirabilissimo grazie all’articolo 53 della legge stessa, che permette deroghe «per l’approvazione di progetti relativi ad opere pubbliche o di interesse pubblico di rilievo regionale o locale».
Inutile dire che molte «opere pubbliche» sono Grandi Opere del genere Dannoso, Inutile & Imposto (GODII), e che «interesse pubblico» può voler dire tutto e niente.
Nella vaga definizione all’articolo 53 rientrano anche i grandi «poli logistici», nell’ultimo decennio tra i massimi responsabili del consumo di suolo in val padana. L’Emilia-Romagna è la regione con la maggior superficie assoluta di terreno sacrificato alla logistica, e si continua imperterriti. A causa della logistica, una vera e propria alluvione di cemento – che potrebbe essere concausa di alluvioni vere e proprie – sta investendo il territorio piacentino, come mostra Pileri in un articolo su Altreconomia di qualche giorno fa.
Mentre il fango invadeva strade e case, la classe dirigente è scattata come un sol uomo a negare tali evidenze, dire il contrario di quel che avrebbe senso dire, indicare capri espiatori umani e non.
Poi qualcuno deve aver capito che così era troppo, e si è sentita qualche vaga concessione, sì, in effetti c’è «troppo cemento» – detta come se fosse arrivato da solo – e «bisogna ripensare il territorio», frase che non impegna e va bene per ogni stagione, proferita da amministratori che un minuto prima e un minuto dopo dicono: «avanti coi cantieri».
2. Dare la colpa ad «ambientalisti» e «animalisti»
Nutriaman, nemico pubblico numero 1.
Prendiamo a esempio il sindaco di Ravenna Michele De Pascale. Dichiarazione dopo dichiarazione, costui è parso combattere una crociata personale contro «gli ambientalisti» che gli impedirebbero di far tagliare gli alberi in riva ai fiumi – cosa per lui buona e giusta – e «gli animalisti» che a suo dire lo avrebbero «minacciato» per «difendere le nutrie» – secondo lui la causa principale del cedimento degli argini, come per il suo collega di Massa Lombarda Daniele Bassi erano gli istrici.
Secondo De Pascale – lo ha ripetuto in decine di interviste – la cementificazione non c’entra: il disastro c’è stato perché l’acqua è «venuta giù dai monti», come i nani dei Loacker, e la piana romagnola è un catino sotto il livello del mare.
A quanto pare, il primo cittadino del capoluogo di una delle province più cementificate d’Italia trova ininfluente che la piana romagnola sia in gran parte sprawl, zona di neourbanizzazioni incontrollate, e che si sia edificato praticamente nei fiumi.
Un plastico esempio lo ha fatto Bollini: il condominio «Casa sul fiume», in via De Gasperi 115, a Faenza (RA). Si chiama così perché costruito letteralmente nell’alveo della piena monosecolare del Lamone, uno dei fiumi esondati nei giorni scorsi. Il condominio – si sarà già capito – è stato travolto, coi suoi trentasei appartamenti e quarantacinque garage sotterranei.
Il condominio «Casa sul fiume» di Faenza visto da satellite prima dell’alluvione, dal sito di Radio Città Fujiko.
Del resto, come abbiamo già ricordato, l’Emilia-Romagna è la prima regione per consumo di suolo in aree ad alta e media pericolosità idraulica.
È questo sprawl che l’acqua ha travolto. Se ad allagarsi fosse stato un territorio più libero di respirare e meno sigillato, forse ci sarebbero stati danni alle coltivazioni, ma avremmo avuto meno distruzioni, tragedie e lutti.
Soprattutto, avremmo evitato molte delle conseguenze ambientali e sanitarie di cui ci rendiamo conto ora dopo ora. Le distese di fango che ancora ricoprono parti di Romagna sono un miscuglio di liquami di fogna; sostanze inquinanti e velenose che la piena ha trovato in fabbriche, magazzini e stazioni di servizio; detersivi e altri prodotti chimici strappati alle case; rifiuti scaraventati fuori da cassonetti e cestini; carcasse in putrefazione di migliaia di animali morti negli stabilimenti zootecnici; plastica che diverrà microplastiche, e chissà cos’altro. Tutta roba che presto o tardi finirà in mare o percolerà nelle falde. Cementificazione vuol dire anche questo.
Quanto ai fiumi, troppo comodo dire: i monti stanno in alto e il fondovalle in basso e quando piove forte l’acqua viene giù. «Grazie al cazzo» è la prima risposta che viene in mente. Diamo un’occhiata a come sono stati trattati, quei monti e quei fiumi esondati con tanta violenza, e qualcosa in più capiremo.
Prima, però, una riflessione di carattere più generale.
3. Vivere su una terra di cui non si sa niente
Nella bassa emiliano-romagnola, che è tutta pianura alluvionale e in gran parte terra di bonifiche, è esistito per secoli un sapere diffuso, un sapere pratico legato al governo delle acque, derivante dalla consapevolezza di vivere in un territorio sempre in bilico.
Nel 1996, nella premessa al suo Storia delle campagne padane dall’Ottocento a oggi, lo storico Franco Cazzola – uno dei più profondi conoscitori del territorio bassopadano – descriveva quella che era ormai ex-campagna e, dopo aver ricordato l’alluvione del Tanaro nel novembre 1994, con lungimiranza scriveva:
«I potenti mezzi messi a disposizione della tecnica, per quanto avanzati possano essere, non riescono oggi, a mantenere in vita o a ricostituire quel grande patrimonio collettivo di saperi della terra e dell’acqua, quella preordinata e quotidiana accumulazione di lavoro umano nella costruzione del paesaggio agrario che aveva fatto delle campagne padane, sia pure nel quadro di un permanente e lacerante conflitto sociale, uno dei punti più avanzati dello sviluppo agricolo europeo. Erano stati da sempre gli agricoltori, i mezzadri, e i miserabili braccianti della valle padana i più validi controllori del grande fiume e della straordinaria rete di acque che a esse affluiscono. Una volta venuta meno la loro vigile presenza, ossia nel momento in cui queste terre hanno cessato di essere campagna, la straordinaria artificialità dell’ambiente agrario padano può tradursi repentinamente in un grave pericolo per gli uomini e per le cose. Forse è proprio questo il messaggio (o l’avvertimento, o il presagio) che il lettore potrà agevolmente rintracciare in gran parte dei dispersi studi che oggi ho preso l’ardire di riproporre uniti»
Quasi trent’anni dopo, possiamo dire che quel «messaggio o avvertimento o presagio» non l’ha ascoltato nessuno. Un tempo gli abitanti delle campagne emiliane e romagnole sapevano distinguere un canale di scolo da uno di irrigazione, capivano a occhio se un argine era malmesso, sapevano come rafforzarlo, sapevano dove non costruire ecc.
Finito quel mondo, la trasmissione di quei saperi si è interrotta, e la consapevolezza della precarietà del territorio è svanita. Oggi l’abitante medio dello sprawl-che-fu-campagna dà per scontato il paesaggio che ha attorno, mentre scontato non è, e non conosce il regime delle acque che plasma il territorio in cui vive. La maggior parte della gente non sa nemmeno come si chiami il canale che passa accanto a casa, non ha la minima contezza del rischio idraulico in questa o quella zona, non si fa domande vedendo edificare sulla riva di un fiume e così via.
D’altra parte, anche i tecnici, che qualche sapere lo custodiscono ancora, spesso non sono coordinati tra loro, fanno parte di società private che oggi vincono un appalto e domani passano la mano, si trovano a occuparsi di situazioni frammentate, con competenze frammentate, con il risultato che le conoscenze individuali non riescono a contrastare l’ignoranza collettiva.
Tale ignoranza rende inclini a credere a pseudospiegazioni, ad accettare capri espiatori umani, animali e vegetali.
Nell’ambito della sua polemica contro «gli ambientalisti», De Pascale ha rilasciato un’intervista all’ultraliberista Porro, nella quale ha dichiarato:
«In natura i fiumi esondano. Se non si vuole che accada, allora bisogna fare gli argini con la logica delle opere pubbliche e non con la logica degli spazi naturalistici».
Il frame è quello della «pulizia dei fiumi», espressione con cui lui e troppi altri intendono l’abbattimento degli alberi lungo le rive.
Ebbene, se il criterio è quello, allora i fiumi di Emilia e Romagna sono tra i più “puliti” che si possano vedere.
Proprio questo è il problema.
4. Denudare gli argini: l’eccidio della flora ripariale in Emilia-Romagna
Negli ultimi anni, in Emilia-Romagna, la vegetazione ripariale è stata sterminata. Non sapremo mai se il numero di alberi abbattuti sia nell’ordine delle decine o delle centinaia di migliaia. Di certo, è stata un’immane strage. Che ha avuto e avrà ancora esiti tragici.
L’aggressione più intensa è avvenuta nel biennio 2020-2021. Mentre si pensava quasi solo al Covid, la Regione ha commissionato a ditte private l’abbattimento di una vasta moltitudine di alberi. L’assessorato competente era quello ad «ambiente, difesa del suolo e della costa, protezione civile». All’epoca, su quella poltrona sedeva Irene Priolo, già assessora alla mobilità del Comune di Bologna, oggi vicepresidente di regione.
Le linee guida regionali sulla manutenzione dei boschi ripariali (qui in pdf) dicono, in buona sostanza, che bisognerebbe andarci cauti, intervenendo sulla biomassa vegetale solo se intralcia il deflusso, rimuovendo più che altro alberi morti o moribondi ecc. Invece nel 2020-2021 si è abbattuto e rasato tutto, si sono denudati gli argini. C’è chi lo ha denunciato e la vicenda è finita anche sui giornali, tanto che Priolo si è dovuta difendere, ma il dibattito si è spento in un lampo – in quel periodo l’attenzione era distolta dalla «caccia al novax» – e si è proseguito come prima.
Credendo così di «risparmiare denaro pubblico», gli enti locali commissionano interventi di «pulizia» sempre più drastici, «così per una decina d’anni non ci si pensa più».
Dal canto loro, le ditte a cui è affidato il lavoro hanno tutto l’interesse a tagliare il più possibile, perché il legname rimane a loro e viene venduto alle centrali a biomasse.
L’odio per il verde spontaneo
I profitti dei privati sono il movente diretto degli abbattimenti, ma a dare la possibilità a quei privati di fare tutto questo è la politica, e qui tocca riscontrare che la classe dirigente padana in genere ed emiliano-romagnola in particolare è animata da un feroce odio per gli alberi.
Lo ha dimostrato innumerevoli volte. Gli alberi li tollera in moderata quantità, a scopo ornamentale, solo se disposti in filari come soldatini, magari coi fusti circondati da lastroni di cemento, e se non si “allargano” dal posto assegnato. E infatti ne reprime l’allargamento ogni volta che può, e li abbatte se le radici, com’è normale, premono da sotto e gonfiano l’asfalto.
Tipica veduta bolognese: il verde cementificato e cementificante. Via Carracci, 28 maggio 2023. Sullo sfondo, la monorotaia del «People Mover».
«Gli alberi, le erbe e ogni cosa che cresce o vive sulla terra appartiene solo a se stessa» (J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli). Indifferenti a questo monito, i nostri amministratori vivono come vilipendio l’esistenza di vegetazione che “faccia per proprio conto”, che non sia normatissima, che sfugga al loro controllo.
È una questione di “decoro”, come l’erba rasata a fil di suolo, un assurdo che non solo stermina gli insetti impollinatori e danneggia gli ecosistemi, ma in tempi di siccità espone il suolo al calore eccessivo, lo secca e lo rende incapace di assorbire l’acqua delle precipitazioni che verranno.
La “vendetta” dei fiumi
Tornando alla flora ripariale distrutta: cosa succede a un argine “pelato” in quel modo?
Lo vediamo bene nel video che mostra l’esondazione dell’Idice e la completa distruzione del ponte della Motta, a Molinella di Budrio (BO). 〈clicca sul link sottostante per vedere il video〉
Dopo aver visto il video, il naturalista Fausto Bonafede ha scritto e fatto circolare questo commento:
«Nel filmato, in ottima definizione, si vede che, l’Idice è completamente privo di vegetazione in quel tratto (si vede meglio nel tratto a valle del punto di rottura dell’argine); in questa situazione l’idice, ha “mangiato” mezzo argine (una massa solida imponente) per un lunghissimo tratto che comprende anche il ponte; poi la forza e la massa enorme di acqua ha rotto l’argine poco a valle del ponte crollato. Se a monte e a valle del ponte ci fosse stata la vegetazione ripariale, l’idice sarebbe uscito dagli argini ma non si “mangiava” le sponde di terra e il ponte probabilmente non crollava. L’erosione delle sponde e il trasporto solido aumentano con la velocità e la massa d’acqua in gioco. Se il fiume è “pulito” aumenta la velocità dell’acqua e la sua forza erosiva. Quando sulle sponde poggia un ponte, una strada o costruzioni sono guai seri documentati dal filmato. La “pulizia” generalizzata dei corsi d’acqua non ci mette al riparo dal disastro di questo giorni che è sotto gli occhi di tutti. Qui l’Idice era “pulitissimo”! […] il taglio della vegetazione deve essere effettuato in modo localizzato tenendo conto del tipo di corso d’acqua interessato; prima di tagliare la vegetazione ripariale è necessario valutare bene le caratteristiche di ogni corso d’acqua e l’effetto erosivo causato dalla diminuzione della scabrezza in seguito al taglio della vegetazione.»
Un altro fiume appenninico che attraversa il territorio bolognese è il Savena. Ebbene, il Savena si è gonfiato ma nel tratto extraurbano ha tenuto. È esondato nella periferia est della città, a San Lazzaro e Rastignano, e in un punto ha rotto in modo clamoroso: presso il parco del Paleotto, dove a novembre-dicembre si era disboscato in modo forsennato, 1157 alberi distrutti per insediare il cantiere del Lotto 2 del Nodo di Rastignano, opera stradale collegata al Passante di Bologna.
Il 5 gennaio, sul Fatto Quotidiano Linda Maggiori aveva scritto:
«a Bologna, una parte del Parco del Paleotto sparisce sotto al cemento e la stabilità dei versanti del fiume viene irrimediabilmente compromessa, con le auto a passare sull’argine del fiume. E se malauguratamente, come sempre più spesso accade, dovesse verificarsi una bomba d’acqua, con conseguenti frane o esondazioni, trascinando le auto del “Nodo” nel gorgo di fango, contro chi si urlerà? Contro la “natura assassina” o contro i politici assassini?»
Il 17 maggio il cantiere è stato annichilito. La superiore ratio del fiume ha momentaneamente sconfitto l’irrazionalismo organizzato e la hybris cementizia.
In un comunicato stampa, l’associazione Santa Bellezza ha espresso la posizione più giusta: «Pretendiamo che il cantiere del Nodo di Rastignano non venga mai più riaperto.»
Ma il colmo è quando gli abbattimenti servono a fare greenwashing, come nei casi di certi «percorsi cicloturistici».
5. Paradosso di una «ciclovia»: eliminare il verde per essere green
Nei giorni scorsi sono circolate alcune foto di Bonaccini in bicicletta, seguito da altri esponenti della classe politica locale. Era il 23 aprile ultimo scorso e il governatore stava inaugurando la nuova «Ciclovia del Senio», a Castelbolognese (RA), costata 620mila euro.
«Attraverso questi nuovi percorsi», dichiarava in quell’occasione, «rafforziamo e valorizziamo il territorio in un’ottica sempre più sostenibile dal punto di vista turistico e ambientale.»
Breve vita e subitanea distruzione di una ciclovia. A sinistra, la biciclettata inaugurale sul Senio con Bonaccini e il sindaco di Castelbolognese Luca Della Godenza. A destra, la situazione a distanza di due settimane, dopo il cedimento dell’argine. Nelle immagini le scarpate appaiono “nude”, tenute “a pratino”, disseccate ed erose.
Due settimane dopo, il 4 maggio, la ciclovia è stata spazzata via in diversi tratti insieme all’argine su cui passava e su cui, con tutta probabilità, non sarebbe mai dovuta passare.
O meglio, ci sarebbe anche potuta passare, se l’argine fosse stato in salute anziché compromesso da ripetuti disboscamenti. Gli ultimi dei quali, plausibilmente, eseguiti proprio per realizzare il «percorso di 10 chilometri ricco di spunti naturalistici e culturali», come recita il comunicato della Regione.
Il territorio bolognese è interessato da altri progetti di ciclovie, segnatamente lungo il Reno: la Ciclovia del Sole, parte del tracciato EuroVelo7, e la Ciclovia del Reno. Sarebbe importante fare inchiesta su quel che accade lungo quei tracciati. Ci sono giunte testimonianze di svariati abbattimenti.
In ogni caso, il problema sta nel ragionare in termini di ulteriori infrastrutture. Le vere ciclovie esisteranno quando avremo liberato le strade dalle auto.
6. Le trappole dell’eccezionalismo
Si è anche tentato di far passare per «negazionista climatico» chi fa notare che ci sono precise responsabilità politiche. Ennesima riprova di quanto diciamo da tempo, cioè che il concetto di «negazionismo», da anni stiracchiato in ogni direzione, non ha più alcun valore euristico, alcuna spendibilità in un discorso serio.
Certo, far notare che «clima» non significa iazza o accidente del destino disturba il PD e i suoi alleati, che cercano di usare il clima come attenuante quando invece è un’aggravante.
È stato surreale sentire, tutt’a un tratto, lezioncine sul «globbal uorming» da Bonaccini, difensore degli interessi economici più climalteranti che si possano immaginare. Uno che tutela lo status quo più inquinante, esalta la Motor Valley – o piuttosto la Tumor Valley – emiliana, fa l’apologia dei rigassificatori e pensa che la siccità in montagna comporti come problema principale non la mancanza d’acqua ma l’impossibilità di sciare, per questo vorrebbe utilizzare «cannoni sparaneve hi-tech» che imbianchino le piste «anche col caldo». Peccato che ciascuno di quei cannoni consumi (sperperi) sessanta litri d’acqua al secondo.
La maggiore intensità delle piogge in periodi sempre più brevi è senza dubbio parte del cambiamento climatico, ma bisogna stare attenti a una certa retorica eccezionalista, anche quando sposata in buona fede. I danni che può fare li abbiamo già visti durante la pandemia.
Il precedente: l’eccezionalismo durante il Covid
Nella primavera 2020 qualcuno provò a far notare che se il sistema sanitario lombardo era crollato subito, con immediate ripercussioni su quello “nazionale” (in realtà aziendalizzato su base regionale), era perché lo avevano devastato anni di tagli, di privatizzazioni, di smantellamento della medicina territoriale, dunque andava subito messa in agenda la lotta per invertire quella rotta in tutta Italia.
Chi aveva già sviluppato la visione virocentrica – cioè pensava che si dovesse parlare solo ed esclusivamente di quant’era pericoloso il virus – si impuntò su una risposta standard: anche un sistema sanitario pubblico, universale ed efficiente sarebbe stato messo in crisi dalla pandemia, perché una cosa del genere non s’era mai vista ecc. ecc.
Può anche darsi, non abbiamo il controfattuale, però a noi risulta ovvio che un conto è crollare nel giro di pochi giorni come accaduto, altro conto è reggere l’urto più a lungo, con più tempo e più margine per organizzarsi in altri modi, e soprattutto con più risorse a disposizione.
A un certo punto – molto presto – chi parlava di sanità pubblica e ricordava la situazione già compromessa che il virus aveva trovato, fu tacciato di «negazionismo del virus». Il virocentrismo aveva ristretto il focus e la visuale. La sanità pubblica e le responsabilità di chi l’aveva devastata uscirono da ogni discorso, per non rientrarci più.
A sostituire quei necessari discorsi fu un’adesione acritica all’Emergenza, un feticismo dei provvedimenti governativi e di quelle che Leonardo Sciascia avrebbe chiamato «operazioni di parata», cioè tanto appariscenti quanto inutili allo scopo dichiarato. Operazioni non solo discutibilissime sotto l’aspetto epidemiologico, ma diversive rispetto alle responsabilità politiche e alle cause sistemiche della situazione: coprifuoco, droni a sorvegliare i boschi, elicotteri a inseguire passeggiatori solitari sulle spiagge, decaloghi su chi potevi portare al pranzo di Natale, obbligo di mascherina all’aperto ecc. L’elenco sarebbe lunghissimo.
L’esito è stato che tagli e privatizzazione della sanità continuano, e la pandemia è stata l’occasione di una grande ristrutturazione capitalistica basata su «resilienza» e «ripartenza», con le stesse logiche di prima al quadrato.
Ora riscontriamo lo stesso approccio, per fortuna meno diffuso e con minore presa, da parte di una certa sinistra dabbene.
Eccezionalismo e nubifragi
Alle critiche incentrate sul consumo di suolo, l’urbanizzazione selvaggia, le grandi opere inutili, c’è chi ribatte che con piogge così anche un territorio meglio gestito avrebbe subito danni e ci sarebbero stati morti, perché si tratta di precipitazioni eccezionali ecc.
Anche in questo caso, un conto è un territorio che si disintegra all’istante e vomita acqua e fango in vaste aree, altro conto è un territorio che regge l’urto in più punti e più a lungo. Più aree vengono risparmiate e più tempo c’è di organizzarsi, soprattutto se ci sono più risorse da utilizzare.
Dopodiché, è necessario specificare che si tratta di eccezionalità relativa, non assoluta. In parole povere: i nubifragi si fanno più intensi, ma non sono una novità di questi anni. Piogge forti e di più giorni a primavera sono nelle memorie di molti di noi, sono registrate tanto negli Annali idrologici quanto nell’arte e nella cultura popolare, sono documentate negli archivi dei giornali. Provate a fare la ricerca con «pioggia record», «pioggia millimetri», «nubifragio» e altre chiavi del genere nell’archivio storico de La Stampa.
La Stampa, 29 maggio 1968, cinquantacinque anni fa spaccati (esempio a caso).
Se diciamo che un nubifragio è di per sé una manifestazione del «nuovo clima», non solo ci esponiamo a facili smentite, ma credendo di parlare di clima restiamo in realtà sul piano del meteo, del tempo che fa.
Invece, proprio gli archivi possono mostrarci in cosa consista la crisi climatica. Consultandoli, si vede bene l’interazione di due processi che in realtà sono lo stesso: l’impatto di piogge sempre più forti e concentrate – dopo lunghi periodi di siccità – è direttamente proporzionale alla crescente cementificazione del territorio, a sua volta parte di un modello di sviluppo fortemente climalterante.
7. Bona lé tirare in ballo il terremoto del 2012
Una narrazione scattata fin da subito e divenuta onnipervasiva soprattutto nei media locali è quella basata sulla similitudine tra le alluvioni di oggi e il terremoto in Emilia del 2012. Narrazione che non ha contestato quasi nessuno, ma che è tossica da qualunque parte la si guardi.
Una classe dirigente non ha responsabilità di un evento tellurico. Casomai ce l’ha di come viene gestito il territorio dopo, di come viene impostata e realizzata – o non realizzata – la ricostruzione. Nel caso del post-sisma emiliano, la narrazione è trionfalistica: e quanto siamo stati bravi, e quanto siamo stati fighi ecc. Attivare il frame discorsivo «l’alluvione come il terremoto» serve dunque a dire: «son cose che capitano, prima non ci si può far niente» – falsissimo, perché questo disastro ha colpe precise e individuabili – e «ne usciremo da fighi quali siamo».
Come ne usciremo? Ovvio: «ricostruendo tutto».
No. Come ha detto Pileri intervenendo sabato 27 maggio all’assemblea popolare in piazza del Nettuno a Bologna, più che la ricostruzione serve la «de-costruzione».
«Decementificare, decrescere e rinaturalizzare, senza più aggiungere un solo centimetro cubo di cemento o asfalto», ha giustamente scritto Alex Giuzio.
Bologna, piazza del Nettuno, pomeriggio del 27 maggio 2023: assemblea popolare contro la cementificazione, per la giustizia climatica e contro le grandi opere come il Passante di Bologna, il rigassificatore di Ravenna e le molte altre che aggrediscono il territorio.
Un altro effetto del paragone col terremoto è attenuare la gravità della situazione odierna e futura. Non solo le alluvioni hanno fatto molti più danni del sisma, danni le cui conseguenze dureranno ben più a lungo, ma mentre il terremoto è un evento raro – la bassa emiliana ne ha subito uno nel 1570 e il successivo nel 2012 –, le alluvioni si verificano sempre più spesso, quasi ogni volta che piove forte.
8. Il suprematismo emiliano-romagnolo ha rotto i maroni
Dopo le alluvioni di metà maggio è tornato a manifestarsi il più tronfio suprematismo emiliano-romagnolo.
A un certo punto è diventato virale – ripreso anche da Gramellini, che non si fa mai scappare nessun cliché – un breve elzeviro, un’apologia del sistema-Emilia che cominciava così:
«L’Emilia-Romagna è quel pezzo di terra voluto da Dio per costruire la Ferrari».
E poteva sembrare scherzoso, volutamente iperbolico, ma conosciamo i nostri polli: non è così. Ci credono davvero.
A seguire, infatti, ci si vantava in maniera spropositata di più o meno tutto quello che ha distrutto il territorio, esattamente l’economia reale e l’approccio devastante da “crescita infinita”, il culto del “fare” purché si faccia che andiamo denunciando da anni: viva l’automotive, viva gli allevamenti intensivi, viva l’agroindustria più impattante, finché non si arriva a questo capolavoro, con tanto di stereotipizzazione etnica:
«[Gli emiliano-romagnoli] sono come i giapponesi, non si fermano, non si stancano, e se devono fare una cosa, a loro piace farla bene e bella, ed utile a tutti…»
Certo, come la voragine FICO, il demenziale «People Mover» di Bologna, la psoriasi di centri commerciali e poli logistici, le migliaia di rotatorie, la riviera devastata dalla speculazione, le dune sbancate per farci il Jova Beach Party, i rigassificatori, sempre più impianti sciistici anche se non c’è più neve, trafori che distruggono falde e fanno scomparire in un giorno cento corsi d’acqua in Appennino, e sono solo le prime cose che vengono in mente.
Il finale era questo:
«Ci saranno pietre da raccogliere dopo un terremoto? Loro alla fine faranno cattedrali.»
C’è un’alluvione? Loro faranno ancora autostrade, svincoli, bretelle, rotatorie, parcheggi, centri commerciali, hub della logistica e quant’altro.
Di quest’arroganza, di questo suprematismo regionale gli emiliano-romagnoli moriranno, se non se ne sbarazzano.
Nemmeno un albero, tutto secco, ma grazie a Dio c’è la Ferrari.
È un suprematismo, per giunta, sottilmente razzista e impregnato di un miope legalitarismo. Quando le alluvioni devastano paesi del Sud Italia, l’emiliano-romagnolo medio e «di sinistra» fa tsk, quei terroni hanno rovinato il loro territorio, poi scuote la testa parlando dell’abusivismo edilizio. E gli abusi nostrani, che sono altrettanto orrendi? Non li vede, non li considera abusi perché sono legalizzati. Nella sua mentalità, se qualcosa è legale non si può ritenere un problema.
9. Der Kommissar
In linea di principio, dopo un simile disastro, Bonaccini si sarebbe dovuto dimettere all’istante. Intendiamoci, non sarebbe servito a nulla: chi lo attornia è come lui. È un discorso puramente filosofico, un esperimento mentale. Invece non solo è ancora lì, benché in evidente affanno e costretto a negare l’innegabile, ma c’è persino chi lo vorrebbe commissario alla ricostruzione.
Va premesso che a noi i commissari non piacciono. I commissari sono strumenti tipici delle politiche d’Emergenza, servono a gestire i processi dall’alto e accentrando poteri, facendo passare le politiche peggiori, sovente aggravando i problemi di partenza. Aggiungiamo che spesso i commissari sono generali, uomini delle forze armate, cosa che contribuisce non poco alla strisciante militarizzazione della vita pubblica italiana, processo divenuto indiscutibile durante l’emergenza Covid.
Detto ciò, le motivazioni per cui Bonaccini dovrebbe fare il commissario sono risibili se non oltraggiose.
«Bonaccini conosce molto bene questa terra», ha dichiarato il sindaco di Bologna Lepore.
Vero, ne sa a pacchi, che si parli di montagna o di pianura. Magari anche da commissario ci delizierebbe con belle biciclettate su argini compromessi e proclami sulla neve artificiale d’estate.
«Bonaccini lo vuole la società civile, lo vuole il sistema economico emiliano-romagnolo con il quale ha sempre saputo dialogare fra gestione e innovazione», si è letto sul Corriere.
La prima proposizione è del tutto arbitraria, perché nessuno saprebbe dire chi sia e cosa voglia «la società civile». Di sicuro, non coincide con «gli elettori». Per via del crescente astensionismo, alimentato dal disgusto per l’offerta politica, in media – a seconda dei territori e delle circostanze – il PD emiliano-romagnolo vince le elezioni col consenso di circa tre aventi diritto al voto su dieci. Alle ultime comunali di Bologna l’astensione ha raggiunto il 48,82%, perciò Lepore è stato eletto con il 31,6% reale. Quasi sette bolognesi su dieci non l’hanno votato. Quanto alle Regionali del 2020, Bonaccini le ha vinte con il 51,42% del 67,67% che è andato a votare, ergo col 34,79% reale.
Quanto alla proposizione seguente, all’inizio dice una verità: a volere Bonaccini è il sistema economico, che è pregressista; dopo, invece, è fuffa.
Drah di ned um, oh, oh, oh! Schau, schau, der Kommissar geht um, oh, oh, oh!
Stessa fonte giornalistica: «Bonaccini ha il plauso di colleghi di diversa sponda come il leghista Luca Zaia». Soggetto notoriamente sensibile a questioni ambientali, climatiche e di tutela del territorio dalla cementificazione. Una garanzia.
In realtà, le motivazioni reali e non-dette per cui Bonaccini dovrebbe fare il commissario riguardano i rapporti di forza in regione tra il PD che governa qui e la destra dichiarata che governa a Roma.
Ed è proprio questo There Is No Alternative, questo continuo ridurre la dialettica politica al binarismo e al (presunto) menopeggismo la gabbia da infrangere.
«Dov’è l’alternativa?», si sente spesso chiedere. Noi diciamo che se un mondo sta nascendo, un mondo incompatibile con quello che abbiamo fin qui descritto, sta nascendo nelle lotte ambientali, per la giustizia climatica, per un territorio diverso.
Nel prossimo articolo, infatti, torneremo sul caso Bologna e sulle lotte contro il raddoppio di tangenziale e A14 – con tutta l’inondazione di asfalto a cui il raddoppio aprirebbe la via – e contro il progetto di nuovo mega-comprensorio sciistico sul Corno alle Scale.
Fonte: dal blog Giap di Wu Ming
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