Cento anni dopo, i curdi sono sull’orlo della sopravvivenza

 

Il 29 ottobre 2023 la Repubblica di Turchia festeggia il suo centenario. Per i curdi è anche il centenario del Trattato di Losanna, che divideva il territorio del “Kurdistan storico” tra Turchia, Iraq e Iran.

Eccolo: il 29 ottobre è il centenario della fondazione della Repubblica di Turchia. Commemorazioni, convegni, celebrazioni, trasmissioni radiofoniche e televisive, film documentari, podcast, numeri speciali di riviste e libri sono già nati o sono in preparazione in molti ambiti.

Credo che possiamo dividere le discussioni attorno a questo anniversario in due categorie principali. Da un lato l’approccio apologetico, quello del “romanzo nazionale”, che considera la Repubblica (sempre con l’attributo “turco”) come la conquista più grande, più progressista e più trionfante della nazione turca. Dall’altro, un insieme di approcci e storie che possono essere descritte come “subalterne”, “minoritarie” e critiche. Considerano la Repubblica di Turchia soprattutto come un regime oppressivo, a vantaggio dei turchi, degli uomini e dei musulmani sunniti, a scapito delle altre identità (etniche, religiose, sessuali).

Secondo questa prospettiva, la Repubblica turca si inserisce nella continuità di un tropismo di dominio secolare e ha prodotto innumerevoli vittime, e va “democratizzata” a tutti i livelli, se non addirittura riformata e ricostruita ex-novo.[1 ] . Mentre il primo gruppo celebra ed esalta tutto ciò che è stato realizzato nel corso del secolo “grazie” alla Repubblica, il secondo si inserisce in un regime discorsivo che altrove ho definito “vittima-memoriale”, nel senso di Johann Michel [2 ] , sottolineando le tragedie umane, politiche ed etniche avvenute in suo nome e “a causa” di lei.

L’approccio apologetico è esso stesso diviso in due orientamenti memoriali. Si sottolinea la rottura inaugurale costituita dalla creazione della Repubblica, espressione della modernità e laicità turca e basata sulla cittadinanza, rottura con l’Impero Ottomano e l’autocrazia. L’altro, incarnato dai sostenitori di Erdogan, dell’AKP e della sintesi turco-islamica, insiste sulla continuità tra i periodi gloriosi dell’Impero e della Repubblica. Questo secondo approccio, conservatore, legato all’Islam, ma anche militarista e bellicoso, è su questo punto, non senza ironia, in fase almeno su un punto con le narrazioni critiche per le quali la Repubblica costituisce solo la veste di “un governo autoritario e turco” stato-nazione suprematista.

Sottolineiamo che uno scisma divide la classe politico-intellettuale e le élite dominanti della Turchia: gli eredi del kemalismo storico considerano la presa del potere della “cricca dell’AKP” come una sorta di colpo di stato contro la Repubblica, e parlano di una necessaria “restaurazione repubblicana” (che implica un ritorno alla governamentalità prima del 2002).

Da parte loro, criticano il kemalismo per una “distorsione” occidentalista dell’identità turca e castigano il centralismo “giacobino” dei kemalisti. Tra questi due poli il movimento politico curdo si trova un po’ come tra la peste e il colera. Con lievi sfumature, e poco meno dell’estrema destra del paese – che in fondo si limita ad assumere queste posizioni e a spingerle alle estreme conseguenze – i sostenitori dell’una o dell’altra di queste tendenze politiche e visioni della storia si uniscono nell’esaltazione della turchità, e l’anticurdismo che ne deriva e una pratica del potere tanto autoritaria quanto escludente.

Per venire direttamente alla domanda che ci preoccupa: che dire della “questione curda” nel contesto di questo centenario? La “questione repubblicana” e la “questione curda” sono ovviamente strettamente legate fin dall’inizio e sono al centro dell’agenda del centenario. Da notare che per i curdi questo centenario ha una duplice valenza: la Repubblica celebra il suo centenario ma anche il Trattato di Losanna, entrambi commemorati dai partiti politici curdi e dalla società civile attraverso numerosi eventi importanti.

Tutta la retorica sulla questione curda è stata accompagnata da discorsi instillati dai vertici dello Stato e trasmessi in massa all’intera società.

Su iniziativa dell’HDP, il Partito Democratico Popolare, si sono svolte in tutta la Turchia diverse conferenze sotto il titolo “Repubblica Democratica”. Il Congresso nazionale del Kurdistan (KNK, con sede a Bruxelles) con circa 600 delegati di diversi gruppi etnici (accademici, avvocati, intellettuali, religiosi), si è riunito a Losanna per due giorni in occasione dell’anniversario della firma del trattato. Allo stesso tempo, uno striscione bilingue (turco e curdo) con la scritta: “Noi curdi non riconosciamo il Trattato di Losanna ” ha coronato il grande raduno tenutosi a Diyarbakır. Il comunicato successivamente diffuso denunciava “un secolo di negazioni e atrocità contro il popolo curdo”.

Come nell’invito alle conferenze dell’HDP, i partecipanti a questi eventi commemorativi sostengono l’idea che: “La questione curda irrisolta è all’origine di tutti i problemi [in Turchia], e rappresenta uno dei maggiori ostacoli all’incontro della Repubblica con democrazia.

Per tentare una sintesi della questione non possiamo che abbreviare una breve retrospettiva storica.

All’indomani della Grande Guerra, gran parte dei curdi preferì sostenere la creazione di uno stato turco-curdo piuttosto che aderire ad un nascente movimento indipendentista curdo. La posizione delle élite curde al tempo della Guerra d’Indipendenza si spiega in gran parte con la situazione e con il pensiero dominante alla fine dell’era ottomana: i curdi (almeno i sunniti, la maggioranza in Turchia, perché in Turchia in modo diverso dai curdi aleviti e yezidi) si consideravano parte della maggioranza musulmana, dominante e privilegiata sotto l’Impero a scapito dei non musulmani.

La propaganda kemalista riuscì così senza difficoltà a mobilitare i notabili curdi (shaykh, capi tribù, agha, bey, ecc.). La loro motivazione era duplice: difendere il Califfato dalle forze di occupazione cristiane e impedire che il Kurdistan diventasse un’Armenia (ricordiamo che armeni, siriaci, caldei e nestoriani rappresentavano prima del 1915 quasi un terzo della popolazione del Kurdistan ottomano. I Trattati di Sèvres di 1920, pur promettendo ai curdi la sovranità nazionale, prevedeva anche la creazione di un’Armenia indipendente). Il timore di una dominazione cristiana appoggiata dalle potenze occidentali, di rappresaglie per i crimini del 1915 e di dover restituire le terre e le proprietà agli armeni, hanno infatti spinto la maggioranza curda verso l’alleanza kemalista[3], in logica continuità con il loro sostegno agli unionisti durante il genocidio armeno.

Tuttavia, il discorso avanzato sulla fratellanza musulmana turco-curda non è sopravvissuto all’abolizione del Califfato islamico da parte di Mustafa Kemal nel 1924.

Il giovane regime kemalista, vittorioso a Losanna, con un nuovo Stato-nazione e linee di confine che dividono in tre il Kurdistan ottomano (Turchia kemalista, Iraq sotto mandato britannico e Siria sotto mandato francese) si orienta rapidamente verso un virulento nazionalismo turco, e questo fin dall’inizio estate del 1923. Appena fondata la Repubblica i curdi si videro esclusi dalla rappresentanza politica: nella seconda Grande Assemblea Nazionale Costituente vi fu un solo deputato curdo su 337 iscritti, contro i 72 di quella dell’aprile 1920. L’abolizione del Califfato, simbolo dell’unità della Umma che consumò la vera rottura, completando cosi la finzione del partenariato curdo-turco e ogni idea di uguaglianza tra i “fratelli fondatori” della Repubblica.

Pertanto, gran parte delle élite curde hanno scelto la ribellione contro lo Stato. Durante la cosiddetta rivolta di Shaykh Said nel 1925, gli shaykh presero l’iniziativa principalmente in reazione all’abolizione del Califfato, i nazionalisti sulla base della negazione dei curdi, mentre altri, dietro questi discorsi, cercarono principalmente di limitare la perdita di potere e di prestigio sociale implicata per loro dalla costruzione del nuovo regime sul modello di uno stato-nazione moderno e centralizzato.

Tuttavia, l’unanimità filo-kemalista e anti-cristiana degli anni precedenti è in frantumi, e inaugura una delle linee di divisione intra-curda più profonde e durature: a favore o contro la Repubblica. Questa divisione fondamentale divenne evidente nel corso del secolo: “a favore o contro lo Stato turco”. [4]

Come sappiamo, la rivolta di Shaykh Saïd (in una storiografia curda che ama da tempo omettere quella di Koçgiri del 1921, su base sociologica prevalentemente alevita) inaugurò nel 1925 un periodo di sanguinosa repressione statale e di massiccia violenza nelle regioni orientali. Modalità di amministrazione propriamente coloniali, previste già nel 1925 nel “Piano di riforma orientale” (Sark Islahat Planı), si concretizzarono attraverso campagne di disarmo, operazioni di ingegneria militare e demografica, deportazioni mirate o massicce, e l’istituzione di “eccezionali regimi” in diverse forme che hanno permesso ai funzionari pubblici e ai soldati di attuare legalmente brutali politiche di “assimilazione forzata” e sanguinose rappresaglie.

Quello di Ararat nel 1930 e quello di Dersim nel 1936-1938 sono i più emblematici. Il rapimento e il collocamento dei bambini sopravvissuti ai massacri in famiglie di militari turchi o in collegi per “turchizzarli” [5] sono purtroppo solo una piccola parte delle realtà del passato che segnano la memoria curda.

Così, dopo la “vittoria comune” della Guerra d’Indipendenza, possiamo descrivere il primo quarto di secolo repubblicano, dal 1925 agli anni Cinquanta, come quello, per i curdi, di una lunga “sbornia”.

I tre colpi di stato militari che si susseguirono nei due decenni successivi (1960, 1971 e 1980) ebbero come punto di convergenza, pur nelle loro differenze dal punto di vista della politica “turco-turca”, la sempre crescente criminalizzazione dei curdi, della loro lingua, e le loro richieste di diritti civili, ben prima della rinascita delle aspirazioni e delle organizzazioni curde basate sulla lotta organizzata e poi armata.

È ormai un luogo comune dirlo ma va comunque ricordato: per lo Stato turco la questione curda è stata intesa attraverso una serie di repressioni e “stigma”. Ciò si è tradotto nella pura e semplice negazione della loro esistenza e in una serie di notevoli sforzi per “civilizzarli”, “educarli” o “addestrarli” e renderli autentici cittadini turchi, ma di “seconda classe”.

Tutta la retorica che circonda la questione curda (come, in precedenza, la “questione armena”) è stata accompagnata da discorsi instillati dai vertici dello Stato e trasmessi in massa all’intera società. Questi discorsi hanno legittimato “politiche speciali” attraverso una retorica squalificante sia all’interno del paese che all’esterno, con preferenze lessicali e ideologiche mutevoli a seconda del contesto internazionale di ogni epoca. Così i curdi (e presto gli “abitanti dell’Est” quando fu proibito nominarli) sono colpevoli di “reazionarismo” negli anni ’20, di “banditismo” negli anni ’30, di “arretratezza” negli anni ’20, 1940, di del “comunismo” negli anni ’50, del “sottosviluppo sociale ed economico” negli anni ’60 e ’70, prima che la retorica del “terrorismo” prevalesse in modo duraturo a partire dagli anni ’90.

Sul versante delle narrazioni critiche, sono stati proposti numerosi quadri concettuali, politici e giuridici per qualificare la “gestione” della questione curda da parte della Repubblica di Turchia nel secolo scorso. Genocidio, colonialismo, apartheid, linguicidio, etnocidio, assimilazione forzata… Quelli del movimento di liberazione curdo parlano volentieri di un regime “fascista”.

In ogni caso, quattro elementi strutturanti e ricorrenti caratterizzano, dal mio punto di vista, la politica repubblicana nei confronti dei soggetti non coperti dal “patto con la Turchia”. Violenza etnica deliberata (che va dai massacri alle politiche della terra bruciata, dai pogrom al genocidio), razzismo (strutturale nonostante le sue variazioni: a volte derivante da una concezione più etnicistica, a volte più religiosa dell’identità nazionale), impunità legalizzata che protegge individui e organizzazioni colpevoli di crimini e la violenza commessa in nome della nazione, e infine una feroce negazione di questa violenza.

Pertanto, a partire dal vero evento fondativo della Turchia repubblicana che, ci piaccia o no, costituì il genocidio degli armeni, i successivi governi turchi hanno attuato una politica negazionista offensiva che includeva tutti i crimini di Stato. Questi sono stati legittimati dall’intera classe dirigente turca, nonostante i suoi conflitti interni sulla “vera natura dell’identità nazionale”.

Una gran parte dei curdi oggi è più intrisa della propria identità curda di quanto lo fossero i loro antenati nel secolo scorso.

È interessante notare il voltafaccia totale compiuto dalla Repubblica di Turchia nei confronti dei curdi. Considerati partner essenziali al momento della sua fondazione, in un contesto in cui i kemalisti si vedevano radicati in Anatolia dopo la sconfitta dell’irredentismo pan-turanista dei quadri di Unione e Progresso, sono ora visti senza mezzi termini trattati come un ostacolo da eliminare. Il nuovo irredentismo neo-ottomanista e turco-islamista dell’attuale regime, abitato dalla fantasia di un ritorno all’Impero (che si estenderebbe dalla Siria all’Iraq, dalla Libia all’Azerbaigian) fa dei curdi dallo status di semplice e “domestico” nemico politico a quello dei nemici “geopolitici”. [6]

È così che il militarismo guerrafondaio della Turchia si estende ora ufficialmente, nel silenzio assordante della “comunità internazionale”, ai territori curdi dei paesi vicini (Iraq dagli anni ’90 e Siria dalla guerra civile iniziata nel 2011). Nell’ambito di questa politica, il potere turco ovviamente contribuisce il più possibile a rafforzare i conflitti tra curdi e tra curdi e altre comunità. In particolare sistematizzando la discriminazione – a volte su base etnica, a volte su base confessionale, a volte su base politica, spesso tutte e tre contemporaneamente. Le divisioni intra-curde sono state alimentate e sfruttate, sia all’interno della Turchia che al di fuori dei suoi confini, a beneficio della paramilitarizzazione e della profonda brutalizzazione, sostenuta da varie modalità di cooptazione delle élite curde (così come talvolta dei membri delle categorie sociali più basse).

Ma questa secolare processione di guerre e distruzioni sembra aver portato al risultato opposto a quello atteso: gran parte dei curdi sono oggi più intrisi della propria identità curda di quanto lo fossero i loro antenati nel secolo scorso. Inoltre, conoscere nella propria carne lo “status di minoranza” li ha portati a suggellare alleanze con altre categorie oppresse e stigmatizzate dal regime repubblicano; al punto da ritrovarsi, fin dall’inizio del XX secolo, portavoce del multiculturalismo, del femminismo e perfino, per la parte più progressista, delle “minoranze sessuali” del movimento LGBTIA+. [7] In effetti, e nonostante l’esorbitante costo umano di queste posizioni, la capacità di mobilitazione del movimento filo-curdo, civile e armato, è molto più sviluppata oggi rispetto a un secolo fa.

Nonostante queste osservazioni, possiamo, in conclusione e in apertura, porre grosso modo una questione essenziale e difficile: nel contesto del centenario della Turchia, al termine di quello che un detto popolare curdo considera “un secolo di maledizione” causato dalla complicità di loro antenati nel delitto del 1915 [8] (e che potrebbe sembrare aprire ad un “secondo secolo di maledizione” vista la situazione attuale), fino a che punto la “questione curda” sia ancora una questione di “indipendenza”?
L’aspirazione ad un Kurdistan indipendente e libero resta, e continua a tormentare l’immaginazione di molti membri di questo popolo apolide, che vivono anche nel territorio del “Kurdistan storico” attualmente diviso tra Turchia, Siria, Iraq e Iran, come tra quelli del diaspora, che sono sempre più numerosi. Ma da un lato l’attuale situazione geopolitica (difficilmente più favorevole ai curdi nel 2023 di quanto lo fosse nel 1923, nonostante un innegabile progresso nella conoscenza della loro causa e delle loro lotte nell’opinione pubblica internazionale), insieme alle conclusioni politiche di un secolo di esperienza – e la successiva critica – della forma di governo statale dell’altro, conferisce a questo sogno il carattere di un’utopia o di una chimera.

Pertanto, la ricerca di emancipazione e uguaglianza in Turchia assume più facilmente la forma di rivendicazioni teoricamente applicabili nel quadro dei confini esistenti. Per dirla in altro modo, i curdi vogliono uno status, sì, che garantisca la loro esistenza come popolo, politicamente e giuridicamente. Molti si accontenterebbero di un effettivo riconoscimento costituzionale, di una garanzia di accesso a pari diritti sotto il regime di cittadinanza repubblicana, di un’autonomia parziale, di un diritto all’autodeterminazione e all’autogoverno esercitato a livello locale, anche solo attraverso il rispetto dei risultati elettorali. Per loro ottenere lo status è una questione di sopravvivenza.

In Turchia l’assimilazione e l’integrazione dei curdi è stata di gran lunga più efficace e profonda che nei paesi vicini. La segregazione spaziale e culturale tra curdi e arabi (in Iraq) o persiani (in Iran) contribuisce ad attrare maggiormente i curdi di questi paesi al sogno dell’indipendenza. Non abbiamo dati concreti a sostegno di questa affermazione, ma i risultati del referendum a favore dell’indipendenza del Kurdistan iracheno (votato dal 93%) sono un segnale. Non è detto che un simile referendum ottenga nemmeno il 50% dei voti in Turchia, e questo è uno dei motivi per cui il futuro della Repubblica resta strettamente legato al destino dei curdi.

La resistenza quotidiana dei curdi in questo paese assume un’infinità di forme in una molteplicità di campi, e si concretizza tra l’altro nella lotta del movimento curdo per un’autentica (alcuni aggiungono: “radicale”) democratizzazione della Repubblica, che consentirebbe una convivenza degna di questo nome. Preoccupazione per la Realpolitik o frutto di nuovi valori sviluppati alla fine di un secolo di lotta, questa democratizzazione del regime purtroppo a volte sembra ancora più illusoria della possibilità di un Kurdistan indipendente.

Pertanto, coloro che non si sono mobilitati, preoccupati per la propria sopravvivenza, per interesse o per ideologia, né contro la peste né contro il colera rappresentato dalle mani di ferro autoritarie dello Stato repubblicano turco (“turco-laico” o “turco-secolare” – Musulmano”), oscillano tra queste aspirazioni e si trovano di fronte a un grande dilemma. Da che parte stare in un modo o nell’altro a seconda della mutevole configurazione dei rapporti di potere, ma anche della loro situazione oggettiva o soggettiva nell’economia materiale e morale della società curda, modellata dalle sue molteplici realtà etniche, religiose, di classe, spaziali, generazionali e di genere. Il popolo curdo sperimenta nella sua intima coscienza l’attualità di questo grande dilemma.

Note

[1] Un notevole libro che sarà pubblicato con il titolo La Repubblica e i Curdi (Cumhuriyet ve Kürtler), preparato da un gruppo di giovani accademici curdi e composto da 100 articoli di 100 autori (a cui ho contribuito anche con un articolo), approfondisce nelle diverse fonti e implicazioni di questa posizione, ampiamente condivisa dai curdi in Turchia e nella diaspora. Vedi Cumhuriyet ve Kürtler , (a cura di) di Ayhan Isık, Gülay Kılıçaslan, Behzat Hiroglu, Kübra Sagır e Çagrı Kurt, (Ankara: Dipnot, 2023).

[2] Johann Michel, Governare le memorie – Le politiche della memoria in Francia (Parigi: Presses Universitaires de France – PUF, 2010).

[3] Cfr. Hamit Bozarslan, La questione curda: Stati e minoranze in Medio Oriente (Presses de Sciences Po, 1997).

[4] Cfr. Adnan Çelik, All’ombra dello Stato: curdi contro curdi. Un’antropologia storica dei conflitti intra-curdi nel Kurdistan turco , 1a edizione, Mirror of the Muslim Orient (Brepols Publishers, 2022).

[5] Cfr. Zeynep Türkyılmaz, “Il colonialismo materno e il fardello della donna turca a Dersim: Educare i “fiori di montagna” di Dersim”, Journal of Women’s History 28, n. 3 (2016): 162-86.

[6] Cfr. Mesut Yegen, “Ethnopolitics to geopolitics: the Turkish State and the Kurdish question since 2015”, British Journal of Middle Eastern Studies 50, n° 4 (2023): 943-61.

[7] Cfr. Birgul Kutan e Adnan Çelik, “Prefigurare futuri post-nazionali: il caso del Congresso democratico popolare (HDK)”, Turchia. N. sovvenzione ESRC: ES/R00403X/1. Brighton: Università del Sussex, 2021.

[8] Adnan Çelik e Namık Kemal Dinç, La maledizione – Il genocidio armeno nella memoria dei curdi di Diyarbekir , trad. di Ali Terzioglu e Jacolyne Burkmann (Parigi: Harmattan, 2021).

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Adnan Çelik è antropologo e ricercatore post-dottorato presso l’ISTITUTO PER GLI STUDI AVANZATI DI SCIENZE UMANE (KWI) dell’UNIVERSITÀ DI DUISBURG-ESSEN.

Fonte: aoc.media.fr


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