Israele-Palestina: per una “nuova” Realpolitik

 

Come evitare la trappola di Gaza tesa a Israele da Hamas? Come possiamo preservare la vita dei giovani israeliani oggi mobilitati per difendere militarmente il loro Paese, e quella delle popolazioni palestinesi sottoposte a bombardamenti aerei e presto ad attacchi terrestri con devastazioni inevitabilmente indiscriminate? Immaginando una nuova Realpolitik.

Imassacri di massa perpetrati il ​​7 ottobre sul territorio israeliano da commando terroristici infiltrati sono ovviamente solo la prima fase del piano che i leader di Hamas hanno accuratamente preparato per mesi con l’aiuto dei loro alleati.

Questa è, in breve, la fase di avvio di questo piano. L’obiettivo principale sta proprio in questo: attirare, attraverso questi massacri, l’esercito israeliano nella trappola di Gaza o, per essere più precisi, impedire a questo esercito di non cadere in questa trappola. Una volta entrati, costretti a combattere per le strade, un numero considerevole di soldati israeliani perderà la vita.

Ma l’IDF ucciderà anche un numero ancora maggiore di civili, bambini, donne e anziani: molto rapidamente, l’opinione internazionale, oggi scossa – a vari livelli, è vero – dalle violenze che vengono inflitte agli ebrei, vedrà solo la violenza commessa dagli ebrei. L’antisionismo e l’antisemitismo cresceranno, mettendo in pericolo gli ebrei di tutto il mondo. Le parole “genocidio di un popolo” e “Israele” saranno ancora una volta unite, ma in un nuovo montaggio, in cui Israele non sarà più paragonato alle vittime della Shoah ma ai nazisti che l’hanno perpetrata. E gli stessi cittadini israeliani – almeno quelli che hanno un alto senso del valore spirituale della loro cittadinanza – saranno sopraffatti dalla vergogna e dal senso di colpa, e diventeranno incapaci di provare l’orgoglio che una volta provavano per il loro Stato.

Come evitare questa trappola? Come possiamo preservare la vita dei giovani israeliani oggi mobilitati per difendere militarmente il loro Paese, e quella delle popolazioni palestinesi sottoposte a bombardamenti aerei e presto ad attacchi terrestri con devastazioni inevitabilmente indiscriminate? Come inoltre, nei confronti di Israele, non danneggiare la sua immagine internazionale e non compromettere la sicurezza degli ebrei nel mondo nonché l’autostima dei cittadini israeliani? Per molti aspetti è senza dubbio troppo tardi per evitarlo: la trappola si è già chiusa. Eppure, nulla ci impedisce di pensare che c’è sempre ancora tempo per essere più riflessivi di quanto le circostanze ci portano a essere, e se siamo entrati in una trappola, almeno per comprenderne i meccanismi e le possibilità di uscita.

Ma perché ciò accada è necessario, soprattutto, accettare di riconoscere i limiti di quella che saremmo tentati di chiamare la “vecchia” Realpolitik. È facendo affidamento interamente su quest’ultima che Israele, negli ultimi decenni, ha gestito la propria sicurezza. Ma è proprio questa “vecchia” Realpolitik che oggi ha semplicemente fallito e ha mostrato tragicamente i suoi limiti. Ciò che la caratterizza è una scarsa corresponsabilità della vita socio-politica dei paesi arabi circostanti: una concezione strettamente giuridica della sovranità porta a influenzare questa vita socio-politica essenzialmente a livello governativo e per un unico scopo, quello di preservare la sovranità legale dello stesso Israele. Per quanto riguarda la natura stessa dei regimi politici di questi vicini arabi, così come la loro vita interna e l’esistenza (o meglio l’inesistenza) al loro interno di diritti sociali e civili, siamo indifferenti, a condizione che sotto il governo di una potenza forte, il loro governo garantisce di lasciare Israele in pace. Tuttavia, questo patto di sicurezza tra stati sovrani è fondamentalmente insufficiente per garantire veramente e in modo sostenibile la pace.

Nelle righe che seguono vorremmo provare a delineare il tipo di nuova Realpolitik di cui il mondo oggi ha bisogno. Ci ispireremo ad un punto di vista sociologico che può essere ampiamente riassunto dai seguenti tre elementi: 1) durante tutto il XX secolo e fino all’inizio del XXI secolo, l’evoluzione delle società nazionali in tutto il pianeta è stata caratterizzata da una costante aumento della divisione del lavoro al loro interno – con conseguente maggiore differenziazione socio-professionale e urbanizzazione – ma anche nei loro rapporti con altre società – un processo che si concorda di chiamare “globalizzazione”. 2) Questo sviluppo generale tende a far sorgere, in tutte le nazioni e tra di esse, crescenti aspirazioni delle popolazioni all’individualismo e all’egualitarismo. 3) Lungi dal portare meccanicamente all’instaurazione di regimi politici pluralisti e al riconoscimento delle libertà civili e dei diritti sociali, è frequente che questo sviluppo dia luogo, al contrario, allo sviluppo di movimenti reazionari e di regimi autoritari che cercano di contenere la progressione degli ideali individualisti nella società interessata e affermare la superiorità della nazione a livello di civiltà – piuttosto che chiedere che sia trattata allo stesso modo degli altri.

I problemi attuali del mondo non derivano né dal primo né dal secondo di questi elementi ma esclusivamente dal terzo. È perché le crescenti aspirazioni all’individualismo e all’egualitarismo non riescono a tradursi in istituzioni che consentano la loro piena soddisfazione, che si ritrovano distorte e reindirizzate a beneficio di imprese politiche che finiscono per negarle, a volte completamente.

Ritorniamo su questo argomento nel caso del Medio Oriente. Come dimostrato sia dalla “primavera araba” che dalle recenti mobilitazioni per i diritti delle donne in Iran, l’aumento della divisione del lavoro continua nelle società di questa regione, come altrove nel mondo, a “lavorare” i popoli e a provocare al loro interno una crescita di aspirazioni all’egualitarismo e all’individualismo. Resta che il reindirizzamento di un certo numero di queste aspirazioni verso forme di nazionalismo autoritario – che si pretende “antimperialista” – e, che va di pari passo, la negazione dei diritti civili, limitano la capacità delle società interessate di diritto al desiderio di uguaglianza e di autonomia individuale che cresce dentro di loro.

Ciò si manifesta anche in termini di crescente aspirazione di queste popolazioni a beneficiare dei diritti sociali: in un gran numero di queste società, in assenza di uno Stato sociale anche solo leggermente sviluppato, i movimenti islamici stanno ampliando la loro base giocando tra i più poveri, dando alle popolazioni un loro ruolo di fornitore di assistenza sociale che nessun altro oltre a loro svolge in quel momento – il che non impedisce loro di beneficiare anche del sostegno degli strati borghesi. Immaginiamo quindi per un momento un Medio Oriente in cui, in tutti i paesi della regione, i diritti civili e lo stato sociale sarebbero sviluppati a un livello significativamente più elevato di quello attuale. In questo Medio Oriente, quali sarebbero le possibilità che le popolazioni dei paesi arabi confinanti con Israele vogliano fare la guerra e distruggerlo? Probabilmente non sarebbero scomparsi. Ma tutto fa pensare che sarebbero diminuiti considerevolmente.

La “nuova” Realpolitik di cui Israele ha bisogno, ma di cui hanno bisogno anche tutti i paesi della regione e, in definitiva, tutte le nazioni del pianeta, eccola qui: è una politica che cerca di garantire la pace e la sicurezza attraverso il concentrarsi sul progresso della democrazia e dei diritti sociali all’interno dei paesi considerati reciprocamente ostili e tra di loro. Si tratta di uscire da una concezione strettamente giuridica della sovranità (applicata alla propria nazione così come a quella degli altri) per sviluppare una comprensione dei processi sociali che, nei paesi degli altri, alimentano certe disposizioni bellicose e, inseparabilmente, di coloro che li forniscono nel proprio paese. Qualcuno potrebbe pensare che questa “nuova” Realpolitik non sia sufficientemente realistica: non cercherebbe infatti “scuse” sociologiche per i popoli bellicosi? Non si tratta, però, di scuse, ma piuttosto di rendere spiegabile e prevedibile la violenza che ci minaccia, così come la tentazione che abbiamo a nostra volta di esercitare violenza su ciò che ci minaccia.

Questa disposizione riflessiva porta certamente a essere critici nei confronti degli atteggiamenti condizionati dalla “vecchia” Realpolitik: ma non perché questi siano “troppo” realistici; anzi, al contrario, perché non bastano. Non è infatti realistico accontentarsi pigramente di sostenere stati autoritari per preservare la pace – un atteggiamento di cui Israele è lungi dall’avere il monopolio, dal momento che l’Europa, in particolare, ne è entusiasta. Al contrario, sta dimostrando un più alto grado di realismo nel contribuire, insieme ad altre nazioni in grado di farlo, allo sviluppo dei diritti sociali e civili in tutti i paesi del mondo.

Presentiamo qui il passaggio dalla vecchia alla nuova Realpolitik come se fosse una decisione o una scelta. Ma se guardi da vicino, non si tratta di questo. È prevedibile infatti, per ragioni che riguardano anche qui l’organizzazione delle relazioni sociali all’interno delle nazioni che amministrano e tra di esse, che i governi interessati si ostineranno per molto tempo a rifiutarsi di occuparsi seriamente delle ragioni sociologiche per cui alcuni altri paesi o alcune popolazioni all’interno di questi paesi vogliono attaccare i loro interessi e la loro esistenza – semplicemente osservando che è così e agendo di conseguenza nella speranza di preservare la loro sicurezza.

Questo è ciò che porta oggi in primo piano nelle nostre notizie lo spettro di una guerra di distruzione totale all’interno del pianeta. Ma se qualcosa evolve in questo stato di cose, non può che andare nella direzione di un passaggio, anche se determinato dalla “forza delle circostanze”, verso la nuova Realpolitik: sempre più, infatti, la “vecchia” Realpolitik ci mostrerà quanto grandi siano i suoi limiti e quanto sia pericoloso il livello troppo basso di riflessività con cui crede di potersi accontentare.

Riconfigurare l’ideale socialista della solidarietà internazionale alle dimensioni del capitalismo totalmente globalizzato: questa è quindi la via per sfuggire alla trappola tesa oggi.

Del resto è questa nuova Realpolitik, per quanto utopica possa sembrarci, che sta già emergendo. Ciò è particolarmente dimostrato dall’importanza assunta oggi, a un livello mai eguagliato prima nella storia umana, dall’idea di una “opinione internazionale”. Questa nuova istituzione è costituita come un tribunale posto “al di sopra” della sovranità giuridica degli Stati, e che giudica le loro azioni, indipendentemente dal modo in cui vengono valutate dai governi e dai tribunali ufficiali di questi Stati. Si tratta quindi di un’istituzione che presuppone un diritto d’intervento totale nella vita delle nazioni, ma che lo rivendica non in nome di una nazione particolare, ma dell’insieme che essa forma. Naturalmente nulla garantisce l’imparzialità di un simile tribunale, vale a dire la sua completa indipendenza dagli interessi di alcune nazioni in particolare. Resta il fatto che la sua esistenza sempre più comprovata, e ancor più il fatto che sempre più paesi del “sud del mondo” intendano prendervi parte, rendono sempre più manifesto l’ideale di un giudizio valido per tutti dal punto di vista di tutti. Meno i governi, bloccati nella vecchia Realpolitik, considereranno l’esistenza sempre più cruciale di questo tribunale, più si esporranno a perdere sostegno dall’esterno della loro nazione ma anche – e questo è forse ancora più grave per loro – all’interno della loro stessa nazione.

Sottolineiamo che questa “nuova” Realpolitik non è, in Israele, del tutto nuova. Fino alla fine degli anni ’70, quando il Partito Laburista dominava largamente la scena politica del paese, un’utopia con basi abbastanza simili era ampiamente condivisa tra i suoi cittadini. La consapevolezza dei rapporti di interdipendenza socio-economica tra Israele e i suoi vicini arabi ha poi portato ad assumere un desiderio di corresponsabilità per lo sviluppo, nella regione, dei diritti civili e sociali. Gli Accordi di Oslo furono l’ultima traduzione, prima che il fallimento di questi portasse all’instaurazione di quella Realpolitik che qui chiamiamo “vecchia”, ma che allora apparve a molti come la più sensata e la più realistica per garantire il futuro di Israele.

Si può dire, certo, che le cause politiche del fallimento degli Accordi di Oslo e dell’abbandono della prospettiva da essi incarnata risiedono nel crescente successo del pensiero reazionario sia in Israele (con l’incessante ascesa dell’estrema destra, di cui l’assassinio di Yitzhak Rabbi ne è stata la prima rivelazione) sia da parte palestinese (con la crescita irresistibile di movimenti islamici come Hamas e Jihad islamica). Ma resta ancora da capire in che modo questa deriva generalizzata, da entrambe le parti, verso valori ultraconservatori e antilaici sia il risultato di trasformazioni nella divisione del lavoro a livello locale e internazionale e di un certo processo di politicizzazione. In effetti, ciò che è accaduto in Israele e nei territori palestinesi dagli anni ’90 in poi non è fondamentalmente diverso da ciò che è accaduto contemporaneamente in altre parti del mondo, e in particolare in Europa, dove di fronte alla globalizzazione e all’aumento della divisione del lavoro all’interno delle nazioni, il socialismo, nella forma che nel XX secolo gli aveva assicurato una forma di egemonia, è entrato in crisi.

Quella che chiamiamo “nuova” Realpolitik è quindi in realtà un modo di riconnettersi con le prospettive che il pensiero socialista, in Israele come altrove, aveva aperto durante il periodo degli anni Cinquanta-Ottanta, quando trionfò. Tuttavia, a nostro avviso, ciò che lo rende degno del termine “nuovo” è il fatto che le interdipendenze tra le società nazionali, essendo incomparabilmente più forti oggi che cinquant’anni fa, l’esigenza di corresponsabilità degli Stati nazionali diventa infinitamente più stringente e richiede per una coscienza sociologica di grado molto più elevato.

A questo proposito, in generale come nel caso specifico di Israele, non possiamo semplicemente ritornare a quanto fatto dalla sinistra fino agli anni ‘80: dobbiamo “cambiare marcia” e considerare la questione della solidarietà internazionale in dimensioni che finalmente corrispondono alla realtà attuale, vale a dire al grado di interdipendenza che, ci piaccia o no, e ci rallegriamo o no, si è ormai instaurato tra le nazioni, non solo a livello regionale ma anche globale.

Accelerare l’avvento della nuova Realpolitik o, che è lo stesso, riconfigurare l’ideale socialista di solidarietà internazionale alle dimensioni di un capitalismo totalmente globalizzato: questa è quindi la via per sfuggire alla trappola tesa oggi. Anche se al momento in cui scrivo, nel caso dell’assedio di Gaza da parte dell’IDF, una simile strada ha pochissime possibilità di essere intrapresa, vale senza dubbio la pena di indicare con quali mezzi, se tentassimo di intraprenderla, dovrebbe essere tradotta concretamente. Si possono citare tre elementi.

In primo luogo, prendere sul serio l’esistenza dell’opinione pubblica internazionale e riconoscere in essa un tribunale di livello superiore rispetto al governo e ai tribunali di determinate nazioni, dovrebbe indurre Israele a dare la massima priorità all’attuazione del rispetto del diritto internazionale. Qualsiasi azione militare contraria a questo diritto deve essere severamente vietata. Anche ignorando il fatto che non esiste una guerra “pulita”, qualsiasi trasgressione del codice militare e delle norme internazionali di guerra, così come ogni estorsione ed “escalation” di violenza contro le popolazioni civili o i media, è da vietare e se avviene, per essere chiaramente sanzionato, senza cercare di mascherarlo o minimizzarlo – occorre qui misurare il peso che un simile atteggiamento avrebbe sul piano internazionale in termini di superiorità morale dell’IDF sui suoi nemici, e di “reale prestigio” di cui questo esercito avrebbe poi goduto nel mondo.

È anche importante che Israele chieda giustizia davanti alla comunità internazionale (e quindi la metta di fronte alle sue responsabilità) piuttosto che dare l’impressione di voler prendere la giustizia nelle proprie mani e con i propri mezzi. Pertanto è necessario emettere mandati di arresto internazionali contro i mandanti e gli autori dei crimini commessi da Hamas sul suolo israeliano. Pertanto Israele, con il sostegno dei suoi alleati, deve richiedere l’apertura di un tribunale penale internazionale davanti al quale questi sponsor e autori saranno portati e giudicati – anche se in contumacia.

In secondo luogo, è importante dimostrare una comprensione sociologica, e non strettamente giuridica, del “nemico”. Nel caso di specie, ciò significa prendere in considerazione ciò che dà legittimità ad Hamas all’interno delle popolazioni di Gaza, vale a dire il fatto che questo movimento terroristico compensa l’assenza di uno Stato sociale e l’assenza di uno Stato semplice. Sulla base di questa diagnosi, il più possibile sociologicamente informata, Israele ma altrettanto, e congiuntamente, la “comunità internazionale” devono pensare a come provvedere non solo materialmente ai bisogni vitali degli abitanti di Gaza ma anche e soprattutto, di rafforzare i loro diritti sociali e civili, vale a dire la loro autonomia individuale rispetto al movimento terroristico che, negli ultimi anni, ha certamente migliorato materialmente e salubre la loro vita quotidiana ma al prezzo di una totale assenza di tali diritti.

Il problema qui è che gli stessi abitanti di Gaza arrivano a voler emanciparsi, più di quanto non avvenga attualmente, da Hamas e a volerlo fare, non perché paesi stranieri ordinino loro di farlo sotto minaccia o attraverso la corruzione materiale, ma perché loro stessi ne sentono un desiderio crescente, aderendo sempre più, da soli, all’ideale di una Palestina non islamista indipendente dall’Iran. Oltre al fatto che una tale politica di sostegno all’emancipazione nazionale resta essenzialmente da inventare, la situazione attuale, ovviamente, difficilmente sembra favorevole al suo dispiegamento.

Eppure, non possiamo dimenticare che arriverà inevitabilmente il momento, forse non così lontano, in cui sarà necessario “ricostruire” Gaza e “farne qualcosa” – sapendo che facendo con essa ciò che è stato fatto fino ad oggi , è un’opzione che Israele, visti i massacri appena perpetrati sul suo territorio, non può più permettersi, cancellando questo territorio dalla mappa del mondo, e viste le conseguenze che ciò avrebbe agli occhi dell’opinione pubblica internazionale ma anche agli occhi di gran parte degli stessi israeliani, è ugualmente esclusa.

Infine, è importante che la consapevolezza sociologica dei problemi da affrontare vada oltre i soli due belligeranti e integri la questione dei rapporti di interdipendenza che li legano a tutti gli altri Stati-nazione della regione ma anche ad un certo numero di nazioni e gruppi di nazioni in tutto il mondo – in primis gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Ripetiamolo: questi legami di interdipendenza non devono essere intesi in un senso strettamente giuridico che li limiti all’unico atteggiamento, più o meno cooperativo, che i governi di queste diverse nazioni mantengono tra loro.

Essi devono essere colti innanzitutto ed essenzialmente nella loro realtà e profondità socioeconomica, vale a dire dal punto di vista della crescente divisione del lavoro all’interno di ciascuno dei paesi interessati e tra di essi. La situazione può apparire oggettivamente sfavorevole da questo punto di vista, nella misura in cui se l’aumento della divisione del lavoro, sia interna alle nazioni che internazionale, è notevole e massiccio a partire dall’ultimo quarto del XX secolo, le aspirazioni all’egualitarismo e alla l’individualismo che suscita, oggi provoca reazioni reazionarie e ultranazionaliste in massa.

Tuttavia, non possiamo sottovalutare che la violenza di questi atteggiamenti conservatori riflette proprio il progresso delle società interessate verso aspirazioni più egualitarie e individualiste. Esiste quindi, potenzialmente, un’aspettativa diffusa da parte delle nazioni, tanto nel Nord America e in Europa quanto nel Medio Oriente e, infine, in tutte le altre parti del mondo (Russia e Cina incluse), per quella che abbiamo chiamato la transizione verso una “nuova” Realpolitik. Ci sono numerosi luoghi in tutto il pianeta in cui questa transizione potrebbe essere sperimentata.

Ma la cosa più importante oggi è senza dubbio quella del Medio Oriente: che le nazioni, che hanno la fortuna di beneficiare del livello più avanzato di divisione del lavoro e i cui membri sono dotati di diritti sociali e civili, si pongono il compito di aiutare le popolazioni dei paesi di questa regione a conquistare a loro volta questi stessi diritti, o dopo averli conquistati, a mantenerli e svilupparli, e oltre a ciò queste nazioni li mantengono e li sviluppano anche al proprio interno, è la prima sfida che dobbiamo volere collettivamente intraprendere oggi, se desideriamo sinceramente una pace vera e duratura per Israele e, inseparabilmente, per i suoi vicini arabi.

Cyril Lemieux È SOCIOLOGO, DIRETTORE DEL LABORATORIO INTERDISCIPLINARE DI STUDI SULLA RIFLESSIVITÀ – FONDO YAN THOMAS.

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