Gentile Enzo Traverso,
mi sembra che il nostro primo scambio di opinioni ti abbia dato modo, non di qualificare o spostare i tuoi giudizi, sia pure di poco, ma, al contrario, di confermarli, di irrigidirli, di solidificarli in modo molto più competitivo, definitivo o rispedito al mittente. È un po’ un peccato. Ho parlato, nella mia lettera precedente, di un “conflitto di sensibilità”, che permetteva tutto un gioco di sfumature possibili, un possibile gioco di punti di vista, diversi ma non fatalmente contrastanti, attorno allo stesso oggetto di pensiero. La tua risposta, al contrario, indica un’opposizione molto più frontale: riguarda i pensieri stessi, i “metodi” e anche i “postulati”, come dici tu. In tal modo, potresti avere ragione, almeno per quanto riguarda l’idea e la pratica di ciò che entrambi chiamiamo “storia culturale”.
La domanda, in sintesi, sembrerebbe riguardare il modo in cui la politica attraversi tutta la storia culturale, della qual cosa, ovviamente, siamo entrambi persuasi. Ma, laddove ho cercato di esplorare diverse strade partendo dall’iconologia politica proposta da Aby Warburg alla fine della sua vita (assunta come tale e ripresa in Germania da colleghi storici dell’arte con i quali sono in costante dialogo da lunghissimo tempo, come Martin Warnke, Horst Bredekamp, Michael Diers o anche Uwe Fleckner), tu vedi nei miei tentativi solo l’espressione di una iconologia depoliticizzata, per usare esattamente le tue parole. Ciò ha portato, come dici ancora, a una polemica in cui ora si scontrano «due diverse concezioni della dialettica delle immagini». Su quest’ultimo punto – non sul precedente, ovviamente – concorderei volentieri, oggi, che hai indubbiamente, ancora una volta, ragione.
Ma dove sta la differenza? Tutto è iniziato con un’immagine, una singola immagine. E poi tutto si è esteso a ciò che dovremmo intendere per immagine in generale, per cultura, per iconologia, per storia, per dialettica, per politica in generale… Il che costituisce già, ai miei occhi, un cattivo metodo: c’è una certa pigrizia filosofica nel voler generalizzare immediatamente od “ontologizzare” ciò che un solo esempio, o anche un insieme di casi, vorrebbe trasmettere.
Non dobbiamo certo lasciare che la rabbia ispiri i nostri interrogativi in materia di storia culturale. Ma torniamo per un attimo a ciò che ha innescato questa polemica, ovvero alla famosa immagine di Gilles Caron. Non dici una parola concreta, non costruisci una sola domanda sull’approccio visivo che ho proposto di fronte a questa immagine. Ti accontenti di dire, con una pura petizione di principio, che le mie «precisazioni» sono «inammissibili». Alla mia osservazione che stavi parlando di un solo giovane, tu rispondi affermando che il manifesto della mostra – di cui sarei stato l’unico responsabile – già ridefiniva la fotografia di Caron. Il che semplicemente non è vero. E se l’immagine è stata effettivamente distribuita sulla prima e sulla quarta di copertina del catalogo, è apparsa proprio così com’è, senza manipolazioni, nel corpo dell’opera. Ritieni opportuno, da lì, attribuirmi l’argomento di Immagini malgrado tutto secondo cui la riformulazione delle testimonianze di Auschwitz dal punto di vista visivo, si è rivelata eticamente e storicamente un abuso. Quanto a me, vedo in questo puro e semplice – brutale e banale – “rispedire al mittente” una piroetta retorica capace solo di esprimere la sua cattiva intenzione. Perché l’inammissibile manipolazione delle fotografie del Sonderkommando è consistita principalmente nel togliere loro ogni valore gestuale, ogni fragilità, tutto ciò che in esse mostrava l’esposizione al pericolo: ho confutato insomma tutto ciò che cercava di ritagliare queste immagini dalla loro stessa fenomenologia, tutto ciò che si atteneva solo a un contenuto fattuale e inequivocabile. La “manipolazione” di cui mi accusi va esattamente nella direzione opposta: consisterebbe, secondo te, nel rendere ambigua un’immagine di cui dici, senza averne minimamente guardato la visualità intrinseca, che «la didascalia […] non lascia alcun dubbio» su ciò che rappresenta e su chi rappresenta.
Io stesso, è vero, ho seminato dubbi su questa fotografia: o non sollevando il problema dell’esatta identità dei due manifestanti; oppure accettando (in un programma radiofonico a cui alludi) l’ipotesi che fossero protestanti anticattolici; oppure proponendo l’ipotesi opposta in ordine al fatto che la polizia britannica, contro la quale i due manifestanti tiravano le pietre, avesse saputo proteggere i cortei protestanti. Convocato da te a decidere – come lo ero stato dal giornalista radiofonico, in modo pregiudizievole – mi rammarico di essere oggi caduto nella trappola consistente nel far giudicare o giudicare ogni ricerca sul figurativo di lunga durata alla luce dell’unico criterio della didascalia, cioè l’identità dei due giovani fotografati a Londonderry nel 1969. Hai scelto quindi di basare ogni tuo giudizio – storico e politico, estetico e “culturale” – sull’unica questione di chi siano queste due persone viste di spalle: cattolici o protestanti? Nel contesto di una storia politica degli eventi nell’Irlanda del Nord, sarebbe ovviamente importante decidere su questa questione. È vero dunque che, da questo punto di vista, l’immagine può dirsi “decontestualizzata” in un progetto volto a tratteggiare un “atlante” del Pathosformeln dell’insurrezione. Ma, nel quadro di una storia culturale – vale a dire questa questione di conoscenza che condividiamo entrambi – è ad altri tipi di contestualizzazioni che ci si deve rivolgere, cosa che hai sistematicamente ignorato. La prima contestualizzazione che trascuri si trova all’interno dell’immagine di Gilles Caron: vuoi vedere solo due figure da identificare – cattolici o protestanti, cioè buoni o cattivi, rivoluzionari o reazionari – dove c’è tutto uno spazio e tutto un conflitto, cioè questa violenza in atto, anche se “graziosa”, rivolta al cordone di poliziotti che vediamo sullo sfondo dell’immagine. Agli occhi del fotografo, il “soggetto” non era tanto sapere chi erano quei due ragazzi (nel qual caso sarebbe stato più logico fotografarli frontalmente), ma come affrontano una brigata di polizia.
In seguito ometti di contestualizzare questa immagine in relazione alla serie da cui la sottrai (cosa che io non ho fatto, avendo esposto diverse fotografie dello stesso evento). Quando dici che “la didascalia […] non lascia alcun dubbio” su questa immagine, di quale didascalia parli? Quella a cui ti riferisci – «Manifestazioni anticattoliche, Londonderry, Irlanda del Nord, agosto 1969» – non riguarda quell’unica immagine, ma l’intera serie. Ora, in essa, Gilles Caron aveva fotografato non solo protestanti ma anche cattolici, per non parlare di alcuni suggestivi scorci sulla polizia britannica in piena azione contro i manifestanti (sul foglio di riferimento abbiamo trovato questa sola indicazione: «Conflitto in Irlanda del Nord, Londonderry, agosto 1969[1]»).
〈Ho meno certezze e più dubbi di te, è questo che tu chiami “ambiguità” o “sconcerto”?〉
Fare una storia culturale utilizzando fonti figurative presuppone una terza contestualizzazione, che ancora stai tralasciando. Chi ha realizzato queste fotografie ha assunto una prospettiva che non era in alcun modo una registrazione neutra, astratta o puramente meccanica. Qualcosa in queste vicende violente reclamava ostinatamente il suo desiderio di osservare: ed era appunto il conflitto tra i corpi “civili” dei manifestanti e i corpi “militari” delle forze dell’ordine. Cattolici o protestanti, questi due giovani sono comunque colti nel loro gesto di affrontare, per così dire a mani nude, i corpi armati di quello che tu stesso chiami “colonialismo britannico in Irlanda”. E questo richiede di essere interrogato attraverso una quarta contestualizzazione, quella delle fotografie scattate da Gilles Caron in questo periodo, e di cui la mostra Soulèvements ha fornito tutta una serie di esempi (di cui non dici una parola): le manifestazioni contadine del 1967 in Francia, il maggio 1968 a Parigi e, infine, la rivolta antisovietica del 1969 repressa dall’esercito cecoslovacco a Praga[2]. Ciò che aveva tanto sollecitato Gilles Caron, in questa serie di eventi, non era stata solo – anzi – l’eleganza gestuale dei “lanciatori” di pietre, come li chiamava lui: era soprattutto la protesta di corpi inermi di fronte a forze dell’ordine super equipaggiate. O, addirittura, di fronte a tutto ciò che gli sembrava la manifestazione del potere. Anche per questo la mostra Soulèvements non aveva come manifesto solo l’immagine di Londonderry, come si può immaginare: c’erano anche i pugni alzati delle tre Black Panthers a Chicago fotografate da Hiroji Kubota, lo stesso anno 1969, davanti alle impersonali architetture della città[3]. Anche questa quinta contestualizzazione – a cui ho aggiunto il braccio alzato del manifestante di Courbet nel 1848, quello della sindacalista Rose Zehner nel 1938, di Jean-Pierre Timbaud (in un’immagine ripresa da Pascal Convert) o delle mani alzate nel 1942 di Julio González[4] – non ha avuto l’onore di una tua benché minima considerazione. Trovi questo collegamento “ambiguo” perché non deriva da una storia politica orientata e rigorosamente articolata; essa mirava a qualcosa di ben diverso, vale a dire l’abbozzo di un’antropologia politica, che ovviamente presupponeva alcune importanti differenze.
Non ho alcuna vocazione a raccontare e, ancor meno, a mettere in bella mostra il mio lavoro. Mi permetto però di dirti che hai trascurato una sesta contestualizzazione: quello che si sta criticando, va conosciuto nella sua storicità e colto nelle sue trasformazioni. Su questo punto passi sotto silenzio il carattere più importante della mostra Soulèvements – e di ogni mostra ai miei occhi – ovvero il suo carattere euristico. Si è trattato di una serie di tentativi che, in sei diverse location a Parigi, Barcellona, Buenos Aires, San Paolo, Città del Messico e Montreal, hanno fatto della variazione sperimentale il proprio principio. Né postulato, dunque, né tesi definitiva: piuttosto la rivendicazione dell’assenza di qualsiasi assiomatica.
Di questo “atlante” esistevano dunque sei versioni, con sei diversi cataloghi (e anche, se questo vi può rassicurare, sei diversi manifesti[5]). Nei cinque anni che seguirono la mostra al Jeu de Paume, presero forma le circa millecinquecento pagine dell’opera in due volumi intitolata Ce qui nous soulève[6]… e di cui non ritengo però che sia necessario leggervi quelli che chiami “postulati”, esiti intangibili o pregiudizi definitivi. Ho meno certezze e più dubbi di te, è questo che tu chiami “ambiguità” o “sconcerto”?
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Secondo te, dove c’è smarrimento c’è ambiguità. La distrazione politica caratterizzerebbe queste nozioni ambigue che riscrivono le immagini quando non sono chiaramente identificate, dove i gesti non sono orientati da un progetto specifico (rivoluzionario, come già detto); infine le insurrezioni stesse, la cui «confusione semantica», dici, «riflette solo un più generale disorientamento politico». Lo smarrimento che attribuisci al mio approccio, va qui inteso in due sensi: quello dell’errore (un difetto, un’illusione, una conoscenza errata) e quello dell’erranza o del disorientamento (un’incapacità di sapere dove si è, quindi la difficoltà di schierarsi). Errore e vagabondaggio hanno una fonte comune che tu chiami – è un luogo comune, lo sento da Immagini malgrado tutto – “estetizzazione”.
Jacques Rancière, nel contesto stesso del mio catalogo, aveva già notato il tenore “lirico” della parola insurrezione[7]. accusando questo lirismo di essere “privo di sostanza storica o politica”, peggiori le cose. Fai appello, al tempo stesso, a una “classificazione” e a una “gerarchia” delle nozioni di insurrezione e di rivoluzione la cui scissione, sebbene “instabile e mutevole”, rappresenta, dici, «uno strumento ermeneutico indispensabile per comprendere perché certi movimenti si esauriscono così rapidamente mentre altri innescano una potente dinamica per cui gli esseri umani che hanno agito si trasformano in soggetti collettivi e riescono a cambiare il corso della storia». La parola insurrezione, concludi, “è sempre stata segnata da una costitutiva ambiguità” di cui la mostra al Jeu de Paume sarebbe uno “specchio eloquente”. Mi hai frainteso supponendo che io sfidassi la distinzione tra insurrezione e rivoluzione. Il mio uso di queste parole segue semplicemente il punto di vista meno storiografico e più antropologico – ma anche più anarchico – di Furio Jesi[8]. Immagini, a torto, che «sfidando questa distinzione tra insurrezione e rivoluzione» avrei voluto stabilire una «gerarchia» di valori basata unicamente su «emozioni [e] in cui la ragione non avrebbe più posto». Tale è anche, secondo te, l’origine di questa “ambiguità costitutiva” che fa delle insurrezioni un fenomeno puramente emotivo e, di conseguenza, depoliticizzato. Ma tu dedialettizzi brutalmente la mia proposta, che non c’entra niente con tutto questo. Non è perché siamo interessati ai gesti, alle emozioni o all’antropologia che dimentichiamo la ragione, lo sviluppo storico o la consistenza politica di questi stessi gesti o emozioni. Stavo solo suggerendo di pensare alla frase di Hannah Arendt secondo cui l’opposto dell’emozione non è la ragione, ma piuttosto l’insensibilità. A cui hai potuto rispondere – o ti sei rifiutato di rispondere – che la Arendt aveva frainteso le rivoluzioni anticoloniali. Quest’ultimo modo di procedere mi sconvolge particolarmente. Lo usi più volte. Ci vedo il segno – irrazionale, forse passionale – di una negazione: questa Verleugnung freudiana che Octave Mannoni aveva mostrato, in passato, scaturiva da una logica enunciativa del “lo so benissimo, ma lo stesso[9]…”. Così scrivi: «So che l’idea di inserire nella tua mostra questo genere di rivolte [fasciste] non ti è mai passata per la testa, ma credo che […] l’ambiguità intrinseca del concetto di insurrezione, e soprattutto la definizione che ne dai, non siano estranee agli aspetti più problematici della tua mostra…» Insomma, sai benissimo che io non coltivo nessuna ambiguità politica nei confronti del fascismo, ma vedi comunque nel mio lavoro un’ambiguità politica verso il fascismo. Se le rivolte riguardano gesti o «corpi in movimento», dirai, «perché non includere in Soulèvements le immagini del rogo dei libri celebrato da Joseph Goebbels a Berlino [dove] molte foto mostrano noi giovani della Hitlerjugend intenti a “sollevare” libri e a gettarli nel rogo?». Allora ti è facile fare la ramanzina: «Il loro significato, converrai anche tu, non è lo stesso…». Allora ti comporti come se io facessi fatica a concordare: come se avessi presupposto prima questa parificazione di gesti comunisti e gesti nazisti che peraltro – cioè la smentita – riconosci che io non ho assunto.
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Estetizzazione è il solito insulto – luogo comune, vi ricordo, dei dibattiti di opinione – rivolto da chi vede in un’opera, in un testo o in un pensiero, qualcosa come un supplemento che gli sfugge, che rende porosi i confini e condanna le nozioni a una plasticità che non sanno dove potrebbe portare. In passato abbiamo detto formalismo a proposito del necessario primato del contenuto su ogni forma. La parola “contenuto” appare anche, nella tua recensione, come uno dei principali leitmotiv destinati a distinguersi dallo «sconcerto estetico» e dall’«ambiguità politica» del mio approccio. Così, ricordando la tua visita alla mostra Soulèvements, protesti contro un montaggio che «ha senso solo nella mente della persona che ha raccolto queste immagini e che ci chiede di guardarle senza spiegarcele».
Non ci sarebbe dunque alcun contenuto – un autentico contenuto politico, in primis – se non sulla base di una preventiva spiegazione. È quindi pericoloso, suggerisci, lasciare alla forma un’autonomia che diventa rapidamente questa gratuità estetica che non offre allo spettatore alcuna spiegazione, solo immagini abbondanti, luccicanti e persino seducenti, con le loro ambiguità. Ti sentivi così smarrito (disorientato) davanti a un bouquet di opere eterogenee, considerando che questo spaesamento era frutto della mia pura fantasia di smarrimento (nel senso di chi ha sbagliato e anche nel senso di chi cerca di ingannare gli altri). La tua critica è tanto più radicale in quanto ti avvali, per sostenerla, della famosa distinzione operata da Walter Benjamin, due anni dopo la presa del potere di Hitler, tra la “politicizzazione dell’arte” e l’“estetizzazione della politica”. Ora sai benissimo che quest’ultima operazione – che mi attribuisci – è stata designata da Benjamin come “[ciò che] pratica il fascismo[10]”. Niente di meno. Prendo atto soprattutto che la forma del tuo giudizio è inscindibile da una serie di inferenze, di supposizioni a dir poco irragionevoli: da una mostra di immagini in un luogo culturale a due manifestanti irlandesi, da questi al «colonialismo britannico» poi ai moti fascisti del 1934 e, infine, da questi ai roghi di Joseph Goebbels, tutto questo per chiudere il cerchio dell’estetizzazione per mezzo di quel «che pratica il fascismo hitleriano».
〈I pazzi vogliono fare una rivoluzione? Probabilmente no. Ma capita che si manifestino come soggetti ribelli.〉
Non abbiamo aderito, con questo genere di illazioni, al più totale fraintendimento? Ora non ho intenzione di lavorare per convincerti che “l’estetizzazione della politica praticata dal fascismo”, come ha scritto Benjamin, non è esattamente ciò che ho praticato nella mostra Soulèvements. Almeno sono ansioso di capire cosa ti porta a costruire tali ragionamenti o, meglio, tali confronti e spostamenti semantici. Di che cosa è, per te, l’estetizzazione – con il suo corollario: lo “sconcerto” politico – è forse un sintomo? A questa domanda dai, in sostanza, tre risposte: tre paradigmi dichiarati produttori – o colpevoli – di smarrimento e ambiguità.
Vi sono anzitutto, come abbiamo appena visto, le insurrezioni stesse, alle quali opponi la rivoluzione, in una forma generale o generica che intende porsi come un unico orizzonte, razionalmente costruito e per questo ben diverso dalla pluralità erratica, emotiva e non strategica, delle rivolte. Poi ci sono i gesti dispersi, corporei o anche istintivi, ai quali opponi l’azione politica prevista nella sua unitaria coerenza. Infine, ci sono le immagini stesse che non ti soddisfano fino a quando non sono state spiegate, chiarite o portate allo stato di immagini pensiero, come dici tu usando una famosa espressione benjaminiana. Insomma, le rivolte, i gesti e le immagini sarebbero ambigui, se non altro perché disseminati, sparsi in mille forme compromettendo l’unità concettuale della rivoluzione, dell‘azione o del pensiero.
Ti è sembrato intollerabile, fin dall’inizio di Soulèvements, che documenti relativi alla storia politica “si mescolino, senza alcuna spiegazione, con fotografie che mostrano un bicchiere di latte versato su un tavolo”. Questo è il tuo primissimo esempio di «estetizzazione della politica». Ma, quanto all’immagine di Gilles Caron, hai solo visto, senza prenderti il tempo di guardare: non si trattava di foto, ma di un film sonoro di Jack Goldstein; non era un semplice bicchiere di latte, ma la trasformazione che un pugno che batteva sempre più forte sul tavolo gli imprimeva. Insomma, un’allegoria della crescente violenza e dei suoi effetti sull’ordine delle cose.
Una semplicissima immagine di pensiero ridotta, è vero, a questa drammaturgia in cui la forma-movimento – intendo lo spruzzo dinamico del latte sulla tavola nera – assumeva un ruolo dominante su qualsiasi contenuto narrativo o storico. Dovresti forse ricordare che quando Sergei Eisenstein, nel suo film La linea generale, attribuiva un’importanza così considerevole ai puri schizzi di latte nella centrifuga – “immagine della pulsione” ancor più che “immagine del pensiero”, tanto evidente era il suo carattere sessuale – il censore sovietico gli rimproverò evidentemente il suo“formalismo” in nome del contenuto rivoluzionario che il film avrebbe dovuto illustrare. In cambio Eisenstein, da poeta lirico, aveva preferito inventare una forma rivoluzionaria, anche se per nulla “esplicativa”.
Il secondo esempio che hai fatto della mia “estetizzazione della politica” riguardava le “figure di corpi in trance” che abbiamo visto in una sezione di Soulèvements sull’intensità gestuale. Qui come altrove, la tua prospettiva centrata sul concetto di rivoluzione sociale – un concetto che ha tutta la legittimità, certo, che è di grande urgenza ma che, semplicemente, non era l’oggetto della mia interrogazione – si è sentito disorientato dalla caotica, sgradevole vista di questi, corpi in rivolta, fuori di sé. I pazzi vogliono fare una rivoluzione? Probabilmente no. Ma capita che si manifestino come soggetti ribelli. Ciò che ti sembrava «senza alcuna spiegazione» è tuttavia apparso abbastanza chiaramente nel montaggio proposto, come nel collegamento tra i documenti dell’archivio di Michel Foucault e le fotografie di una donna isterica in crisi, alla Salpêtrière, che ha cercato di calciare – unico spazio possibile di rivolta per chi era immobilizzato in una camicia di forza – in direzione della stessa macchina da presa, questa macchina di controllo e predazione. Qui, come in molte altre immagini, comprese quelle di Gilles Caron, era importante per me mostrare il confronto tra il potere disarmato degli organi in rivolta e il potere delle istituzioni: insomma, il conflitto tra una violenza apparentemente illegittima e una violenza apparentemente legittima.
〈I gesti manifestano un desiderio quando le azioni portano un progetto.〉
Pugni sul tavolo o corpi in rivolta: non vedi certo come includere tutto ciò nella tua idea di politica, nonostante la nozione di soggettivazione politica secondo Michel Foucault. Questi sono solo gesti, non azioni come richiederebbe un processo rivoluzionario. Tu scrivi che io «pongo il primato del Pathosformeln sul contenuto dei moti politici», quando per me si trattava solo di un campo di ricerca, svolto a partire dai miei lavori sull’isteria fino a quelli dedicati ai gesti di lamento, che ai miei occhi non presuppone alcuna gerarchia di valori. Forse mi sono interessato ai gesti delle rivolte perché la maggior parte dei teorici politici aveva trascurato questo dominio antropologico come se fosse una semplice espressione epifenomenica e soggettiva, persino una “malattia infantile” priva di autentico significato politico, come troviamo ad esempio nel testo di Alain Badiou che invoca una politica «non patetica» e «non espressiva»[11]. Cosa che, in effetti, contesto.
I gesti manifestano un desiderio quando le azioni portano un progetto. Attribuisci grande importanza al progetto e, ripeto, non c’è nulla di più necessario, per quanto riguarda il concetto di rivoluzione. Quanto a me, ho voluto interrogare i desideri – anche se apparentemente “perduti”, disorientati, patetici o addirittura patologici – là dove così spesso appaiono come il punto cieco di teorie politiche sviluppate senza considerazione per il soggetto, nel senso psicoanalitico del termine: come se l’inconscio non esistesse. Per questo la mia riflessione ha potuto aprirsi a gesti poco esplicitamente politici come il “gioco del lutto” di due bambine osservate dallo psicanalista Pierre Fédida, un testo di Henri Michaux ne L’Infini turbulent, poi le donne in lacrime in Le Cuirassé Potemkine di Eisenstein e Le fond de l’air est rouge di Chris Marker[12].
Una terzo lettore del nostro dibattito troverebbe senza dubbio sintomatica la lettura di Mezzi senza fine di Giorgio Agamben, che citi nella risposta che è del tutto opposta. Fai riferimento a una frase di questo testo secondo la quale il gesto «non ha nulla da dire, perché ciò che mostra è l’essere-nel-linguaggio dell’uomo come pura medialità[13]». Ne deduci che il gesto «acquista senso solo se è legato a una finalità», al primo posto della quale, immagino, collochi l’azione rivoluzionaria. Ora Agamben – con il quale ho più volte, in passato, espresso certi disaccordi oltre che certe convergenze – mi sembra dica esattamente il contrario: il senso del gesto, se qui la parola senso si può dire appropriata, è proprio di non essere attaccati a una finalità cui invece rimanda la parola azione. È una “pura medialità”, e tanto meglio: “Ciò che caratterizza il gesto è che in esso non si tratta più né di produrre né di agire[14]. Ma Agamben non ne deduce che il gesto sarebbe “apolitico”. È vero anche il contrario. Il gesto, dice, è un mezzo senza fine, che è, in tutto il suo libro, la sua stessa definizione della politica: «La politica è la sfera dei puri mezzi; in altre parole, del gesto assoluto, integrale degli uomini[15]. »
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Le immagini o «creazioni artistiche prive di qualsiasi contenuto politico» che hai scoperto – e poco apprezzato – nella mostra Soulèvements avevano quindi in comune con i gesti o Pathosformeln, che erano prive, ai tuoi occhi, di “scopo” quanto di “contenuto”. Senza scopo o contenuto, come possiamo parlare seriamente di politica, come possiamo agire politicamente? «È stato con un senso di ebbrezza che ho lasciato la visita a Soulèvements, l’ebbrezza di un susseguirsi di immagini che avevano inghiottito le rivolte di esseri umani fatti di carne e ossa». Tale è la conclusione del tuo testo, a conferma che il “primato del Pathosformeln” aveva prodotto solo ambiguità, rivelandosi dunque come la pericolosa negazione di ogni contenuto politico. Saremmo dunque costretti a scegliere tra l’ebbrezza delle forme e la saggezza dei contenuti politici? Questa conclusione fa seguito a un passaggio in cui dichiari “inappropriato il [mio] riferimento a Walter Benjamin”, in particolare riguardo al suo elogio dell’ebbrezza surrealista da lui commentata e sperimentata in prima persona attraverso i vari usi dell’hashish[16]. Benjamin proponeva, nel suo testo sul surrealismo, di stabilire una distinzione tra “l’esperienza rivoluzionaria (Erfahrung)” insita nel testo di Nadja, ad esempio, e “l’azione rivoluzionaria (Handlung)” in quanto tale[17]. Scriveva che il surrealismo era riuscito a «conquistare le forze dell’ebbrezza per la rivoluzione(die Kräfte des Rausches für die Revolution)», secondo una dinamica che ne rivelava chiaramente la «componente anarchica[18]». «Dopo Bakunin – scriveva – l’Europa non ha più avuto un’idea radicale di libertà. I surrealisti hanno quella idea[19]».
Giustamente ricordi che, su un versante più comunista, Benjamin, da buon dialettico, ricordava la necessità, per ogni rivoluzione, di una «preparazione metodica e disciplinare».[20]. Questo è sufficiente, ai tuoi occhi, per delegittimare l’ebbrezza come il Pathosformeln e, con ciò, lo stesso surrealismo come movimento politicizzato. Ora qui ti stai solo arrabbattando con quella che chiamerò una dialettica del superamento: la «preparazione metodica e disciplinare» deve infatti “superare” l’esperienza rivoluzionaria surrealista, l’organizzazione comunista deve “superare” l’ebbrezza anarchica. Ma si perde di vista quella che lo stesso Benjamin chiama una “politica poetica[21]” (dichterische Politik). Nel campo artistico, intellettuale e letterario – quello che chiamiamo “storia culturale”, appunto – non c’è dialettica del superamento, perché lì nulla è obsoleto: Eraclito non è stato “superato” da Platone, da Hegel o da Karl Marx, né lo sarà dall’ultimo filosofo di moda. Occorre allora parlare, in questo campo di esperienza, di una dialettica dell’equivocità: una dialettica che non risolve nulla, non sintetizza nulla e lascia all’equivalenza o all’uguaglianza (aequus…) le due voci (…vocus) che coesistono e non cesseranno di coesistere, anche se discordanti. Alle prove di “estetizzazione” o “ambiguità” in campo culturale, ho già cercato di rispondere su almeno due livelli: il primo per capire in André Breton, nell’Arcano 17 e oltre, cosa faceva coesistere anarchismo e comunismo in questo bel oggetto poetico cangiante scaturito dall’esperienza vissuta del discorso di Jaurès al Pré-Saint-Gervais nel 1913: «È che sopra l’arte, della poesia, ci piaccia o no, sventola alternativamente una bandiera rossa e nera[22]…». Il secondo, in risposta a Jacques Rancière che sospettava lo stesso Benjamin di ambiguità su Baudelaire, per decostruire proprio questa negatività dell’ambiguità associata al “romanticismo rivoluzionario”, come lo chiamava Michael Löwy con Robert Sayre, e che naturalmente arriva fino al surrealismo[23]. Benjamin stesso aveva operato in anticipo questa decostruzione, scrivendo, ad esempio, che «l’ambiguità è l’apparizione, sotto forma di immagine, della dialettica, la legge della dialettica allo stato congelato». Questo stato fisso è utopia, e l’immagine dialettica è quindi un’immagine onirica[24]. »
L’ambiguità, nel contesto della storia dell’arte o della storia culturale in generale, non è, come si potrebbe pensare, puro e semplice “fuorviamento”. Nel tuo libro Revolution, cerchi a tutti i costi di strappare Benjamin a quella che tu chiami – strana formula – la «inclinazione bohémien» del surrealismo per sostituirlo con la più dritta «via del comunismo».[25] Se tu avessi ragione su questo punto, diventerebbe incomprensibile che a Benjamin piacesse tanto lavorare su Aragon, Kafka, Proust o Baudelaire, questo romantico apostolo dell’ambiguità oltre che dello smarrimento visto non come errore, ma come esplorazione di possibilità: «Glorificare il culto delle immagini (mia grande, mia primitiva passione). / Per glorificare il vagabondaggio, e quello che si può chiamare Bohemianesimo, il culto della sensazione moltiplicata…».[26]
Ritengo volentieri che tutto il lavoro espositivo e, in generale, l’editing – che vale per gli stessi libri di filosofia, sempre secondo un’ispirazione benjaminiana – debba mirare a tale esperienza di “sensazione moltiplicata”. E questo è possibile solo attraverso forme inventate, vissute, interposte, messe in moto. Rendere visibile e muovere la visuale vanno di pari passo per me. Disorientare i quadri dell’intelligibilità non significa abolire il pensiero politico nella nebbia dell’“ambiguità” o dello “smarrimento”, ma, al contrario, dargli la possibilità di riposizionarsi, di creare nuovi passaggi, di moltiplicare i possibili incroci. Questo è ciò che Benjamin ha detto del “carattere distruttivo”: «Agli occhi del carattere distruttivo nulla è duraturo. Proprio per questo vede sentieri ovunque».[27] Ora questa euristica del perturbamento costante ha un effetto decisivo sul pensiero: esso si muove, lungo la strada cambia contenuto o, piuttosto – come per effetto della baudelaireiana “sensazione moltiplicata” – beneficia di questa opportunità consistente nel moltiplicare i propri contenuti.
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Tutte le occorrenze della parola contenuto nel tuo testo sono singolari. Come se ci potesse essere un solo contenuto di ogni immagine. Il mio “errore” estetico è quindi, a tuo avviso, dovuto non solo all’importanza data alle forme, ma anche alla moltiplicazione, e quindi all’ambiguità dei loro possibili contenuti? Tu protesti contro il mio modo di perdere il “contenuto intrinseco”, come dici tu, tanto quanto il “contenuto sociale e politico” delle immagini. Ma cosa chiami esattamente “contenuto”? Qualcosa, presumibilmente, che può essere isolato, estratto, afferrato, spiegato, definito e giudicato. Spiegazione è una parola che ricorre anche nel tuo discorso: nota che non avrei dato “nessuna spiegazione” per aver incluso in Soulèvements le fotografie del Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau, conseguentemente private del loro “contenuto” storico. Anche in questo caso, ciò è di fatto inesatto poiché avevamo discusso, con la gente del Jeu de Paume, dell’opportunità, per alcune immagini – tra cui queste – di proporre etichette tese a contestualizzarle il più precisamente possibile. Quando László Moholy-Nagy e Bertolt Brecht hanno parlato una volta di “analfabetismo delle immagini”, miravano a questo positivismo dello sguardo che consiste nel cercare il significato di un’opera visiva – inclusa una fotografia – nel suo unico contenuto rappresentativo piuttosto che nel suo rapporto con la sua forma specifica. Se guardiamo le fotografie del Sonderkommando solo dal punto di vista del loro contenuto, possiamo meravigliarci di vederle esposte in un montaggio sui moti: mostrano solo vittime prossime alla morte o già assassinate. È molto peggio dell’oppressione.
Di conseguenza, sarà un modo povero e, a dir poco, “ambiguo” di evocare o illustrare la nozione di rivolta. Ma queste fotografie, come atti o come gesti, facevano parte di un movimento insurrezionale che includeva la raccolta clandestina di testimonianze, testuali o visive: ciò che appare nella loro stessa forma, sia nell’inquadratura che nel movimento, e non solo in ciò che rappresentano. Ma un gesto o un movimento sono percepibili solo in una forma attraverso un – fatale – margine di indeterminatezza o ambiguità. Raramente, di fronte a un’immagine, possiamo sfuggire al dubbio su almeno una delle sue componenti. Siamo quindi costretti a fare ipotesi, a costruire un sapere non standardizzato, non pienamente verificabile, positivo, spiegabile, sicuro di sé. Eppure è una conoscenza“sicura di sé” che tu pretendi, soprattutto quando dici, della fotografia di Gilles Caron, che “la sua didascalia […] non lascia alcun dubbio” sul suo contenuto. Avrai quindi dovuto, per non “ingannarti”, eliminare ogni dubbio che avresti potuto avere – ma con quali argomenti? tu non me ne dai – riducendo le ambiguità piuttosto che includerle nel tuo approccio all’immagine. Per farlo citi l’autorità di Siegfried Kracauer (di cui, una trentina d’anni fa, hai scritto una bella biografia intellettuale[28]): qualsiasi immagine, in particolare la fotografia, rimane «in attesa di redenzione[29] (unerlöst)». Sono perfettamente d’accordo con questa formula, purché si comprenda che, come per il Messia, questa redenzione rimarrà sempre in sospeso; e che proprio questa attesa darà senso al nostro sguardo. È molto diverso dal credere che tutti i dubbi siano stati ridotti. L’idea, da te espressa, di «afferrare e […] comprendere la natura, il “contenuto intrinseco” [di un’immagine]» – questa idea in realtà ti viene da Erwin Panofsky. Tu infatti riprendi, semplificandola, la tabella a tre voci in cui Panofsky fissava i livelli di “significato” di un’immagine: “soggetto primario o naturale”, sia “fattuale” che “espressivo”; “soggetto secondario o convenzionale” caratteristico delle allegorie, per esempio; “significato o contenuto intrinseco” propriamente detto, costituente l’universo globale dei valori morali o intellettuali di cui l’immagine è il “simbolo[30]”. E dici, come Panofsky – in particolare nella sua prefazione del 1966 all’edizione francese di Essays on Iconology[31] – che nulla si può fare, a livello di iconologia o di storia culturale, senza aver prima ridotto tutte le ambiguità e tutti i dubbi sui primi due livelli che qui riunisci, per esempio sulla fotografia di Gilles Caron. Quando scrivi che “la sua didascalia […] non lascia alcun dubbio”, presumi di aver risolto tutte le questioni, tutti gli enigmi, tutte le ambiguità individuando tanto il contenuto fattuale (ciò che è rappresentato) quanto il contenuto politico (cosa si dovrebbe “leggere” di esso).
Non è un caso che proprio contro questo abbia preso avvio il mio lavoro di storico dell’arte, più di trent’anni fa: proprio contro le nozioni di contenuto, “significazione” e di “simbolo” in Panofsky. Secondo lui, non c’è iconologia senza un’identificazione “senza dubbio” di un contenuto che consenta di stabilire la corretta didascalia di un’immagine: il primo compito dello storico dell’arte è, ad esempio, quello di determinare con certezza se questo o quel dipinto rappresenti Giuditta o Salomé – “Julomé”, “Salodith” essendo in linea di principio, secondo lui, impossibile –, sebbene entrambe siano fantasiose fanciulle che sfoggiano lo stesso tipo di testa mozzata sullo stesso tipo di vassoio[32].
〈È straordinario notare come le parole sappiano anche impedirci di guardare, di dispiegare la nostra attenzione davanti alle forme visibili.〉
Questa episteme del contenuto iconografico e del “simbolo” esigeva di essere criticata[33] (non dico: unilateralmente respinta). Innanzitutto riguardo a certi oggetti visivi di cui non teneva conto o che considerava marginali, epifenomenici perché non figurativi, insignificanti, soprattutto quando erano puramente “estetizzanti” o decorativi[34]. Poi a proposito di riflessioni epistemologiche cruciali per le scienze umane, ma alle quali l’iconografia panofskiana – almeno nel suo ultimo periodo americano – aveva deliberatamente rinunciato (e che anche tu sembri voler ignorare). Individuare un contenuto, ecco in cosa consiste l’iconografia: ecco ciò che ti sembra essenziale, perché altrimenti, ai tuoi occhi, andrebbero in malora le forme culturali, insieme ambigue e disperse, sfuggenti e quindi impossibili da situare politicamente. Ma l’identificazione è solo uno strumento, non un fine in sé. Quando è soggetta all’indeterminatezza, come accade per molte immagini, è meglio interpretarla piuttosto che estrarne autorevolmente un’identificazione a tutti i costi. Come l’iconografia, la storia come disciplina “poliziesca” – sul modello dell’investigatore il cui lavoro è terminato una volta individuato il colpevole – esige una critica[35]. Se il fatto di identificare i contenuti diventa il fine della nostra pratica di storici della cultura, allora dobbiamo essere un po’ preoccupati quando, da semplice strumento, questa rabbia per l’identificazione si trasforma in un ostacolo epistemologico. Essa è regolata, infatti, da un processo centripeto che, una volta stabilito, certificato, “al di là di ogni dubbio” il contenuto, ha l’effetto di fissare tutto come sulla tavola di un entomologo, al di là di ogni divenire. Ma le immagini non sono cose come le altre. La storia delle produzioni culturali, che va di pari passo con una storia della psiche, ci chiede anche di compiere il movimento opposto: quello di osservare delle trasformazioni, dove l’identità rischia di essere diffratta, dove il contenuto rivela il proprio limite teorico.
Tutti i momenti cruciali delle scienze umane contemporanee hanno evidenziato questo limite della nozione di contenuto. Per citarne solo alcuni: il principio fondamentale della “sovradeterminazione” avanzato da Sigmund Freud; i giochi di “polarizzazioni” e “depolarizzazioni” di ogni Pathosformel evocati da Aby Warburg; il primato delle trasformazioni strutturali dei significanti dimostrato da Roman Jakobson, un modo per disfare il mito di una stabilità dei significati; la “grammatologia” di Jacques Derrida sviluppata su un principio di “disseminazione”; O l’importanza del “senso ottuso” delle immagini al di là del loro “senso evidente” secondo Roland Barthes… Prendere in considerazione tutte queste trasformazioni – che sono processi più che contenuto-, è ciò che, ad esempio, ha portato Aby Warburg a parlare di immagini in termini non solo di pathos o “sopravvivenze”, ma anche di “migrazioni” (Wanderungen) offrendo così un principio indispensabile per cominciare a comprendere il suo famoso atlante d’immagini, apparentemente così confuso, così poco esplicativo [36].
Quando scrivi, a proposito dell’immagine di Gilles Caron, che “la sua didascalia […] non lascia alcun dubbio” sul suo contenuto, componi un bouquet di tre livelli di certezza che riflettono tre pregiudizi di cui non sembri vedere i limiti. Nessun dubbio sulle cose rappresentate: davanti all’immagine si vedono solo referenti certificati; nessun dubbio sulle parole che le nominano e te le fanno riconoscere subito; nessun dubbio sul contenuto che le parole – il testo della didascalia – avranno formato nella tua mente prima di qualsiasi considerazione visuale dell’immagine. Sei un po’ come quei visitatori della mostra che si precipitano al cartello e poi danno solo una rapida occhiata al lavoro che viene loro presentato. Come suggerisce il suo nome, la didascalia sembra non lasciare dubbi perché ha prescritto “cosa si deve leggere” (legendum) nell’immagine. È straordinario notare come le parole che, a volte, possono essere così “veggenti” – come quando Jean Genet descrive un dipinto di Rembrandt –, sappiano anche impedirci di guardare, di dispiegare la nostra attenzione davanti alle forme visibili. Questo non è altro che un’indicazione di come il logocentrismo (una mitizzazione del linguaggio) e il positivismo (una mitizzazione dei fatti) riescano così spesso, anche nelle discipline storiche, a lavorare insieme.
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Ciò che per te conta soprattutto, caro Enzo Traverso, è ovviamente il contenuto politico. La dispersione e l’ambiguità che hai avvertito visitando la mostra Soulèvements ti hanno quindi spinto a parlare di una “iconologia depoliticizzata”. Al contrario, il tuo progetto di storia culturale della rivoluzione si afferma come un’opera con vere e proprie “immagini del pensiero”, in virtù delle quali puoi confermare che esistono, tra te e me, «due diverse concezioni della dialettica delle immagini». Dove sono, allora, le linee di demarcazione rispetto a questa differenza?
La tua storia culturale della rivoluzione si sviluppa in realtà attraverso l’iconografia standard. Prima con gli oggetti: Marx aveva scritto «le rivoluzioni sono le locomotive della storia», quindi inizi il tuo studio con un capitolo sulle locomotive come allegorie del progresso industriale e politico (nei manifesti sovietici) oltre che come strumenti tecnici del potere rivoluzionario (con l’esempio del treno blindato usato da Trotsky[37]). Il capitolo seguente tratta di corpi: “corpi rivoluzionari”, a cominciare dalla loro infanzia come “corpi insorgenti”. Tuttavia, in queste pagine, ti affidi al doppio significato della parola soulèvement [insurrezione] – proprio ciò per cui mi critichi – evocando velocemente le opere di Marc Chagall degli anni 1918-1922, abitate come sono “da personaggi che fluttuano nell’aria: contadini, rabbini, giovani innamorati che ricordano i luftmensch, questi esseri umani “eterei” senza attaccamenti così tipici della letteratura yiddish[3 8]”.
Sebbene Chagall sia stato, almeno fino al 1920, un autentico rivoluzionario – più attento, è vero, al sottoproletariato, alle minoranze paesane e ai bambini che non alla stessa organizzazione operaia – quello che descrivi della sua opera è lontano da ogni contenuto politico standard: come se, con lui, l’allegoria della rivolta si diffratta o addirittura si perda, se non sbaglio, nell’“ambiguità” di un ritorno contro-rivoluzionario alla tradizione ebraica. Non dovremmo essere troppo sorpresi che Chagall sia stato estromesso, nel settembre 1919, dalla Scuola d’arte di Vitebsk[39]. Né che la sua storia non venga maggiormente esplorata nel tuo studio. Invece hai scelto come emblema – l’illustrazione di copertina – del tuo libro un’opera piuttosto spettacolare di Kouzma Petrov-Vodkine. È un’allegoria facilmente “leggibile” della rivoluzione bolscevica: un grande cavallo rosso si erge fiero, con il suo cavaliere, sopra un paesaggio – un villaggio russo.
Ciò che mi colpisce in questa scelta non è tanto dovuto alla personalità stessa di Petrov-Vodkine, artista simbolista e religioso – l’opera che stai riproducendo, datata 1925, era stata anticipata, nel 1912, da un altro Cavallo Rosso, un chiaro riferimento all’iconografia di San Giorgio[40] – divenuto pittore ufficiale del regime sovietico, morto serenamente con il titolo di «Personalità emerita delle arti della Repubblica di Russia», dopo che Stalin glielo aveva chiesto, nel 1 938, da inserire nella decorazione del futuro Palazzo dei Soviet[41]. Quello che mi preoccupa piuttosto è che questo dipinto, il cui contenuto è chiaramente rivoluzionario, fa parte di un’opera visiva la cui forma sarà stata, dall’inizio alla fine, chiaramente reazionaria. È qui senza dubbio che le nostre idee sulla “dialettica delle immagini” differiscono profondamente. Questo è ciò che separa i nostri rispettivi approcci a ciò che possono essere le “immagini di pensiero”. Inoltre, dopo oggetti e corpi, il tuo libro intende occuparsi di concetti che una storia culturale dovrebbe trattare come altrettanti simboli[42] (e, anche qui, segui rigorosamente il vocabolario di Panofsky).
Tutta questa parte del tuo libro, intitolata “Concetti, simboli e luoghi della memoria” culmina in quella che appare ai tuoi occhi come “l’immagine di pensiero” per eccellenza: è l’affresco di Diego Rivera L’uomo controllore dell’universo, dipinto nel 1934 – dopo le avventure di New York che racconti con precisione– per il Palazzo delle Belle Arti di Città del Messico[43]. In che modo allora è una “immagine di pensiero”? In quanto visualizza o, meglio, illustra un pensiero, una visione del mondo. Scrivi dunque che essa «illustra una concezione marxista della storia, una visione del socialismo e un paradigma rivoluzionario» che vanno ben al di là di ogni insurrezione, di tutte le sollevaioni corporea[44]. Questo affresco manifesta un’ideologia e si ispira all’estetica del realismo socialista in quanto contemporaneo, come sottolinei, all’ascesa al potere di Lazaro Cardenas ispirato al modello sovietico.
È quindi ai tuoi occhi un’immagine di pensiero in quanto illustra un pensiero. È un’immagine dialettica in quanto allegorizza la lotta dell’umanità che «al bivio si trova in un equilibrio quasi perfetto tra passato e futuro, male e bene, abisso e felicità, egoismo e fratellanza, malattia e salute, pregiudizio e risveglio spirituale, oscurantismo e progresso, capitalismo e socialismo». Insomma, è un’immagine rivoluzionaria in quanto vi si vede il ritratto di Lenin e, allo stesso tempo, delle “masse rivoluzionarie”, dici, che combattono contro le “forze della guerra”, o anche le effigi di Marx, Engels e Trotsky accanto agli “eroi collettivi” rappresentati come altrettante “figure prometeiche[46]”. È in seguito a tali considerazioni che il tuo libro Revolution prenderà una nuova piega, quella di una schiera di “intellettuali rivoluzionari” dal 1948 fino alla seconda guerra mondiale[47]. Il che fa delle tue analisi una bella storia delle idee (ma non delle immagini e nemmeno della cultura in generale) e delle ideologie (ma non delle sensibilità, nemmeno delle mentalità).
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Riprendiamo – brevemente – per cercare di concludere. Che dire quindi, a questo punto, dei contenuti politici? Dovremmo definirli come ciò che illustra un’immagine, ciò che un’opera d’arte professa, ciò che rappresenta una fotografia, come sembri fare attraverso le tue interpretazioni e la tua scelta di oggetti? Non dovremmo piuttosto essere in grado di mobilitarli, quindi dislocarne l’ovvietà, in particolare attraverso la questione del potere delle forme e quella di sapere come agisce un’immagine, non solo sui suoi spettatori, sul mondo storico, ma anche sulle altre immagini con cui convive? Questa è una domanda che eviti di fare sul mio lavoro anche se ne adotti immediatamente il vocabolario a partire dall’“atto d’immagine” (Bildakt) secondo Horst Bredekamp[48]. Il “contenuto politico” è davvero ciò che un’immagine “contiene” politicamente, al di là di ogni “estetizzazione”?
Ciò che appare in molti dei tuoi esempi è però un conformismo della forma e, per contro, in molte delle tue riserve su certe opere contemporanee che ti obbliga a considerare “fuori tema” rispetto a qualsiasi spazio politico. Cieco alle invenzioni formali e, di conseguenza, alla stessa immaginazione politica, questo conformismo della forma finisce per fossilizzare i contenuti stessi (che sono sempre plurali, quindi mai pensabili come “il contenuto” ostinatamente ricercato da ogni pensiero settario). Cos’è, in queste condizioni, un’immagine di sinistra? È ben posta questa domanda se “la sinistra” denota solo un contenuto di rappresentazione e una posta in gioco nel significato, rifiutando ogni specifico lavoro di forma sul versante dell’“estetizzazione”? Prima che i suoi compagni di sinistra si riunissero all’Istituto per gli studi sul fascismo nell’aprile 1934, Walter Benjamin era stato comunque molto chiaro sulla nozione di “tendenza” (Tendenz), che la tua idea di “contenuto politico” mi sembra coprire in modo abbastanza preciso. Benjamin ha scritto: «La tendenza di un’opera politica può funzionare politicamente solo se funziona anche letterariamente». Cioè se è capace di inventare una forma anticonformista – anche se questo conformismo è “di sinistra”, come nel caso del realismo socialista.
Non c’era niente di confortante nella richiesta formulata da Walter Benjamin: essa apriva tutto un campo di polemiche che, di fatto, divideva i pensatori dell’epoca. Marcel Proust dovrebbe essere considerato come un autore borghese (come sembrava essere secondo il suo “contenuto”) o come uno scrittore rivoluzionario (come lo è, almeno, nella sua forma narrativa)? Dovremmo vedere in James Joyce l’apostolo di una pura estetizzazione del linguaggio che produce ambiguità incomprensibili, o l’inventore di forme letterarie capaci di sostenere il progetto, di Eisenstein, di un adattamento cinematografico del Capitale di Karl Marx[50] (progetto ovviamente considerato “senza contenuto”, quindi dannoso, dalla censura stalinista)? Gli espressionisti dovevano essere respinti come potenziali fascisti – una posizione che era quella di Georg Lukács – o, al contrario, dovevano adottare il loro dinamismo psichico e formale, come fece Ernst Bloch? La psicoanalisi freudiana doveva essere considerata dal punto di vista dell’individualismo borghese o da quello di un’inflessione rivoluzionaria delle scienze dell’uomo?
〈La tradizione è viva solo se si riesce a trovarvi una leggibilità inavvertita rompendo le certezze del conformismo.〉
Quindici anni fa, ho cercato di mostrare come Bertolt Brecht potesse sentirsi “bloccato” in questo problema: combattuto tra le esigenze della “tendenza” (che lo faceva prendere posizione: elogio di Stalin, dunque) e quelle della forma (che lo faceva prendere posizione giocando, ad esempio, su un accostamento contemporaneo ai motivi più immemorabili della lamentazione rituale)[51]. Evocando Brecht, inoltre, non si può non ricordare il modo grandioso con cui ha fatto giocare assieme – in una critica vicendevole – i montaggi poetici più arditi e una preoccupazione pedagogica, gioco che si manifesta in modo così deciso nelle sue Kriegsfibel[52].
Ma non è proprio l’obettivo di Brecht, e ancor meno di Benjamin, ridurre a immagini didattiche, come tendi a fare tu, queste immagini dialettiche, che mi sembra importante considerare come “immagini critiche”, vale a dire, soprattutto, produttrici di crisi[53].
Le immagini dialettiche non sono “immagini sintetiche” in cui un singolo contenuto troverebbe la sua forma perenne: ma “immagini-sintomo” in cui i contenuti eterogenei turbinano – si confrontano, si uniscono, si stringono la mano, si separanonuovamente – in forme in movimento. Non hai capito, caro Enzo Traverso, quello che avevo potuto dire sulla tradizione: l’avevo criticata quando era ridotta a pura continuità del patrimonio istituito (il patrimonio umanistico, ad esempio: il lato panofskiano, quindi). Viceversa, ho fatto mio da tempo questo riferimento a Benjamin, che giustamente citi: «In ogni epoca, bisogna cercare di strappare nuovamente la tradizione al conformismo (Konformismus) che sta per sottometterla[54].
Ciò significa che la tradizione è viva solo se si riesce a trovarvi una leggibilità inavvertita rompendo le certezze del conformismo. E questo significava, per Benjamin, sia conformismo teologico (soggiogare la tradizione ebraica) sia conformismo politico (soggiogare la “tradizione degli oppressi”).
È dunque assumendosi il rischio di spostare – smontare, rimontare – che faremo emergere una nuova leggibilità della storia e della politica. Questo spostamento è un atto euristico, per quanto minuscolo o, al contrario, spettacolare possa essere: un’affermazione di libertà e immaginazione. Una produzione di “immagini di pensiero”, quindi. Quando, rispetto a Diego Rivera, dai a questa espressione il significato di un’immagine che «illustra una concezione marxista della storia», riduci completamente il senso di ciò che Benjamin intendeva con il termine Denkbilder: per te è un’immagine del pensiero (genitivo oggettivo), mentre sarebbe piuttosto un’immagine di pensiero (genitivo soggettivo). Il testo di Benjamin che porta il titolo di Denkbilder mi sembra così tanto fecondo per il fatto di trovarsi agli antipodi di ogni sottomissione, che tu stabilisci spontaneamente, dell’”immagine”, quindi dell’immaginazione, al “pensiero” che vi troverebbe la sua illustrazione e, in tal modo, vi si troverebbe “contenuto”.
Ora in questo testo si trattava di lutto e scrittura, di sogni e carezze[55]… Si trattava di “parole senza nesso né contesto” (Wörter ohne Bindung und Zusammenhang), ma che avevano la capacità immaginativa di offrire il “punto di partenza di un gioco” (Ausgangspunkte eines Spieles) del pensiero, come in questa frase surrealista lanciata da un bambino, meticolosamente registrata da Benjamin: «Il tempo vola come un bretzel in natura»[56]. Con la sua forma di lettera magica o di simbolo matematico, i suoi buchi e la promessa di un gusto squisito, il bretzel è in questa frase solo un’immagine sensoriale[57]. Ma è per ciò stesso uno “sviamento” dal concetto di tempo? Benjamin non l’ha data, appunto, come un potere di pensare? Come Hans Blumenberg ha potuto sviluppare in seguito, dobbiamo capire qui che le immagini non sono in alcun modo i semplici stati rudimentali del pensiero (concetti poveri, non ancora realizzati) o la prova della sua successiva disintegrazione (concetti “fuori posto”, “estetizzati”). Partecipano pienamente alla storia in cui si formano i concetti (Begriffsbildung) e, ancor più, sono suscettibili di offrire forme sviluppate di pensiero che non dovranno più “contenere” o “illustrare” in alcun modo il pensiero stesso. Hai parlato, dopo Daniel Bensaïd, di una “malinconia di sinistra” o della sinistra[58] – in un senso non psicoanalitico del termine, ovviamente – che ha implicato necessariamente, da parte tua, questo lavoro di memoria e di storia culturale sulla rivoluzione. Daniel Bensaïd, da te citato in epigrafe a quest’opera, ha detto della rivoluzione che essa è «l’idea indeterminata del cambiamento»: proprio in questa veste, ha detto, essa rappresenta l’opposto di un «modello» o di un «schema prestabilito[59]». Qui sta forse il nostro malinteso: direi che, se quell’idea è indeterminata, è proprio perché va immaginata, nel momento in cui lo stesso Bensaïd afferma che è “senza immagine”.
La rivoluzione è “senza immagine” solo per coloro la cui nozione (o la pratica) di immagini è troppo riduttiva o troppo astratta. Insomma: conformista. La miseria della sinistra non sta nella sua malinconia, ma nel suo conformismo rispetto a certi poteri antropologici – desideri inconsci, emozioni, gesti, immagini – che considera subalterni all’azione, al progetto, alla strategia o al “contenuto politico”.
Smarrirsi in qualsiasi modo ci tocca, come indica il famoso adagio errare humanum est. Vaghiamo nei nostri desideri, nelle nostre emozioni, nei nostri gesti, nelle nostre immagini. È indubbiamente un errore filosofico, anche politico, credere che ogni erranza del pensiero si riduca a nulla.
Note
[1] M. Poivert, Gilles Caron. Il conflitto interiore, Lausanne-Arles, Musée de l’Élysée-Éditions Photosynthèses, 2013, p. 225-227 e 264-290.
[2] Ivi, p. 244-262 e 291-293. Cfr. G. Didi-Huberman (dir.), Soulèvement, Jeu de Paume-Gallimard, 2016, p. 138-139.
[3] G. Didi-Huberman (dir.), Soulèvement, op. cit., pag. 149.
[4] Ivi, p. 135 e 140-141.
[5] L’ultimo, come punto culminante (e diretto con Louise Déry), era intitolato Le Soulèvement infini, Montreal, Galerie de l’UQAM, 2019.
[6] G. Didi-Huberman, Desiderare disobbedire. Cosa ci solleva, 1, Les Éditions de Minuit, 2019. Id., Immagina di ricominciare. Cosa ci solleva, 2, Les Editions de Minuit, 2021.
[7] J. Rancière, “Un’insurrezione può nasconderne un’altra”, Insurrezioni, op. cit., pag. 63-70.
[8] G. Didi-Huberman, Immaginare di ricominciare, op. cit., pag. 37-50. Cfr. F. Jesi, Spartakus. Simbolico della rivolta (1969), trad. F. Vallos e A. Dufeu, Bordeaux, Edizioni La Tempête, 2016.
[9] O. Mannoni, “Lo so, ma ancora…” (1964), Chiavi dell’immaginario, o l’altra scena, Le Seuil, 1969, p. 9-33.
[10] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica [prima versione]” (1935), trad. R. Rochlitz, Opere, III, Gallimard, 2000, p. 113.
[11] A. Badiou, La politica: una dialettica non espressiva (2005), Il rapporto enigmatico tra filosofia e politica, Meaux, Éditions Germina, 2011, p. 67-87.
[12] G. Didi-Huberman, Desiderio di disobbedire, op. cit., pag. 7-15.
[13] G. Agamben, Appunti sul gesto (1992), trad. D. Loayza, Mezzi senza fine. Note sulla politica, Payot & Rivages, 1995, p. 70.
[14] Ivi, p. 68.
[15] Ivi, p. 71.
[16] W. Benjamin, Sull’hashish e altri scritti sulla droga (1927-1934), trad. J.-F. Poirier, Christian Bourgois, 1993.
[17] Id., Surrealismo. L’ultima istantanea dell’intellighenzia europea (1929), trad. M. de Gandillac, recensito da P. Rusch, Works, II, Gallimard, 2000, p. 120.
[18] Ivi, p. 130.
[19] Ivi, p. 129.
[20] Ivi, p. 130.
[21] Ivi, p. 131.
[22] A. Breton, Arcano 17, enté d’Ajours (1944-1947), Opere complete, III, ed. M. Bonnet et al., Gallimard, 1999, p. 43. Cfr G. Didi-Huberman, Desiderare disobbedire, op. cit., pag. 263-280.
[23] G. Didi-Huberman, Immaginare di ricominciare, op. cit., pag. 233-252.
[24] W. Benjamin, Baudelaire (1935-1940), ed. G. Agamben, B. Chitussi e C.‑C. Harle, trad. P. Charbonneau, Edizioni La Fabrique, 2013, p. 26.
[25] E. Traverso, Rivoluzione: una storia culturale (2021), trad. D. Tissot rivisto dall’autore, La Découverte, 2022, p. 272.
[26] C. Baudelaire, Il mio cuore messo a nudo (1859-1865), Opere complete, I, ed. C. Pichois, Gallimard, 1975, p. 701. Cfr. G. Didi-Huberman, Idas y vueltas, ovvero la politica del vagabondaggio, Les Cahiers du Musée national d’art moderne, n° 154, inverno 2020-2021, p. 3-49.
[27] W. Benjamin, Il carattere distruttivo, (1931), trad. R. Rochlitz, Opere, II, op. cit., pag. 332.
[28] E. Traverso, Siegfried Kracauer. Itinerario di un intellettuale nomade, La Découverte, 1994.
[29] S. Kracauer, Fotografia, (1927), trad. S. Cornille, L’ornamento della messa. Saggi sulla modernità di Weimar, La Découverte, 2008. Tua traduzione.
[30] E. Panofsky, Saggi di iconologia. Temi umanisti nell’arte rinascimentale (1939), trad. C. Herbette e B. Teyssèdre, Gallimard, 1967, p. 31.
[31] Ivi, p. 3-5.
[32] Ivi, p. 25-28.
[33] Cfr. G. Didi-Huberman, Devant l’image. Domanda posta ai fini di una storia dell’arte, Les Éditions de Minuit, 1990, p. 105-168.
[34] Id., Beato Angelico – Dissomiglianza e figurazione, Flammarion, 1990.
[35] Id., “Per un’antropologia delle singolarità formali. Nota sull’invenzione warburgiana, Genèses. Scienze sociali e storia, n° 24, 1996, p. 145-163 (con una critica del paradigma poliziesco, in particolare di Carlo Ginzburg).
[36] Id., “Atlante o l’allegra conoscenza inquieta”. L’occhio della storia, 3, Les Editions de Minuit, 2011.
[37] E. Traverso, Rivoluzione: una storia culturale, op. cit., pag. 37-83.
[38] Ivi, p. 86.
[39] Cfr. A. Kamenski, Chagall: Russian and Soviet period, 1907-1922, trad. J. Aubert-Yong, Edizioni du Regard, 1988, p. 263-312.
[40] Cfr. Y. Roussakov, Kouzma Petrov-Vodkine, 1878-1939. Dipinti, arti grafiche, scenografie, trans. B. Mertz, Leningrado, Aurora Art Editions, 1986, p. 59 e 247.
[41] Ivi, p. 252.
[42] E. Traverso, Rivoluzione: una storia culturale, op. cit., pag. 157-225.
[43] Ivi, p. 211-225.
[44] Ivi, p. 211-212.
[45] Ivi, p. 217.
[46] Ivi, p. 218-221.
[47] Ivi, p. 227-340.
[48] Ivi, p. 6.
[49] W. Benjamin, “L’autore come produttore” (1934), trad. P. Ivernel, Saggi su Brecht, La Fabrique Éditions, 2003, p. 123.
[50] Cfr. E. Vogman, Danza dei valori. Capital Project di Sergei Eisenstein, Zurigo, Diaphanes, 2019.
[51] G. Didi-Huberman, Quando le immagini prendono posizione. L’occhio della storia, 1, Les Éditions de Minuit, 2009.
[52] B. Brecht, L’ABC della guerra (1955), trad. P. Ivernel, L’Arca, 2015.
[53] Si veda in particolare G. Didi-Huberman, Ciò che vediamo, ciò che ci riguarda, Les Éditions de Minuit, 1992.
[54] W. Benjamin, Sul concetto di storia (1940), trad. M. de Gandillac, recensione di P. Rusch, Opere, III, op. cit., pag. 431.
[55] Id., Immagini di pensiero (1933), trad. J.-F. Poirier, Immagini di pensiero, Christian Bourgois, 1998, p. 235-240.
[56] Ivi, p. 242-243.
[57] Cfr. G. Didi-Huberman, «L’immagine-malizia. La storia dell’arte e l’enigma del tempo” (1999), Devant le temps. Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, Les Éditions de Minuit, 2000, p. 85-155.
[58] E. Traverso, Malinconia della sinistra. Una tradizione nascosta, La Découverte, 2016.
[59] Id., Rivoluzione: una storia culturale, op. cit., pag. 5.
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Fonte: AOC media, 18-07-2022