Tucidide: Dialogo degli ateniesi e dei melii sulla giustizia in guerra

 

Nell’ambito della guerra del Peloponneso (che oppone Atene e Sparta come città egemoni in un gioco di alleanze che investe tutto il mondo greco), nel 416 a.C. gli ateniesi pongono un ultimatum agli abitanti dell’isola di Melo, nelle Cicladi: assoggettarsi al loro dominio o perire. Il rifiuto dei melii dà luogo a una punizione esemplare, uno degli episodi più tragici della guerra: la distruzione della città, l’uccisione di tutti gli uomini e la deportazione come schiavi di donne e bambini. Lo storico Tucidide presenta come antefatto il dialogo che gli ateniesi e gli ambasciatori dei melii avrebbero avuto per discutere un accordo. Nel passo che riportiamo, la difesa dei melii del loro diritto alla neutralità si fonda su criteri di giustizia condivisa, che comprendono il riconoscimento reciproco di autonomia tra le pòleis; gli ateniesi oppongono invece ragioni strategiche, ma soprattutto negano il valore di qualunque regola o patto che non tenga conto della disparità di forze. Nella narrazione di Tucidide, l’episodio segnala il prevalere di una logica di guerra nei rapporti tra greci: l’affermazione del diritto del più forte su qualunque criterio di giustizia, equità, accordo.

Sappiamo che è in gioco la nostra salvezza

melii Pure, la presente riunione è stata indetta per discutere della nostra salvezza,
e la discussione si svolga, se vi piace, nel modo in cui ci invitate a discutere.

Non vi vogliamo persuadere con buone ragioni, non c’è diritto tra il forte e il debole

ateniesi Noi dunque non vi offriremo una non persuasiva lungaggine di parole con
l’aiuto di belle frasi, cioè che il nostro impero è giusto perché abbiamo abbattuto
i Medi o che ora perseguiamo il nostro diritto perché siamo stati offesi; ma ugual-
mente pretendiamo che neppur voi crediate di persuaderci dicendoci che, per
quanto coloni dei Lacedemoni, non vi siete uniti a loro per farci guerra o che non
ci avete fatto alcun torto. Pretendiamo invece che si mandi ad effetto ciò che è
possibile a seconda della reale convinzione che ha ciascuno di noi, ché noi siamo
certi, di fronte a voi, persone informate, che nelle considerazioni umane il diritto
è riconosciuto in seguito a una uguale necessità per le due parti, mentre chi è più
forte fa quello che può e chi è più debole cede.

Usiamo il linguaggio dell’utile: non ci conviene distruggere il diritto comune e l’accordo reciproco

melii A nostro parere, almeno, è utile (è necessario infatti usare questo termine, dal
momento che avete così proposto di parlare dell’utile invece che del giusto) – è uti-
le che noi non distruggiamo questo bene comune, ma che sia conservata la giustizia
a colui che di volta in volta si trova in mezzo ai pericoli, e che sia avvantaggiato
colui che riesce a persuadere un altro anche senza raggiungere i limiti dell’esattezza
più rigorosa. E questo fatto non è meno utile nei vostri riguardi, in quanto in caso
di insuccesso sarete d’esempio agli altri a prezzo di una severissima punizione.

Non temiamo i vincitori, ma la ribellione dei sottomessi

ateniesi Ma noi non temiamo la fine del nostro impero se anche dovesse finire, ché
non sono terribili per i vinti quelli che, come i Lacedemoni, comandano agli altri
(e del resto la presente contesa non riguarda noi e i Lacedemoni), bensì i soggetti,
qualora di propria iniziativa assalgano chi li comanda e lo sottomettano.

A noi conviene dominarvi senza fatica, a voi salvarvi

E su questa questione ci sia permesso di correre rischi: ma che noi siamo qui per
avvantaggiare il nostro impero e che, per salvare la vostra città, ora vi facciamo
questi discorsi, tutto ciò ve lo mostreremo, intenzionati a comandare a voi senza
affrontare fatiche e a salvarvi con utilità per entrambi.

melii E come può derivare dell’utile a noi dall’essere vostri schiavi, come a voi dal
comandarci?

ateniesi Perché a voi toccherebbe obbedire invece di subire la sorte più atroce,
mentre noi se non vi distruggessimo ci guadagneremmo.

Non potremmo restare amici, senza sottomissione?

melii E che noi restando in pace fossimo amici invece che nemici, ma alleati di
nessuna delle due parti, non l’accettereste?

No, sarebbe per noi segno di debolezza davanti ai nostri sudditi

ateniesi No, perché la vostra ostilità non ci danneggia tanto quanto la vostra ami-
cizia, manifesto esempio per i sudditi della nostra debolezza, mentre l’odio lo è
della nostra potenza.

I vostri sudditi si paragonano a noi che siamo autonomi?

melii È così che vedono la giustizia i vostri sudditi, sì da porre sullo stesso piano quei
popoli che non hanno niente a che fare con voi e quelli che, vostri coloni per la
maggior parte e vostri ribelli in un certo numero, sono stati da voi assoggettati?

Sì, perché hanno le loro ragioni a ribellarsi e lo faranno se ci pensano deboli

ateniesi Sì, perché credono che né gli uni né gli altri manchino di giustificazioni
per se stessi, e credono che alcuni di loro possano salvarsi grazie alla loro po-
tenza, mentre noi non li assaliamo per paura. Sicché, oltre a farci comandare a
un maggior numero di persone, voi con la vostra sottomissione ci fornireste la
sicurezza, tanto più se voi, isolani e per giunta più deboli di altri, siete sconfitti da
un popolo dominatore del mare.

Non temete, punendoci, di rendervi nemici i neutrali?

melii E nell’altro caso non credete che vi sia la sicurezza? Giacché, come voi ci avete
distolto dal discorrere della giustizia e ci avete consigliato di obbedire a ciò che è
utile per voi, così noi, mostrandovi il nostro vantaggio, dobbiamo cercare di persua-
dervi anche sul seguente punto, cioè nel caso che il nostro utile coincida anche col
vostro. Ché tutti quelli che ora sono neutrali, come non ve li renderete nemici al-
lorché, guardando a quanto avviene a noi, penseranno che un giorno voi assalirete
anche loro? E in tal caso, che altro farete se non aumentare i nemici che avete di già
e persuadere i riluttanti a esserlo, mentre ora non ne hanno nessuna intenzione?

Temiamo gli isolani che non controlliamo e i ribelli al nostro impero

ateniesi No, perché noi non consideriamo pericolosi quelli che, abitatori di qual-
che parte della terraferma, grazie alla loro libertà intatta si guarderanno bene dallo
stare sulla difensiva nei nostri riguardi; al contrario, noi temiamo quelli che, da
qualche parte, sono isolani e non soggetti al nostro impero, come voi, insieme a
quelli che ormai sono esasperati dalla costrizione del nostro comando. Ché costo-
ro, abbandonandosi a calcoli errati, potrebbero numerosissime volte esporre se
stessi e noi a un manifesto pericolo.

Saremmo vili se non difendessimo la nostra libertà

melii Ma, certo, se voi affrontate tali pericoli perché il vostro impero non abbia mai
fine, e se i vostri sudditi li affrontano per liberarsene, per noi che siamo ancora
liberi sarebbe grande viltà e debolezza il non affrontare ogni vicissitudine prima
di essere schiavi.

Sareste saggi, perché questa non è una gara d’onore e noi
siamo molto più forti

ateniesi No, se la vostra deliberazione sarà ispirata a saggezza: ché per voi la lotta
ora non è su di un piano di parità, per decidere l’eccellenza dell’uomo, cioè per
non essere tacciati di un’onta; ora piuttosto si decide la salvezza, cioè di non op-
porsi a chi è molto più forte. […]

Lotteremo con tutte le nostre forze, contando sul favore della divinità perché
siamo pii e giusti

melii Certo anche noi, siatene sicuri, pensiamo che sia difficile lottare contro le
vostre forze e contro la sorte, se essa non sarà favorevole. Pure, noi confidiamo
di non essere in stato di inferiorità per quanto riguarda la sorte che ci manderà
la divinità, giacché noi, pii, ci opponiamo a persone ingiuste, e abbiamo fiducia
che la lacuna delle nostre forze sarà riempita dall’alleanza coi Lacedemoni, i quali
saranno costretti ad aiutarci se non altro per dovere di consanguineità e per senti-
mento di onore. E insomma, la nostra audacia non ci sembra del tutto infondata.

Abbiamo rispetto per la divinità e seguiamo le tendenze
della natura umana

ateniesi Ma per quanto riguarda la pietà dei sentimenti verso la divinità, neppur
noi crediamo di restare indietro, ché noi non esigiamo né facciamo alcuna cosa
che devii dalle umane credenze nei confronti della divinità o dagli umani desideri
nei confronti di se stessi.

Per legge di natura chi è più forte comanda

[2] Noi crediamo infatti che per legge di natura chi è più forte comandi: che que-
sto lo faccia la divinità lo crediamo per convinzione, che lo facciano gli uomini,
lo crediamo perché è evidente. E ci serviamo di questa legge senza averla istituita
noi per primi, ma perché l’abbiamo ricevuta già esistente e la lasceremo valida
per tutta l’eternità, certi che voi e altri vi sareste comportati nello stesso modo se
vi foste trovati padroni della nostra stessa potenza.

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Fonte: Tucidide, La guerra del Peloponneso, trad. di F. Ferrari, note a cura di G. Daverio Rocchi, Milano, Rizzoli, 1985, vol. II, libro V, §§ 88-101, 104-105, pp. 935-945.