La morte del giovane Nahel, ucciso da un poliziotto a Nanterre, e la mobilitazione sociale che gli ha risposto, appaiono già come un momento cardine della storia politica francese contemporanea.
Il confronto con il 2005 è essenziale ed è piuttosto un buon segno: dimostra che questi fenomeni fanno parte di una storia entrata nel senso comune, con i suoi conflitti politici e intellettuali, i suoi problemi di interpretazione. Dobbiamo ancora ricordare che la storia delle lotte di quartiere è costellata, a partire dagli anni ’80, da questi episodi a meccanica regolare, che vedono i giovani dei quartieri popolari insorgere dopo la morte (o le morti) di altri giovani a seguito di uno scontro con la polizia.
Come sempre, gli interessati, cioè i giovani protagonisti, “si parlano”: la loro assenza è in un certo senso condizione della loro presenza in bocca agli altri, responsabile di qualificare le loro azioni. Disordini o rivolte? Eterno interrogarsi sul carattere “politico” dei comportamenti dei giovani, spesso senza di loro. Fortunatamente, e questo è un vero traguardo rispetto al 2005, media come Le Bondy Blog o anche Booska-P stanno facendo sentire la loro voce in una forma che all’epoca non esisteva.
Come porre ancora la questione della dimensione politica di queste rivolte? Secondo la definizione di Anthony Oberschall, “una mobilitazione designa il processo mediante il quale un gruppo disinteressato si riunisce e investe risorse nel perseguimento dei propri fini”. Così gli eventi degli ultimi giorni e il loro svolgersi potrebbero quasi figurare in un manuale di scienze politiche come un tipo ideale.
Un’ingiustizia, raddoppiata dalla (imprevista) rivelazione del tentativo di mentire da parte dell’autorità pubblica sulla realtà dei fatti, suscita all’istante l’ira delle fasce sociali che si riconoscono nel giovane adolescente ucciso. Questi giovani dei quartieri popolari hanno motivi oggettivi per ribellarsi: lo fanno prima in nome della “Giustizia per Nahel”, ma ben presto questa rivendicazione si unisce ad altre, derivanti dai problemi quotidiani dei quartieri popolari. Per farle sentire, i giovani mobilitati utilizzano il repertorio di azioni e le risorse a loro disposizione, riproducono pratiche istituite dalle passate rivolte, ma anche dai recenti movimenti sociali. Viene organizzato un corteo bianco “di rivolta” che riprende i codici della manifestazione e al quale si dirigono molti eletti della sinistra. Di notte vengono presi di mira edifici pubblici, telecamere di videosorveglianza, polizia e negozi. I social network sono il mezzo principale e incredibilmente dinamico per queste azioni. Il campo politico e mediatico sono teatro del confronto sull’interpretazione di quanto sta accadendo, riattivando le linee di conflitto stabilite e le contrapposizioni mille volte “già viste” intorno alla rappresentazione politica di un tale evento.
Le scienze umane e sociali hanno, proprio dal 2005, prodotto un insieme di dati e interpretazioni che permettono di meglio “leggere” i fenomeni in atto. La storia delle lotte nei quartieri popolari è molto più conosciuta e studiata rispetto a 20 anni fa. L’emisfero sinistro del campo politico si è chiaramente evoluto su questi temi, sotto la spinta di grandi mobilitazioni guidate da gruppi di vittime e dalla sedimentazione delle lotte dei quartieri popolari, di cui diverse generazioni hanno concretamente sopportato la posizione marginale. Il tema della violenza poliziesca, prima trattato come periferico, ha ora assunto una forma di centralità. È diventato il punto di cristallizzazione delle forme sistemiche di razzismo che attraversano la società francese, e la cui evocazione non è più un tabù ma un vero e proprio conflitto “culturale”, nel senso inteso da Gramsci. L’offensiva reazionaria degli ultimi anni contro la “cultura delle scuse” (Sarkozy, Valls), poi “l’islamo-sinistra” (Macron) sono un segno di questo conflitto.
Questa progressione della conoscenza ha una paradossale correlazione con un declino e un discredito dell’azione pubblica rivolta ai quartieri popolari. Una battuta d’arresto che si è manifestata nella lunare conferenza stampa tenuta da Emmanuel Macron dopo tre notti di violenze urbane: additando la responsabilità dei genitori e dei videogiochi, il presidente ha finito di affliggere chi allerta e agisce da tempo su questi temi. Chiudendo così violentemente la porta a qualsiasi spiegazione strutturale della rabbia espressa, il Presidente sta riproducendo il suo gesto simbolico del 2018 riguardo al “Plan Banlieue” che era stato messo sul suo tavolo da Jean-Louis Borloo e da centinaia di professionisti e eletti: qualsiasi risposta in termini di politiche pubbliche contro le disuguaglianze sarà destinata alla pattumiera.
Il ritornello della “pasta pazza” applicato alle aree urbane in difficoltà ha preso piede: l’opposizione tra periferia e campagna, proveniente da destra e dall’estrema destra, ha trovato i suoi estimatori e il suo pubblico, anche a sinistra. Questa idea che abbiamo “fatto troppo” per i quartieri è alla base del discorso di depoliticizzazione delle rivolte. Un rifiuto del sociale, sintomatico del neoliberismo, che apre la strada al discorso dell’accountability e del suo lato securitario e punitivo. I rivoltosi sarebbero così privi di ogni coscienza politica che basterebbe che i loro genitori, veri responsabili della situazione, non li “lasciassero andare in giro di notte” per porre fine alla rivolta.
Qualsiasi posizione che metta in discussione la legittimità della rivolta di questi giovani, che partecipano anche a enormi rischi [1] , dipende purtroppo da questo meccanismo di spoliazione politica. Rivelarlo significa capovolgere la domanda: cosa non c’è esattamente di politico in questi disordini?
Attaccando stazioni di polizia e municipi, mediateche e scuole, i giovani si rivolgono esplicitamente alle autorità pubbliche con il loro repertorio di azioni. Nel suo libro Perché bruciamo le biblioteche? (2013), Denis Merklen evidenziava già dieci anni fa la portata conflittuale, in fondo molto leggibile, di atti che il discorso dominante ama definire “incomprensibili”: il fatto di bruciare un servizio pubblico utile alla propria comunità, a volte l’ultimo negli spazi abbandonato dall’azione pubblica, non è la prova di un’incoscienza (così spesso vengono descritti questi atti e coloro che li compiono) ma piuttosto di una forte consapevolezza dei conflitti politici in gioco.
Per queste rivolte del 2023, sembra addirittura che, in un certo senso, i rivoltosi si stiano posizionando ancora di più come attori politici consapevoli: bisognerà attendere dati quantitativi più precisi per osservare se certe pratiche si sono “spostate” rispetto al 2005, in particolare nell’infrastruttura mirata. Alcuni indizi lo suggeriscono.
All’epoca, il fatto di attaccare alcune strutture (scuole e palestre in particolare) era stato oggetto di numerose critiche, in particolare da parte degli abitanti. I dibattiti morali di ieri continuano oggi dinamicamente sui social media. C’è un fatto nuovo nel 2023: se i giovani rivoltosi ancora non vanno ai televisori a darci la spiegazione del loro gesto, oggi abbiamo con i social una “parola” che si esprime e si fa vedere, in video e in commento, in particolare sul social network Snapchat. Sarebbe del tutto errato riassumere i contenuti pubblicati sulle reti alla concorrenza nella violenza.
In queste rivolte si esprime una cultura politica, radicata nell’esperienza specifica di subalternità e razzismo che è quella dei quartieri popolari francesi.
È anche sulle reti che si moltiplicano gli interventi e i commenti di personaggi pubblici dei quartieri per mettere in discussione il modo di agire dei rivoltosi. L’episodio delle prese di posizione di alcuni giocatori della squadra francese, Jules Koundé, Kylian Mbappé, Aurélien Tchouaméni o anche Mike Maignan è emblematico in tal senso: la solidarietà espressa alla famiglia e la denuncia di una “situazione inaccettabile (Mbappé) senza “qualsiasi attenuante” (Koundé) è stata qualificata da un comunicato stampa la cui misteriosa traiettoria dimostra sia la sensibilità di alcuni attori dei quartieri alle questioni politiche che li attraversano, sia le condizioni indubbiamente difficili di qualsiasi presa di posizione in materia.
Nel mondo della cultura molti artisti come Rohff, Médine, SCH, Gradur o Sadek si sono espressi molto rapidamente, continuando per i primi tre una ormai regolare partecipazione al dibattito pubblico (chiamata al voto per le elezioni presidenziali, sostegno al movimento contro le pensioni riforma). Iconici influencer di quartiere come Golozer hanno cercato, spesso con umiltà, di esprimere le loro riserve sulla violenza di certi atti, esprimendo infine il loro punto di vista sulle forme di mobilitazione. Il pugile di Nanterre Bilel Jkitou, seguitissimo sui social, ha stigmatizzato chi è “più scioccato dai disordini che dalla morte di Nahel”.
Tanti punti di vista che contribuiscono ad animare il discorso democratico e ad alimentare una complessa interpretazione del momento che stiamo vivendo, al di fuori delle caricaturali ingiunzioni al ritorno alla calma. Questi dibattiti hanno il merito di radicarsi in un’esperienza di vita nei quartieri popolari che viene rivendicata come una risorsa positiva, una capacità di pensare e di agire.
Si può ipotizzare che le azioni siano ancora oggi più complesse, anche riflessive, di quanto avevano ipotizzato gli studi sociologici svolti dopo i moti del 2005 e del 2007. La messa in discussione della Politica cittadina da parte degli abitanti costituisce un altro elemento di novità, di cui le nostre recenti indagini mostrano una presenza importante nel discorso che si formula oggi nei quartieri, e dove pochi attori istituzionali sono risparmiati [2 ]. Le demolizioni, i nuovi sviluppi dello spazio pubblico, sono oggetto di nuove forme di rivendicazione, impegno e rabbia, di fronte a una situazione percepita come ancora degradata dopo 20 anni di politica cittadina. In questo contesto, l’accusa dei “genitori” nel contesto dell’attualità è tanto più insopportabile e fuori da ogni realtà.
Nel registro dei segnali politici facilmente comprensibili si possono citare anche le multiformi distruzioni (sassi, seghe, macchine edili) delle telecamere di videosorveglianza fiorite nei quartieri nelle ultime fasi di rinnovamento urbano. Atti che si uniscono a una critica alla società della sorveglianza che è ben lungi dall’essere circoscritta ai quartieri popolari, e che sarebbe molto strano non interpretare sotto questo prisma. Pensiamo anche al modo in cui la videosorveglianza ha reso possibile la distribuzione di numerose e rovinose multe per il mancato rispetto del coprifuoco durante il confinamento, suscitando incomprensioni e rabbia nei quartieri. Già allora l’invito alla calma e al “fare le cose per bene”, sancito dalla violenza della polizia, nei quartieri ancora in prima linea di fronte alla crisi sanitaria e alle sue conseguenze.
Allo stesso modo, come non leggere le numerose scene di saccheggio dei supermercati, filmate e commentate dai protagonisti, nel quadro delle condizioni materiali degradate dei quartieri popolari, del costo della vita, dell’inflazione che fa titoli di notizie politiche per quasi un anno? I video mostrano giovani rivoltosi, ma anche residenti non coinvolti nei disordini, “genitori” che usano pannolini, detersivi, uova, o giovani che grattano uno Yop o “mascarpone per il tiramisù”[3 ] . Il tono umoristico delle persone ritratte nell’immagine, o di chi la commenta, allontana la drammaticità della situazione, rivelando lo sfondo sociale e politico degli eventi in corso.
Qui si esprime una cultura politica, ancorata all’esperienza specifica di subalternità e di razzismo che è quella dei quartieri popolari francesi. Sarebbe sorprendente, date le condizioni in cui questa cultura si forma e si dispiega, se non mettesse in discussione le modalità consolidate di enunciazione e denuncia dell’ordine delle cose. È logico che sia violento, come tanti movimenti di protesta che fanno la storia.
L’urgenza per la sinistra non è “ristabilire il dialogo” (e questa espressione molto usata in questi ultimi giorni tradisce un’esteriorità che pone davvero degli interrogativi) ma riconoscere senza ambiguità la legittimità di questa violenza, espressione di una sofferenza e di rifiuto politico di questa sofferenza.
In un video che è circolato molto sulle reti, abbiamo visto la madre del giovane Nahel mandare su di giri il motore di una motocicletta, sotto gli applausi degli amici del figlio. Grida di sdegno, incomprensione, stigmatizzazione: ma cosa sta facendo? ” Chi e ‘questa gente ? ” afferma l’estrema destra dalla voce di Jean Messiha, lanciatore di un gattino online per sostenere il poliziotto che ha ucciso il giovane Nahel. La diretta interessata lo aveva però spiegato in una primissima testimonianza video, sconvolgente, poche ore dopo l’assassinio del figlio. Nahel amava il motociclismo, come tanti giovani del quartiere e non solo. È morto su una strada che amava percorrere, molto vicino a casa sua. Sentire il rombo del motore ti ha fatto pensare a lui. Anche questa forma di omaggio non è sconosciuta alla storia politica dei quartieri,[4] e un ” amore per il rischio ” socialmente e politicamente situato, che la Famiglia Fonky descrisse così bene già nel 1997 [5] .
La destra e l’estrema destra non si sbagliano: scatenandosi su questo tipo di immagini, continuando a puntare senza ritegno il giovane defunto e la sua famiglia, e alle loro spalle gli abitanti dei quartieri, sanno di attaccare qualcosa che esiste, e che vogliono veder scomparire. L’opposizione a questo versante mortale è riconoscere l’esistenza di queste vite attaccate e difenderle allo stesso modo delle altre. Tutto tranne che un ritorno alla normalità.
Note
[1] Su questo argomento si veda l’importante reportage del Blondy Blog .
[2] Rabaté, Ulisse, Policy Berk Berk. Quartieri popolari e sinistra: conflitti, schivate, trasmissioni , Éditions du croquant, 2021.
[3] Tutti gli esempi citati si riferiscono a video girati durante i disordini, e archiviati dall’autore.
[4] Si pensi in particolare, di recente, alle immagini delle manifestazioni in memoria del giovane Ibo, morto in seguito a un incontro con la polizia a Sarcelles.
[5] “L’amore del rischio” in Se Dio vuole (1997). Inoltre, abbiamo scoperto pochi giorni dopo la sua morte, la presenza di Nahel, in motocicletta, nella clip del rapper Jul “Ragnar”, girata quest’anno nella città di Pablo Picasso.
Autore
Docente all’Università di Parigi 8 e fondatore dell’associazione Quidam per l’educazione popolare, Ulysse Rabaté è stato consigliere comunale di Corbeil-Essonnes (91). Impegnato nei sobborghi, Ulysse ha co-scritto il libro L’argent maudit. Al cuore del sistema Dassault (2015) sulle conseguenze della corruzione a livello locale e in particolare nei quartieri popolari. Ha anche pubblicato, nel 2021, Politica, schifo, schifo. Quartieri popolari e sinistra: conflitti, evasioni, trasmissioni con le edizioni Croquant. Tra il 2015 e il 2016 si è recato in Nuova Caledonia e ha presentato uno studio comparativo sulle problematiche giovanili tra la Francia metropolitana e la Nuova Caledonia per l’Istituto per la ricerca e lo sviluppo (IRD).
Fonte: AOC media
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https://www.asterios.it/catalogo/la-rivolta-dei-fiocchi-di-neve
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