Soulèvements, insurrezioni

 

Ultime battute del dibattito tra Georges Didi-Huberman ed Enzo Traverso: risposta finale dello storico e filosofo dell’arte e chiusa, possiamo dire un po’ nervosa, di Traverso. Ricordiamo che la scintilla che ha acceso la miccia di questo dibattito, a tratti intenso a tratti inquieto, è stato l’utilizzo di un’immagine di Caron che riprendeva due soggetti intenti a contrapporsi alle forze dell’ordine negli scontri di Londonderry del 1969. La foto si presentava come copertina del catalogo della mostra curata da Didi-Huberman nel 2016 al museo Jeu de Paume di Parigi. Vale la pena ricordare che il titolo della mostra era Soulèvements, qui tradotto con insurrezioni. Mi prendo la responsabilità di questa scelta che ha inteso rendere quel “su” presente nella parola francese. “In su” in italiano ci rimanda ad un’immagine, è di questo che principalmente tratta lo scambio tra i due, di un’aspirazione, di una volontà di alzarsi dal terreno del principio di pesantezza e di realtà. La sinossi di questo “andar sopra”, “andare oltre” si snoda essenzialmente tra le parole rivoluzione, rivolta, sollevazione e insurrezione. Ad esse potremmo ragionevolmente aggiungerne delle altre come agitazione, moto, ribellione, sedizione, sommossa e tumulto. Stando a Traverso è però necessario distinguere tra il momento rivoluzionario e tutti gli altri momenti connotati da un certo spontaneismo e dall’improvvisazione. Alla radice di questa differenza/contrapposizione la valorizzazione della progettazione metodica di fronte al momento pulsionale e desiderante: la rivoluzione, soprattutto per Traverso è fatta di strategia, calcolo e disciplina. Didi-Huberman, forte del dettato di Benjamin, non nega questo aspetto, ma sostiene la sua sterilità in assenza di quel momento onirico e surrealista rappresentato da quel ”oltre” che è il sogno. In questo senso da parte del filosofo dell’arte c’è una maggiore considerazione dei moti spontanei.

È un dibattito non nuovo, anche se assume in sé le esperienze del secondo ‘900. Dico non nuovo perché è la stessa contrapposizione, forse con meno sfumature, che si era generata tra Simone Weil e Gerges Bataille sulle pagine de La critique sociale tra il 1933 e il 1934. Le relative posizioni di questi due autori non sono sovrapponibili a quella emerse tra Didi-Huberman e Traverso, ma rimangono importanti alcune indicazioni che caratterizzano il doppio gioco di specchi. Si tratta di prendere posizione rispetto a cosa renda reale e possibile il momento rivoluzionario: l’analisi del dato di fatto, una certa ratio, la disciplina militare e il rispetto delle catene di comando, oppure la possibilità di introdurre in questi fattori un in più di realtà, una sorta di carburante immaginario che ha a che fare con il desiderio. La dépense di Bataille come felicità della morte e della consumazione, oppure la finalizzazione dell’azione alla promozione della vita. Che questa differenza abbia a che fare con la differenza tra azione pura e didattica sociale, appare abbastanza evidente.

Viene qui riattualizzato, quindi, un dibattito che ha accompagnato da subito il secolo delle rivoluzioni. Una cosa è certa però, anche in assenza di risposte definitive sul senso storico delle rivoluzioni, il principio di realtà si è trasformato ineluttabilmente in un regime del terrore. Mi si scuserà per la semplificazione, ma questo per dire che dentro la pretesa di oggettivazione del significato si nasconde una buona dose di oniricità e di desiderio inconfessato che, una volta portata a termine l’azione rivoluzionaria, reclamerà i suoi diritti. Non dobbiamo soltanto fermarci alla pascaliana affermazione secondo cui « il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce», ma sapere soprattutto che la ragione non conosce il suo sfondo cardiaco e il suo desiderio. È su questo punto che l’Aufklerung trova la sua impasse, a meno di non ripensare dalle fondamenta questa “illuminazione”, come suggerisce brevemente Didi-Huberman.

Qui il gioco è del tutto aperto e non ci sono strade battute che ci possano rassicurare. Sappiamo in ogni caso che l’introduzione del fattore desiderio all’interno della prospettiva di un’azione e di un progetto politici, ne segna la battuta d’arresto e un tragico ripiegamento nella soggettività singolare.

Il capitalismo delle piattaforme e della commercializzazione della vita ci dà un’immagine precisa e plastica di questa impasse. Per questo motivo Foucault aveva espresso delle parziali riserve nei confronti della psicoanalisi, che, introducendo il primato del desiderio del soggetto, viene stigmatizzata come una nuova forma di confessione, un nuovo processo di assoggettamento. Questa problematica viene adombrata nell’accusa che Traverso rivolge a Didi-Huberman di fare un’operazione di estetizzazione della politica, di cui l’uso dell’immagine di Caron sarebbe un evidente segnale.

Da qualsiasi lato ci sentiamo attratti, quello della rivoluzione artistica o l’altro della rivoluzione scientifica, non possiamo però non rilevare che l’immagine si trova al centro della questione e che, se vogliamo stare al passo con le trasformazioni impetuose della contemporaneità, dobbiamo tenere presente che il potere è di chi ha il potere sull’immagine e di certo questi non è né il filosofo né lo storico. Il loro non può essere altro che un discorso critico su questo potere, un discorso però che a tratti sembrerebbe voler sconfinare, come nel caso di questi articoli, nella militanza, che vorrebbe sottrarsi all’inazione della critica per passare all’azione della prassi. Senza dubbio su questo versante Traverso si trova in svantaggio, poiché una mostra come quella al Jeu de Paume è senza dubbio inutile, se misurata con un fine rivoluzionario, ma non per questo meno necessaria per quell’azione sempre ambivalente che porta il nome di cultura.

Alessandro Di Grazia

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Immagini e storia culturale

Gentile Enzo Traverso,

Perché rilanciare ancora? A cosa ci porta? Piuttosto che risponderti per esteso direttamente[*] – il che, secondo Lacan, porta solo a produrre ignoranza, sempre più ignoranza, e che mi fa ricordare il cortile della mia infanzia dove abbiamo sentito molto spesso la formula cécuikidikilè, “è lui che dice chi è” – suggerirei di interrompere, anche temporaneamente, questo scambio polemico. La forma che sta assumendo potrebbe portare ognuno alla frustrazione o addirittura alla rabbia per non essere compreso dall’altro, semplicemente a non voler ascoltare l’altro, infrangendo così ogni etica del dialogo.

Dirò quindi solo poche parole a titolo di riassunto sulla tua posizione, poi sulla mia. Partendo da un’immagine che consideri “di destra” – perché mostrerebbe i manifestanti in protesta durante le rivolte di Londonderry nel 1969 – inserita nel montaggio della mia mostra Soulèvements, hai stabilito la seguente successione che, nella tua ultima lettera, viene resa in questi termini: una “iconologia depoliticizzata” guidata da un “sensualismo che postula un primato dell’emotivo sul razionale”; una “feticizzazione del gesto” a scapito dell’orientamento politico degli atti rappresentati; una “guerra al contenuto” prendendo Freud, Warburg e Derrida come strumenti teorici; un uso dell’anacronismo che “strappa immagini alla storia” e continua in un “rifiuto puro e semplice” della storicità stessa; tutto ciò dando vita ad un atteggiamento di “elitarismo estetico” che si giustifica con l’alibi di una “critica del positivismo”, mentre questa non è altro, ai tuoi occhi, che un semplice disprezzo per i fatti, per la realtà, e quindi per la politica in quanto tale. Tutto questo manifestando, alla fine, solo «l’oziare di chi ama perdersi»… Non è forse vero che una «sinistra erratica» si traduce solo nei «giorni luminosi che l’ordine dominante [ha] davanti a sé»?

 

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Ogni termine di questa sfilza di affermazioni contiene un errore o costruisce un’ingiustizia dovuta, probabilmente, all’economia discorsiva di un’esaltazione, come quando si inaspriscono i contrasti di una fotografia fino a ottenere solo blocchi neri contro blocchi bianchi… fino a eliminare del tutto la visibilità. E se il pensiero, anche politico, anche radicale, funzionasse attraverso sfumature? E se mostrare un gran numero di gesti differenti non consistesse nel “feticizzarli”, fermo restando che feticista è colui che si fissa sulla stessa immagine, sullo stesso scenario, senza riuscire mai ad uscirne?

In che modo la critica al contenuto univoco propugnata dall’iconografia classica sarebbe una “guerra contro il contenuto”, il suo sforzo per annientarlo? Non è piuttosto il suo tentativo di moltiplicazione attraverso il principio, enunciato da Freud, di “sovradeterminazione”? Se mette in discussione qualcosa, non è forse l’idea semplificatoria secondo cui un’immagine avrebbe un contenuto, costituendo come tale una fonte per lo storico? Non dovremmo tener conto, inoltre, che una fonte semplicemente non esiste? Non è evidente che un fiume – o un fatto storico, o un’immagine, o anche il minimo gesto – non ha una, ma diverse sorgenti, a volte anche innumerevoli? Fu la primissima lezione epistemologica di Aby Warburg a dimostrare, già nel 1893, che le “fonti” o “influenze” storiche non erano processi meccanici o assiomatici, ma più imprevedibili, molteplici e paradossali “dinamiche dei fluidi”.[1]

 

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Usando un’altra metafora, questa volta di Walter Benjamin, direi che le immagini, come le idee, non sono “fatti” in senso stretto: piuttosto costellazioni. Non che siano “irreali” o semplicemente fantasiosi. Ma il loro rapporto con il reale della storia passa attraverso questa condizione essenziale che non c’è mai un’unica immagine ma molteplici immagini che, qui si allontanano e, là, si uniscono a formare configurazioni[2]. Ecco perché la nozione di montaggio appare cruciale e più rilevante di qualsiasi fissazione su una singola immagine, un singolo contenuto, un singolo fatto. Così, nel libro di Ernst Jünger Die veränderte Welt, le immagini di bambini e lavoratori sovietici come il ritratto di Gandhi erano effettivamente «immagini reazionarie» in virtù del montaggio in cui apparivano, e ciò nonostante il loro contenuto esplicito.[3] Viceversa, i ritratti di Hitler, Göring o Goebbels nel Kriegsfibel di Bertolt Brecht sono autentiche “immagini critiche” nel contesto delle costellazioni che formano con le altre immagini della collezione.[4]

In virtù di questo principio – che a sua volta ha molte fonti: la psicoanalisi, il formalismo russo, l’antropologia strutturale… – la questione se un’immagine sia o meno di sinistra ha preso, sotto la mia penna, una piega ironica che non so se hai colto. Quello che è certo, invece, è che un’antropologia — o una storia culturale — delle immagini non può fermarsi alla semplice opposizione che fai, stando a Kracauer, tra “registrazione della realtà” e sua “trasfigurazione”, non più di quanto un approccio alle soggettività può fermarsi alla semplice opposizione tra “razionale” ed “emozionale”.

Tu diagnostichi, nella mia sensibilità alle “differenze” – alle “disseminazioni” (per parlare come Derrida), alle “molteplicità” (per parlare come Deleuze e Guattari) o alle “soggettivazioni” (per parlare come Foucault) – un sintomo di questo tendenza postmoderna secondo la quale non c’è bisogno di «delucidare i fatti» per la buona ragione che sarebbero solo «finzioni» del discorso storico. Nel grande dibattito storiografico degli anni ’70, mi collochi dunque dalla parte di Hayden White o di Jean-François Lyotard, mentre io ho avuto più volte occasione di sostenere tutto il contrario, in accordo con le posizioni di Pierre Vidal-Naquet o Carlo Ginzburg[5] (i miei disaccordi con lui provengono da altre questioni teoriche).

 

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Senza dubbio abbiamo una diversa percezione della situazione epistemologica contemporanea. Tu consideri la “critica del positivismo” come un mero disprezzo – che chiami “adorniano” – per la «delucidazione dei fatti». Il che porterebbe, a proposito della questione dell’arte, a questo «elitarismo estetico» di cui conseguentemente mi accusi (e non aggiungo altro sul «posto decorativo» che si suppone venga assegnato alle donne in Soulèvements, commento offensivo e di seconda mano, che è assimilabile ai rumors). Ritieni quindi che la «critica del positivismo» non abbia luogo, costituendo solo una delle nefaste “cliniche della svolta linguistica”.

Ho una sensazione molto diversa. Noto che i “nuovi volti del fascismo” – di cui hai parlato molto bene altrove[6] – ci riportano al disperato monito di Husserl che nel 1936, nella sua Crisi delle scienze europee, sostiene che il tenore principale della crisi, ai suoi occhi, fu la «riduzione positivistica dell’idea di scienza a semplice scienza dei fatti».[7] Nessuno degli autori a cui ho fatto riferimento – e Adorno potrebbe facilmente unirli – ha rinunciato allo sforzo di delucidazione, come tu lasci intendere. Semplicemente, di fronte a una realtà storica o culturale non riducibile a “semplici fatti”, hanno dovuto ripensare cosa voglia dire delucidazione, in una presunta rottura con lo storicismo e la tradizione positivista. La loro posizione era dialettica: l’Aufklärung, d’accordo, ma a condizione di non temere le zone d’ombra, gli abissi, le cose represse, tutto ciò che Warburg chiamava i monstra della cultura umana. Non sarà perché il mondo oggi è globalmente ridotto da alcuni a semplici fatti che altri – come un rovescio della stessa medaglia – riducono il reale a semplice fake?

 

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Ecco perché le “immagini di pensiero” esigevano questa nuova pratica antipositivista della «leggibilità» (Lesbarkeit), progetto che Benjamin, a rischio di essere frainteso dai suoi contemporanei – e accusato di elitarismo -, sviluppò lungo tutta la sua opera. Non ho nulla contro l’arte di Diego Rivera né contro la pedagogia delle immagini, che ho potuto ammirare e analizzare in Bertolt Brecht o in Harun Farocki[8]; ma in realtà sono scettico sul tuo stesso didatticismo e sulla tua richiesta che ogni allegoria sia “leggibile” in senso positivo (e non in senso benjaminiano, che introduce le nozioni di negatività, ambiguità e inconscio: un errore, diresti senza dubbio). Non ci voleva un poeta surrealista, André Breton, per raccontare il discorso di Jean Jaurès al Pré-Saint-Gervais nel 1903, non dal punto di vista di una manifestazione in cui “di fatto” comunisti e anarchici si affiancavano, ma da quello di una molto immaginaria “bandiera alternativamente rossa e nera”[9]?

Quando chiami la mia posizione «elitarismo estetico», simile all’atteggiamento di Adorno e ai suoi «gusti aristocratici» in materia musicale, stai solo ripetendo l’antifona militante dell’illeggibilità delle avanguardie una volta qualificata – nel rifiuto, da parte di Georg Lukács o molti altri, di Freud, Proust, Joyce, dei dadaisti, degli espressionisti, di Beckett, ecc. – come opere unilateralmente “borghesi”. A questo Ernst Bloch, come Walter Benjamin, aveva opposto molta più sottigliezza, più sfumature, che non significano elitarismo. Si capisce allora che la «condivisione del sensibile», di cui parlava Jacques Rancière, dispiega il suo autentico tenore politico su un piano diverso da quello delle linee delle fratture concettuali o ideali, di parte o ideologiche.

Castighi la «sinistra errante» e pensi, di conseguenza, che non ci sia speranza politica se non secondo quello che chiami un «ancoraggio assiomatico». Tuttavia, le immagini, le poesie, le pratiche culturali in generale derivano da approcci euristici molto più che da deduzioni assiomatiche. Fu Ernst Bloch, appunto, che all’indomani della «rivoluzione tradita» del 1918 a Berlino, tentò magistralmente di ripensare la nozione di speranza… dedicando la parte centrale del suo Esprit de l’utopie alla funzione «visionaria» della musica, di cui ho cercato di sviluppare la posta in gioco, da un lato in termini di storia filosofica e artistica della Germania antinazista[10], dall’altro in termini di musica «popolare» che mi sta a cuore da molto tempo, come il canto jondo gitano-andaluso.[11]

 

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Preso atto del fatto che hai tenuto a ricordare, nella tua ultima lettera, gran parte del tuo lavoro storico, non mi resta che augurare questo: che i nostri lettori allarghino i propri punti di vista, non fermandosi più alla nostra polemica duelle, ma facendo dibattere e, forse, dialogare in modo più fecondo, le nostre rispettive opere.

* Il testo in francese recita “duelle” un intraducibile gioco di parole. Il francese infatti con “duelle” indica tanto “duale” quanto “duello” [NdT].

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Risposta finale di Enzo Traverso

Caro Georges Didi-Huberman,

Condivido la tua opinione, questo scambio prende una piega polemica che lo rende sterile. Mi rincresce. Sei tu che l’hai iniziato e sei tu che hai rilanciato la posta; io mi sono limitato a rispondere punto per punto alle tue argomentazioni. Qui siamo. Auspico anch’io «che i nostri lettori allarghino i propri punti di vista, non più fermandosi alla nostra polemica “duale”, ma facendo dibattere e, forse, dialogare più fruttuosamente le nostre rispettive opere». Lascio loro anche il tempo libero di giudicare “«errori» ed «ingiustizie», diciamo piuttosto insulti, contenuti nei tuoi testi, di cui qui non reciterò il “rosario”. Mi limito a segnalare l’ennesimo fraintendimento, contenuto nella tua ultima lettera: non ho mai qualificato la foto di Gilles Caron, al centro di questa polemica, come un’immagine di “destra”, perché non è stata realizzata con lo scopo di trasmettere idee di “destra”. Ho solo scritto che l’immagine di un pogrom non aveva posto in una mostra intitolata Soulèvements e dedicata, secondo le tue parole, a «dare forma ai nostri desideri di emancipazione». Continuo a pensare che l’inclusione di questa immagine sia stata un errore. Tutti possono sbagliare; l’avevo detto nelle due righe di Révolution, une histoire culturelle che ti hanno infastidito tanto. Hai reagito inizialmente con una negazione della realtà, rifiutando di ammettere che l’immagine mostra una rivolta che protesta contro un quartiere cattolico di Londonderry, e ricordandomi compiaciuto che, prima di criticare, bisogna «saper guardare». Siccome le tue argomentazioni non mi hanno convinto, mi hai definito un «analfabeta dell’immagine». Alla fine hai dovuto riconoscere che questa foto poteva benissimo mostrare dei pogromisti protestanti, ma che comunque aveva il suo posto nella tua mostra, poiché il suo significato non dipendeva da ciò che dice, ma piuttosto da ciò che vuoi che dica. Una fonte, spieghi, «che semplicemente non esiste»: questa immagine esisterebbe solo in una “costellazione” e il suo significato deriverebbe solo dal tuo “montaggio”. Potresti aver criticato Hayden White, ma stai solo riaffermando il suo postulato che non ci sarebbe differenza tra realtà e finzione, perché il significato di questa immagine non avrebbe più alcuna relazione con la sua realtà. Non è questo che avevo imparato leggendo Immagini nonostante tutto, e penso che nessuno storico degno di questo nome potrebbe seguirti su questa strada. Per questo il nostro dibattito sta diventando un dialogo tra sordi. Puoi sempre rispondere a ciascuna mia osservazione tirando fuori dal cilindro una citazione di Warburg, Benjamin, Arendt, Eisenstein, o anche Freud, Derrida, Deleuze e Guattari, in una logomachia inesauribile tanto abbondante sul piano testuale quanto vuoto su quello dell’ermeneutica. Hai ragione, è meglio interrompere la polemica.

 

Note

[1] Cf. G. Didi-Huberman, Ninfa fluida. Essai sur le drapé-désir, Paris, Gallimard, 2015, p. 7-26.

[2] Id., Atlas ou le gai savoir inquiet. L’œil de l’histoire, 3, Paris, Les Éditions de Minuit, 2011. Id., Cuando las imágenes tocan lo real, trad. I. Bértolo, Madrid, Círculo de Bellas Artes, 2013 (avec Clément Chéroux et Javier Arnaldo).

[3] E. Jünger et E. Schultz, Die veränderte Welt. Eine Bilderfibel unserer Zeit, Breslau, Wilhelm G. Korn Verlag, 1933, p. 36, 153 et 168.

[4] B. Brecht, Kriegsfibel, Berlin, Eulenspiegel, 1955, pl. 1, 23 et 25-26.

[5] Cf. G. Didi-Huberman, Images malgré tout, Paris, Les Éditions de Minuit, 2003, p. 129-130.

[6] Cf. E. Traverso, Les Nouveaux Visages du fascisme. Conversation avec Régis Meyran, Paris, Textuel, 2017.

[7] E. Husserl, La Crise des sciences européennes et la phénoménologie transcendantale (1936), trad. G. Granel, Paris, Gallimard, 1976 (éd. 1989), p. 9-11.

[8] Cf. G. Didi-Huberman, Quand les images prennent position. L’œil de l’histoire, 1, Paris, Les Éditions de Minuit, 2009. Id., Remontages du temps subi. L’œil de l’histoire, 2, Paris, Les Éditions de Minuit, 2010.

[9] Id., Désirer désobéir. Ce qui nous soulève, 1, Paris, Les Éditions de Minuit, 2019, p. 263-280.

[10] Id., Imaginer recommencer. Ce qui nous soulève, 2, Paris, Les Éditions de Minuit, 2021.

[11] Id., « Idas y vueltas, ou la politique du vagabondage », Les Cahiers du Musée national d’art moderne, n° 154, hiver 2020-2021, p. 3-49.