Il kibbutz Be’eri è uno dei più antichi d’Israele. Almeno un centinaio dei suoi abitanti sono stati assassinati lì venerdì e sabato 7 e 8 ottobre 2023 da membri di Hamas, dopo aver sfondato facilmente la barriera di sicurezza a soli 5 chilometri di distanza. Altri furono presi come ostaggi. Tra queste vittime vi è la stragrande maggioranza di attivisti, pacifisti, anarchici, ecologisti, oppositori dell’occupazione dei Territori palestinesi e semplicemente attivisti impegnati nella critica interna allo Stato di Israele e alla sua inclinazione illiberale. A pochi chilometri da Be’eri, ormai devastata, si è tenuto il rave party per la pace. Comprendeva più di mille giovani (di cui duecentocinquanta assassinati), che si erano riuniti come parte di una manifestazione libertaria e hippie, essa stessa rappresentativa di un segmento significativo della gioventù israeliana e una sorta di esempio di zone di autonomia temporanea [ 1]. Si tratta quindi di voci di democrazia che sono state spente per sola volontà di Hamas o delle sue truppe, essendo sorte in mezzo a spazi geograficamente vicini a Gaza, ma generalmente fuori portata.
Lo credevamo impossibile, ma si tratta tuttavia di una simmetria che deve essere raggiunta dall’analizzando: tra, da un lato, forme di vita libertarie, o sostenute da comunità alternative, e, dall’altro, un esercito politico, ora militare, agire per crudeltà.
Vite estranee tra loro: kibbutz vs. lotta armata
Ciò che rende possibile questa simmetrizzazione, ma imperfetta, è proprio l’aspirazione all’emancipazione e alla libertà portata avanti dai kibbutz da un lato, contro il progetto mortale portato avanti da un’organizzazione guerriera, dall’altro. Da un lato, quindi, il kibbutz che esprime un’esperienza di vita in comune [2]a cui poche forme democratiche possono pretendere. Il movimento israeliano dei kibbutz, fiorito tra il 1950 e il 2000, parallelamente al periodo di punta del socialismo di stato in Israele, si avvale di riferimenti mobilitati da attivisti anarchici, alternativi e globali. Queste esperienze comunitariste sono spesso ignorate e denigrate dalla critica sociale, al punto che hanno messo radici in parte in Israele, considerato dai primi come la terra dell’occupazione, dell’imperialismo, della colonizzazione se non “dell’apartheid”. Questo angolo ottuso ci impedisce di vedere il lato collettivo o addirittura autonomo dei kibbutz, che si distaccano da ogni nazionalismo, da ogni autoritarismo e sono tradizionalmente contrari alla forma statale. Certamente, fin dalla loro creazione, i kibbutz hanno svolto la funzione di barriera a protezione dei confini nazionali (come dimostra l’ubicazione di Be’eri, a 5 chilometri dal muro di separazione con Gaza) e sono più o meno sorvegliati dall’esercito. Ma a parte la protezione militare, si caratterizzano per il loro carattere antinazionalista e collettivista, pacifista, egualitario e unitario.
Perché la logica del modello kibbutz, almeno nella sua forma originaria, è quella di tendere all’autogestione integrale e alla democrazia diretta per tutte le decisioni. Esse riguardano tutti gli ambiti della vita e richiamano il comunismo quotidiano [3] . L’aiuto reciproco, la solidarietà (con i palestinesi interni quando esistono i quartieri), l’uguaglianza dei membri, l’assenza di proprietà, il particolare modello educativo (con socializzazione non familiare, destinato a far riferimento alle strutture mentali legate al nucleo familiare, almeno fino agli anni 2000) ad un ideale di emancipazione collettiva e individuale, che fu sostenuto dal pensiero libertario o rivoluzionario europeo [4] .
In una parola, queste forme di vita rendono visibile non un sionismo e un socialismo di stato, ma un associazionismo, indipendentemente da ogni determinazione esogena. I kibbutz instaurano un quadro di socializzazione fraterna a misura di ciascuno e fondato su istituzioni di vita comune, come testimonia l’importanza dello spazio refettorio, dove gran parte degli abitanti di Be’eri sarebbero stati massacrati.
In un momento di crisi democratica che attanaglia Israele dal 2020, queste forme comunitariste persistono nonostante il liberalismo economico e il conservatorismo ambientale. Ricordiamolo, quest’ultimo si esprime attraverso il pietismo di una parte della popolazione ebraica israeliana o attraverso la dedemocratizzazione delle istituzioni governative israeliane, in mano, dal 2022, a una coalizione di destra e religiosa, suprematista e talvolta razzista.
Hamas, movimento armato e religioso, pretende di incarnare la lotta per l’emancipazione nazionale palestinese, in un senso completamente diverso. Il nazionalismo dei palestinesi, spartiti nei rispettivi territori (Israele, Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza), non è mai venuto meno.
E come sappiamo, è difficile ignorare la crescente ostilità e risentimento dei palestinesi nei confronti di Israele, che deriva da una situazione oggettiva: il confinamento a Gaza e l’occupazione in Cisgiordania.
Tuttavia, durante i due o tre decenni dell’Intifada (1967-2000), l’emancipazione del popolo palestinese è stata proiettata nei volti di leader nazionalisti e politici come Yasser Arafat o Marwan Barghouti (ex capo del braccio armato di Fatah e imprigionato in Israele per terrorismo). Soprattutto, forme di espressione di resistenza e di immaginazione politica erano visibili in pratiche piuttosto emancipate: come il femminismo e l’educazione popolare, l’arte, portata avanti da comitati di resistenza popolare non religiosi.
Questa immaginazione politica di resistenza è oggi ridotta a un nichilismo mortale. Perché Hamas, con i suoi numerosi combattenti, ha anticipato la lotta di liberazione nazionale, trasformandola in una macchina da guerra. Hamas non ha la forza militare di Israele, ma è vicina ad un’organizzazione di massa, strategica ed attrezzata. Non prende più di mira la liberazione nazionale palestinese e la promessa politica di almeno una democrazia aperta. Distillava vendetta, disumanizzazione, disprezzo per la libertà. L’attacco del 7 ottobre rivela la mutazione della sua psiche, che mira a distruggere non l’apparato statalista “sionista” ma la sua popolazione ebraica.
Due conflitti escatologici
Il rapporto con il tempo è un’altra caratteristica ontologica che separa due concezioni: da un lato i fondamenti della vita nel kibbutz e dall’altro il nazionalismo palestinese armato. La forma del kibbutz riunisce l’immaginario (il progetto politico di una comunità emancipata) e il concreto (il rispetto della terra e del lavoro manuale, agricolo, la vita sul posto). La sperimentazione politica in loco si accompagna a una dimensione escatologica nella misura in cui i kibbutz sono parte di un percorso storico specifico, segnato dal trauma delle minoranze ebraiche sfollate ed esiliate. Insomma, queste esperienze collettive e integrali rappresentano piccoli regni quaggiù, sia come compimento di una promessa di emancipazione e redenzione fuori dal tempo della distruzione, sia come rifugio nello spazio-tempo del presente, sia attraverso un’esperienza radicalmente diversa di socialità.
Il rapporto dei “combattenti” di Hamas con i tempi è di natura completamente diversa. Il risentimento dei palestinesi e l’odio verso Israele, così come verso Hamas, sono il frutto di una ferita identitaria associata alla “Nakbah” che riflette la perdita della radice palestinese della patria, in seguito alla creazione dello Stato di Israele. Il tempo palestinese è quello del sumud: un lungo tempo di nostalgia che si cristallizza sulla patria perduta nel 1948, celebrato dai poeti palestinesi e che sboccia nella memoria. Questo tempo di nostalgia ci impone di proiettarci in un progetto temporale che è la fuga in avanti, lontano dalla realtà negativa che Israele rappresenta.
Per la “resistenza” di Hamas e di alcuni dei suoi sostenitori, lo Stato di Israele non può pretendere di essere una radice, e rimane una parentesi o un’appendice e un corpo estraneo alla Palestina. L’escatologia e il progetto di liberazione con le armi sono qui il segno di un rifiuto del quaggiù e si nutrono di una socializzazione più o meno lenta del risentimento. Questa tensione nichilista, così come si è espressa attraverso il massacro del 7 ottobre 2023, è destinata a minare lo spazio-tempo reale della società israeliana e le sue manifestazioni esistenziali, siano esse spirituali, libertarie, alternative o altre.
La società israeliana, che punta sulla propria sopravvivenza, sulla crisi del proprio regime politico, sta pagando il prezzo del suo presentismo e della sua agitazione, che le hanno fatto dimenticare il contesto in cui si trova. L’attacco di Hamas vuole infatti estinguere la democrazia, ridurla a nulla, uccidendo coloro che si battono perché non sia nelle mani dei religiosi, dei suprematisti kahanisti, che vogliono regnare sulla politica e sugli affari in Israele dividendo la società. Ma, nonostante questa catastrofe interna, Hamas non è vicina a vincere la lotta per l’emancipazione del popolo che intende rappresentare, né a far trionfare la narrazione della sua concezione del mondo.
Note
[1] Vedi Hakim Bey.
[2] Cfr. Sylvaine Bulle: “Lo zad, il kibbutz: esperimenti esistenziali”, Revue du Mauss , 2/2023; James Horrox, Il movimento dei kibbutz e l’anarchia: una rivoluzione vivente , Éditions de l’Éclat, 2018.
[3] Vedi David Graeber, “I fondamenti morali delle relazioni economiche. Un approccio maussiano”, Revue du MAUSS , vol. 36, n. 2, 2010, pag. 51-70.
[4] Michael Löwy, L’ebraismo libertario nell’Europa centrale. Uno studio di affinità elettiva , PUF, 1988; Sylvaine Bulle, “L’anarchismo ebraico e le sue risorgive ecologiche”, Revue K , 2022 https://k-larevue.com/author/sylvainebulle/
_____________________
Sylvaine Bulle è una sociologa, specialista in conflitti politici e ambientali in Francia e Israele. Professore di Sociologia (ENSA de Paris-Diderot) e attualmente ospitato dal CNRS presso il Centro di Ricerca Francese a Gerusalemme. Il suo lavoro si concentra principalmente sulla sociologia del conflitto e della violenza politica basata sul caso israelo-palestinese e più recentemente sull’autonomia politica e sulle proteste radicali.