Falsificazioni: azioni, soggetti, mondo

 

Davanti alla legge

L’ingresso è chiuso. Le aspirazioni dei soggetti alla verità, alla giustizia, resteranno tali. La variabile tempo, l’interminabile, vanifica ogni progetto, attraverso un rinvio che si conclude con la morte o con la rinuncia finale alle loro speranze. L’indeterminato, il vischioso, occulta la verità, la depotenzia, la cela per sempre e ne rivela l’irrealtà. È il dominio sovrano della falsità, il mondo della simulazione-dissimulazione che teorizza Baudrillard. L’ordine delle cose, l’ordine delle apparenze, non può più essere confinato o circoscritto né in un soggetto né in un oggetto e neppure in una relazione tra di essi. È ormai la stessa verità ad essere violentata e sottoposta ad una perversione come «sottrazione dell’identità e dell’essere».

1. Un falso processo?

Gli atti del processo[1] istruito contro il Maresciallo di Francia, già compagno d’armi di Giovanna D’Arco, Gilles de Rais (o de Retz secondo altra trascrizione dal bretone) dimostrano la costruzione di un teorema di falsificazione. I documenti processuali, che dovrebbero contenere gli elementi di certezza probatoria del processo, ecclesiastico, inquisitorio, secolare diventano la dimostrazione della falsificazione dei fatti, dei personaggi, dell’ambiente, delle responsabilità, delle azioni e degli effetti. Dopo essere stati pubblicati, ma in maniera lacunosa e purgati dai riferimenti agli aspetti più scabrosi degli eventi, dall’abate Eugène Bossard nel 1885, che fu contestato già nel 1921 da “Ludovico Hernandez” con la traduzione letterale (ma carente, secondo George Bataille) del processo canonico e la riproduzione di quello civile, presieduto dal magistrato di Bretagna Pierre de L’Hôpital[2], i documenti del processo divennero poi oggetto d’esame da parte di Georges Bataille, che si avvalse della collaborazione di Pierre Klossowski per la traduzione delle minute in latino dei verbali del processo ecclesiastico. Questo processo, nel suo significato reale, è la costruzione di un personaggio mitico, di un mostro, «il più abietto criminale di tutti i tempi», che diventerà, nelle rivisitazioni letterarie, il Barbe-Bleu della leggenda popolare, ripresa da C. Perrault[3] e l’Ogre di M. Tournier, che ha dedicato al personaggio compagno d’armi di Giovanna d’Arco un romanzo, Gilles e Jeanne[4].

Nel X volume delle Opere complete di Georges Bataille è contenuto lo studio che smaschera la falsificazione contenuta nella fama di Gilles de Rais, detto Barbablù. Il vero problema è il personaggio, che acquista un ruolo lontano dalla realtà storica, come in una messa in scena teatrale o in un testo narrativo. Il punto di forza del lavoro di Bataille è la ricostruzione cronologica degli avvenimenti e un esame rigoroso dei documenti dell’epoca conservati. Gilles de Rais ha a che fare con il crimine e il peggio in senso eminente. Bataille, nella sua scrittura che intende decifrare l’abisso del male, dell’eros e della morte, resta affascinato dalla vicenda di Gilles de Rais. I crimini di Gilles de Rais acquistano ai suoi occhi un valore privilegiato, sono un vertice del peggio. La reazione della folla alla sua esecuzione lo segnala. La sua violenza e il suo agire senza scrupoli sono un eccesso che comanda un destino, che non fu mai governato dal calcolo. Insomma, Gilles de Rais ha, nel male, la sua grandezza e il suo splendore, è un personaggio da tragedia, l’uomo che un immenso disordine scatenava. Egli si dedicava – come crede Bataille – a orge di sangue e sperperava immense fortune per un lusso e una pompa da sovrano. È, nei termini del pensiero di Bataille, l’eroe del dispendio e della catastrofe, ma, insieme, anche un uomo estremamente violento, ebbro di sangue, le cui fortezze suscitavano timore nella folla sottoposta ad un regime di oppressione feudale. Come segnala Bataille, che crede alla sua colpevolezza, ma denuncia in ogni caso diverse e gravi irregolarità negli atti del processo, c’è qualcosa di demente e di teatrale in lui, che lo spinge a rappresentare se stesso, a confessare i propri crimini, vere e proprie carneficine, con passione da esibizionista e a celebrare con il suo processo il suo ultimo atto di pentimento e la sua appartenenza al sacro. È indubbio che la storia sia stata falsificata, per adattarla alla leggenda popolare dei contadini rappresentata nella letteratura successiva. I riferimenti, le concordanze, nel segno malato dell’analogia e dell’immaginazione, hanno prodotto la sostituzione nel corso del tempo di una memoria romanzata ai fatti, della leggenda alla storia.

Il caso di Gilles de Rais è diventato un luogo di immaginazione popolare, il mostro che terrorizza le campagne, mentre i fatti potevano essere ricostruiti soltanto sulla base di documenti veridici. Bataille si pone questo compito: ne risulta una ricostruzione del processo inquisitorio che si rivela anomalo e lacunoso in più parti e che dimostra la volontà di eliminare Gilles de Rais da parte dei suoi nemici (il duca di Bretagna e il vescovo di Nantes, Jean de Malestroit, che presiede il tribunale che lo accusa) per impadronirsi del suo immenso patrimonio. I fatti parlano chiaro e confortano l’ipotesi di Bataille: prima di tutto l’episodio della vendita di un castello a Guillaume Le Ferron, fratello di Geoffroy, tesoriere del duca di Bretagna, Jean V; poi l’azione di forza compiuta da Gilles de Rais contro il fratello del tesoriere, un ecclesiastico, Jean Le Ferron, in un luogo dotato di immunità, durante l’ufficio liturgico, per riprendersi il castello di Saint-Étienne de Mer-morte. Sono queste le azioni che lo posero in una via senza uscita.

Il processo contro di lui così si sviluppa da una falsificazione spacciata per verità, che l’immaginazione popolare riceve e conserva nel tempo, all’insegna di una potente teatralizzazione, nel contesto di un passaggio storico epocale con il capovolgimento dei rapporti di classe che determinano l’inabissamento dell’ordine feudale cui Gilles de Rais era legato. Jean de Malestroit, vescovo di Nantes e cancelliere del Duca di Bretagna, che istruì il processo con l’appoggio del Duca, era un nemico personale giurato di Gilles de Rais e le testimonianze, pur numerose, contro l’imputato risultano poco credibili, integrate successivamente con elementi tratti dalle deposizioni dei rei confessi. Ad un’attenta analisi le imprecisioni e le incongruenze, nei documenti del processo penale, si moltiplicano. La stessa confessione dell’imputato, estorta previa tortura, ricalca l’atto d’accusa e le testimonianze a suo carico. Tutto, insomma, sembra costruito ad arte. Persino l’anno di inizio dei crimini contemplati nell’atto di accusa, nel quale gli sono imputati l’evocazione di demoni e l’uccisione di numerosi bambini, resta incerto: è il 1426 secondo la deposizione di Poitou suo «bambino di camera» e complice, come dice l’atto d’accusa, secondo il quale tutto avrebbe avuto inizio nel 1426, 14 anni prima del processo[5] o il 1427 (durante la guerra dei Trent’anni) o il 1432-33 (anno della morte del nonno Jean de Craon o il periodo prossimo ad essa), secondo gli stessi ricordi dell’imputato? Nel 1437, 40 corpi di bambini, di età compresa tra i 6 e i 18 anni, furono scoperti a Machecoul. Nessun nesso, se non una ricostruzione a posteriori, li collegava ai misfatti di Gilles de Rais.Bisogna però rilevare che lo stesso numero di uccisioni di bambini («centoquaranta o più…»[6]) non è ben determinato. Il «reo confesso» afferma di non ricordare più il numero delle sue vittime[7].

Le testimonianze che si riferiscono ai fatti, accaduti in giurisdizioni anche diverse, non sono concordi. Il processo ecclesiastico del vescovo di Nantes, quello dell’Inquisizione, istruito da Jean Bloyn, vicario dell’Inquisitore, e quello secolare del Tribunale di Bretagna si sovrappongono. Nessun elemento probatorio di riscontro esiste di tale presunta carneficina in connessione con la persona di Gilles de Rais. Si riferisce, nella confessione dell’imputato, di eliminazione delle prove, di riesumazione dei resti e riduzione dei corpi in ceneri, poi disperse[8], ma nessun riscontro oggettivo, neppure il cadavere o i resti di un solo bambino, lo conferma. Salomon Reinach concluse che il processo era una frode, perché le testimonianze degli accusatori furono fabbricate con la corruzione e la violenza. Nella seconda parte del suo scritto Bataille esamina i dati in dettaglio. Non gli sfugge il peso politico, di classe, dell’avvenimento del processo e dell’esecuzione del Maresciallo di Francia, compagno d’armi di Giovanna d’Arco, Gilles de Rais: la giustizia si era attivata rapidamente, dopo l’episodio dell’azione di forza di Saint-Étienne-de-Mer-Morte, mentre tempo prima non si sarebbe mossa per fanciulli morti di fame sgozzati da un gran signore[9]. Nella mentalità dell’epoca, infatti, i piccoli mendicanti, che si presumeva egli sgozzasse dopo averli violentati, non valevano più di una capra[10]. La stessa esecuzione di Gilles de Rais, al termine del processo, si trasforma in un grandioso spettacolo teatrale, degna conclusione, da parte del protagonista ossessionato dalla scomunica e dalla punizione eterna, di una colossale messinscena. Che cosa concludere? Risulta certamente difficile esprimere un giudizio sul valore di un processo inquisitorio del XV secolo con il nostro punto di vista, che è quello dello Stato di diritto del XXI secolo. Appaiono comunque, dai documenti e dall’analisi compiuta da Bataille sul carattere del personaggio e sulle circostanze del tempo, delle mostruosità giuridiche, che fanno pensare ad interventi pesanti di manipolazione delle confessioni, estorte con la tortura, praticata o minacciata, delle deposizioni e delle testimonianze.

I verbali del processo, soprattutto nelle deposizioni dei servitori di Gilles De Rais, che furono suoi complici, Henriet Griart e Poitou, sono pieni di descrizioni in dettaglio delle sedute erotiche sodomitiche e delle violenze sui bambini, che si spingevano fino all’infanticidio finale, alla voluttà crudele, che avrebbe compiuto Gilles de Rais. Ancor più dubbia appare la deposizione (del 16 ottobre 1440)[11] del frate spretato italiano Francesco Prelati, esperto di occultismo, alchimia, stregoneria, invocazioni e patti con il demonio, anch’egli compagno di misfatti, e dunque parte in causa nel processo, che hanno una credibilità più che dubbia, trattandosi di un sedicente “stregone”, cioè di un cialtrone. La deposizione di Prelati, come Reinach ha dimostrato, mostra che la confessione dello stesso Gilles sia stata ricalcata su quella di Prelati e contenga espressioni identiche («le stesse parole nello stesso ordine»)[12].

Stranamente Perfetti, il presbitero-stregone, riuscì a salvarsi la vita, a scampare la condanna a morte e addirittura a fuggire successivamente dal carcere, per continuare la sua carriera di «alchimista esperto» fino ad essere condannato al rogo sei anni dopo la morte del suo signore Gilles de Rais, nel 1446[13]. Le due deposizioni più pesanti a carico dell’imputato sono quelle dei complici di Gilles de Rais, Henriet Griart e Poitou, suoi servi. Ma esse, secondo Reinach concordano fino al minimo dettaglio e sono perciò poco attendibili. Negli atti del processo i riscontri reali tra le deposizioni e i fatti risultano deboli o del tutto inesistenti. Il giudizio storiografico su questa vicenda ha, come noto, diviso innocentisti e colpevolisti e tra i primi annovera, come si è visto, lo storico delle religioni Salomon Reinach, che mise in dubbio il valore della stessa confessione di Gilles de Rais, la cui fonte sarebbe la deposizione dei due complici[14]. Quale fosse la verità, dove la falsificazione fosse intervenuta, diventa impossibile ormai sapere. I fatti e la loro registrazione, in mancanza di un’edizione critica degli atti, non si possono né verificare né accertare. Quello che risulta chiaro dalla lettura dell’opera di Bataille sul caso di Gilles de Rais è il ruolo dei poteri, privati e pubblici, ecclesiastici e laici, nella costruzione di un impianto di falsificazione e di deformazione della realtà dei fatti. Come avvenuto tante volte nel corso della storia assistiamo ad uno spettacolo in cui i fatti, divenuti leggenda e mito grazie al rumore dell’opinione e delle dicerie degli ingenui, diventano favole.

2. Lio duplicato ovvero la falsificazione del soggetto

Nel caso dello scrittore R. L. Stevenson la falsificazione riguarda il soggetto. Il soggetto falsifica, deforma e depista le tracce che possono condurre alla sua vera identità, almeno all’identità giuridica, cioè alla sua identità pubblica. Il problema affrontato nel romanzo di R. L. Stevenson Doctor Jekyll and Mister Hyde non è dunque, come si crede, lo sdoppiamento della personalità, l’io diviso, la frammentazione del soggetto, bensì l’impossibilità di accertare chi sia il vero soggetto. Di conseguenza si determina, anche in questo caso singolare, uno spazio di indecidibilità tra la verità e il falso, cioè un effetto di falsificazione dell’io. Il romanzo è dunque la storia di una soggettivazione fallita, che soccombe all’attacco di forze subliminali, che si presentano potenti e caotiche, anzi catastrofiche per l’esistenza del soggetto.

La linea di discriminazione tra il vero Jekyll e il falso Jekyll (mr. Hyde) diventa così indeterminata. La caratteristica principale di Hyde è infatti la «deformità», non nel senso dell’invalidazione ma del difetto di forma, di identità. Il deforme è il mostro, ancora la figura del mostro, del campione del peggio, che si affaccia all’orizzonte di una società perbenista, il demone la cui faccia, si dice nel romanzo, porta la «firma di Satana»[15], colui che si allontana dalla debita forma, il prodotto di un’alterazione della forma che rappresenta un pericolo per l’integrità della società, in quanto non appartiene ad essa e ne minaccia l’unità. Mr. Hyde non presenta alterazioni visibili, ma dà «un’impressione di deformità»[16], di «mostruosa ma inspiegabile deformità»[17]. Non si tratta di un essere umano ma di una cosa, come la definisce Poole, il maggiordomo del dott. Jekill, che significativamente dichiara: «Signore… quella cosa non era il mio padrone»[18]. Il tentativo di accertarne l’identità, che professionalmente è necessaria all’avvocato Utterson per la trasmissione dell’eredità di Jekill a Mr. Hyde, fallisce. È un caso singolare. La falsificazione prevale sulla verità e produce un effetto inquietante sui testimoni degli eventi. La duplicità della coscienza viene interpretata nel romanzo con una forte valenza moralistica, come conflitto tra bene e male, tra vero e falso che dovrebbero, nelle intenzioni del medico sperimentatore, cioè del dott. Jekill, essere nettamente separati, divisi, almeno quanto nel pensiero comune la verità e la falsità, il bene e il male[19].

I due poli divisi si incarnano in corpi diversi che ne costituiscono il rivestimento, l’emanazione od effluvio di poteri diversi della nostra anima[20]. L’avvocato Utterson, che per la sua formazione giuridica, ha a che fare con le forme del diritto, con le identità certe e le relazioni tra soggetti riconoscibili, è il rappresentante dello spirito vittoriano, della razionalità media della classe dominante vittoriana. Il caso di Hyde lo sconcerta: si tratta di un caso di perdita integrale dell’identità, della forma. L’indagine di Utterson, tipico personaggio dell’epoca, diventa difficile. Egli non può accettare che la forza dell’identità personale venga messa in discussione e con essa, l’idea di una forma identitaria che sia la verità del soggetto, che non sia l’illusione che il soggetto nutre su di sé, ma l’autentica verità circa la natura del soggetto. I segni che contraddistinguono il bene e il male, la verità e l’errore sono dapprima separati nei lineamenti così diversi di Jekill e Hyde, per poi confondersi nei continui cambiamenti di identità. Il timore di «perdere la [propria] identità per sempre»[21] è fondato. La distinzione non regge a lungo, la trasformazione continua dall’uno all’altro personaggio fa guadagnare sempre più terreno al male sul bene.

Dalla trasformazione trae vantaggio il demonio non l’angelo[22] e di conseguenza il cambiamento non può che inclinare al peggio. Il rovesciamento delle identità si produce infine spontaneamente, senza neppure più l’ausilio della pozione farmacologica che produceva la metamorfosi[23]. La contaminazione[24] dell’una con l’altra identità diventa completa. Hyde si afferma sempre di più, la distinzione tra il vero dott. Jekill e il suo doppio, o il falso Jekill, Mr. Hyde, che garantiva la verità della discriminazione vero-falso, viene meno. Il dott. Jekill, che era il regista della macchinazione, diventa un elemento accessorio del processo di falsificazione progressiva. Lui non è me, ma tra poco di me non sopravviverà nulla, dirà Jekill[25]. L’io di Jekill diventa regressivo, sempre più debole, rispetto a quello, vincente, di Hyde. Il falso io, l’altro sé stesso[26] divora minuto dopo minuto il vero io. Il doppio del moralista e benpensante vittoriano è l’angelo del demonio, il lascivo e violento Hyde. Ma cosa significa questo inarrestabile cambiamento? Jekill viene riassorbito in Hyde[27], le identità svaniscono, la falsificazione vince. Il doppio del moralista e benpensante vittoriano è l’angelo del demonio, il lascivo e violento Hyde. Evidentemente bisogna riconoscerli per quello che sono, cioè due componenti della stessa personalità di Stevenson: quella addomesticata, etica, dell’educazione vittoriana ricevuta e quella della fuga alle isole Samoa. Ma cosa significa questo inarrestabile cambiamento? Jekill viene riassorbito in Hyde[28], le identità svaniscono, la falsificazione vince.

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3. Il gioco dei simulacri contro il linguaggio istituzionale

La stessa situazione di indecisione, vischiosità e mostruosità è al centro della trilogia di Pierre Klossowski, Le leggi dellospitalità, che comprende, com’è noto, i romanzi La revoca delleditto di Nantes, Roberta stasera e Il suggeritore. Il personaggio chiave è qui Roberta, atea e progressista, moglie del teologo Ottavio, che vuole sottoporla ad una prova: inducendola al peccato attraverso continue occasioni cerca di suscitare in lei un sentimento di colpa e di rimorso. Roberta, in questo gioco perverso, si sdoppia, mantenendo la sua libertà e indipendenza rispetto alla sua controfigura che obbedisce ad Ottavio. Lo stesso Ottavio resta vittima del gioco che ha messo in atto e giunge al punto di non riconoscere più né la sua identità, né quella altrui. Questi testi celebrano il trionfo del simulacro, delle sue pluriverse manifestazioni e dei suoi rovesciamenti. Il teatro di società di Klossowski diventa un gioco di simulacri-persone, di simulazione-dissimulazione. Il gioco dei simulacri, riprodotti e replicati a partire dai fantasmi del desiderio, è interminabile. Esso confligge, per Pierre Klossowski, con il linguaggio istituzionale. Il filo teoretico è impegnativo: la rottura, nella scrittura, nel disegno, nella pittura e nella filosofia, con ogni forma di realismo e di dialettica che metta capo all’Identico. Il simulacro rinvia infatti all’immagine e all’immaginazione, cioè alla rassomiglianza, la cui differenza con il reale non si riduce mai a zero, ed esclude dunque l’imitazione platonica. L’intreccio teoretico in gioco in questa partita è più della passione monomaniacale di un voyeur. Nella sofisticata tessitura narrativa di Klossowski ciò è abbastanza chiaro: al realismo metafisico si contrappone il realismo dell’emozione immediata e del campo di forze pulsionali che costituisce l’indicibile. Ogni linguaggio istituzionale, con il suo codice di segni, rappresenta una falsificazione del corpo pulsionale della nostra esperienza, sostanzialmente indicibile e irrappresentabile. Gli intrecci che i quadri viventi compongono e scompongono in Le leggi dellospitalità sono allora soltanto riproduzioni di fantasmi, simulacri che conservano un rapporto con il fondo pulsionale, quelle «brame, forze e potenze» che «hanno la mano lunga»[29].

Si tratta di un tentativo di approcciare un punto di verità nel metalinguaggio del gesto e nel desiderio erotico del corpo. L’elaborazione del tableau vivant risolve il dilemma della difficoltà di dire i segni del corpo, del tradurre i fremiti del corpo in linguaggio. I soggetti-personaggi sono dei simulacri i cui gesti restano indecifrabili e indicibili, ma possono essere esibiti come quadri viventi, semantizzati prima come scrittura e poi, definitivamente, come pittura. Il corpo resta però inaccessibile e incomunicabile[30]. Michel Foucault ha magistralmente colto questo carattere di fuga, di scarto, di scostamento dei simulacri nella produzione di Klossowski, nel quale il segno diventa irrappresentabile:

 

 «vaine image (par opposition à la réalité); représentation de quelque chose (en quoi cette chose se délègue, se manifeste, mais se retire et en un sens se cache); mensonge qui fait prendre un signe pour un autre; signe de la présence dune divinité (et possibilité réciproque de prendre ce signe pour son contraire); venue simultanée du Même et de lAutre (simuler cest, ongmairement, venir ensemble[31].

 

Si tratta di uno scarto nel quale nessuna misura di distanza e di vicinanza, ancor meno di identità tra vero e falso è possibile, nel quale il simile è insieme la simulazione e la dissimulazione e nel quale il simulacro guadagna a danno sia della verità che della falsificazione. Le leggi dell’ospitalità e la continua inversione dei ruoli determinano, in Klossowski, un potente effetto di enigmaticità. La situazione di enigmaticità esorcizza, seduce e paralizza, insieme, rendendole impossibili, sia la verità, in ogni sua manifestazione, che il falso.

4. Kafka e l’impossibilità della verità-legge

Il passaggio estremo dalla verità alla falsificazione si consuma però in Kafka, nel quale la falsificazione non concerne più soltanto i dati reali, ambientali, materiali o quelli soggettivi, ma l’insieme della faccenda. Ci limiteremo ad alcuni riferimenti che appaiono pertinenti alle osservazioni che abbiamo sviluppato in precedenza. Innanzitutto partiamo da una grande opera kafkiana: Il Castello. Accogliamo l’invito di Blanchot, ad abbandonare le letture metaforiche di Kafka e leggerlo all’interno dell’esperienza della scrittura. Lo stesso Blanchot ha riscontrato però ne Il Castello la presenza della tradizione ebraica, di elementi cabalistici e talmudici. Dunque, ne Il Castello è in qualche modo in questione la verità, l’accesso alla verità e meglio il divieto di accesso alla verità o la scoperta della verità inafferrabile. Su questo divieto pesa la condanna dell’idolatria e la sconsolata consapevolezza dell’estraneità al mondo. Il Processo, dice Blanchot, «ha almeno il vantaggio di far conoscere a K. ciò che avviene realmente, di dissipare le illusioni» circa la sua esistenza nel mondo: «Ma il processo non è ciò nonostante la verità, è al contrario un processo d’errore, come tutto ciò che è legato al di fuori, a quelle tenebre “esteriori” in cui si viene gettati dalla forza dell’esilio, in un processo dove se resta una speranza, è per colui che procede, non controcorrente, per una opposizione sterile, ma nel senso stesso dell’errore»[32]. Non è per questo che ne Il Castello di Kafka[33] l’attesa dell’agrimensore K. per far ingresso nel Castello, simbolo del Potere della Verità, si prolunga all’infinito? Il limite segnato della porta assume le caratteristiche dell’approssimazione all’infinito. Come ha mostrato Deleuze[34] Kafka non era interessato a proclamare la trascendenza della legge, ma il carattere interminabile del processo e dunque della stessa legge, che non esiste senza una sentenza finale. La disimmetria e l’incommensurabilità della legge, altro nome della verità, con la finitezza della vita umana è evidente. Il protagonista del romanzo è convinto della possibilità di far ingresso nel Castello. Molti personaggi, non soltanto i guardiani del Castello, lo inducono a credervi. Ma la cifra dell’Assoluto impegna dimensioni sovrumane. Nella sfera inferiore gli uomini avranno a che fare soltanto con l’inganno, l’illusione, la falsificazione. Nel caso migliore – come quello della conclusione del romanzo, ideata e mai scritta da Kafka – possono accontentarsi di vivere e lavorare nel Castello, ma non di esservi cittadini. Al termine del romanzo Il Processo si giunge ad una conclusione sconsolata: «La logica è bensì incrollabile, ma non resiste ad un uomo che vuol vivere. Dov’era il giudice che egli non aveva mai visto? Dove il supremo tribunale fino al quale non era mai arrivato? Alzai le mani e allargai le dita»[35].

L’ambiguità, la vischiosità, l’indefinito e il rinvio illimitato, l’esilio dalla verità e dal mondo regnano sovrani in Kafka. Ne Il Processo il nome del protagonista, l’arresto senza detenzione durante la visita di due uomini nella sua abitazione, i capi d’imputazione, la data, i tempi e i modi di svolgimento del processo nel quale è imputato, la stessa esecuzione della condanna senza una sentenza: tutto è indeterminato. In tali condizioni diventa impossibile parlare di verità. Il mondo kafkiano è la terra in cui pullulano le falsificazioni. Neppure la promessa di un cambiamento è possibile. La nostra prospettiva non darà luogo ad una visione migliore. La zona intermedia tra il dentro e il fuori, il vero e il falso, si allarga a dismisura. Ma vogliamo qui soffermarci, per concludere, su due brevi testi, il frammento Un messaggio dellimperatore (1917) e il brevissimo inserto Davanti alla legge (1914), che sono stati entrambi raccolti nei Racconti. In Un messaggio dellimperatore[36] si pone in discussione la stessa possibilità di emettere un ordine, attraverso la trasmissione della legge. Una legge non comunicata, non resa pubblica, non può pretendere l’obbedienza. Ma colui che riceve il messaggio, che è anche il messaggero dell’imperatore, non riesce a trovare una via d’uscita, ad uscire dal palazzo, dai cortili, dalla città imperiale. La sua trasmissione diventa un compito assurdo, interminabile, indeterminabile. In Davanti alla legge[37] l’accesso stesso alla legge è impedito dai guardiani, l’uomo che chiede di entrare giunge sino alla morte senza riuscire ad entrare davanti alla legge. L’ingresso è chiuso. Le aspirazioni dei soggetti alla verità, alla giustizia, resteranno tali. La variabile tempo, l’interminabile, vanifica ogni progetto, attraverso un rinvio che si conclude con la morte o con la rinuncia finale alle loro speranze. L’indeterminato, il vischioso, occulta la verità, la depotenzia, la cela per sempre e ne rivela l’irrealtà. È il dominio sovrano della falsità, il mondo della simulazione-dissimulazione che teorizza Baudrillard. L’ordine delle cose, l’ordine delle apparenze, non può più essere confinato o circoscritto né in un soggetto né in un oggetto e neppure in una relazione tra di essi. È ormai la stessa verità ad essere violentata e sottoposta ad una perversione come «sottrazione dell’identità e dell’essere»[38].

 

Note

[1] Le procès de Gilles de Rais (1965), tr. R. Guidieri, Il processo di Gilles de Rais, Guanda, Parma, 1982. I rimandi nel testo si riferiscono all’ed. francese di G.Bataille, Il processo di Gilles de Rais, in Opere complete, vol. X, Gallimard, Paris, 1987

[2] L. Hernandez (pseudonimo di Fernand Fleuret), Le procés inquisitorial de Gilles de Rais avec un essai de réhabilitation, Bibliotheque des curieux, Paris 1921.

[3] C. Perrault, Barbablù,in Id., I racconti di mamma lOca (Contes de ma mère lOye, 1697), Einaudi, Torino 1974. Vedi il testo della prima versione: https://fr.wikisource.org/wiki/ Histoires_ou_Contes_du_temps_passé

[4] M. Tournier, Gilles e Jeanne, Garzanti, Milano, 2001.

[5] Cfr. G. Bataille, op.cit., p. 305. L’autore riconosce che sulle prime morti di bambini il processo dà due «indicazioni contraddittorie».

[6] Cfr. G. Bataille, op.cit., pp. 425-426, con riferimento alla documentazione processuale.

[7] Cfr. Documenti del processo ecclesiastico, in G. Bataille, op.cit. p. 488.

[8] Cfr. op. cit., ivi, pp. 488 e 489.

[9] G. Bataille, Il processo di Gilles de Rais, in Opere Complete, edizione francese, vol. X, Gallimard, Paris, 1987, p. 337.

[10] G. Bataille, op.cit., p. 312.

[11] G. Bataille, op.cit., pp. 503 sgg. Vedi G. Bataille, op.cit., pp. 430-431.

[12] Cfr. S. Reinach, Gilles de Rais, in «Revue de l’université de Bruxelles», 1904, vol. X, pp. 161-182 (in http://psychanalyse-paris.com/1096-Gilles-de-Rais.html#nb1).

[13] Vedi G. Bataille, op.cit., pp.430-431.

[14] Sulla tesi innocentista v. G. Bataille, op.cit., pp.431-434, che muove dei rilievi sulla traduzione «difettosa» dei documenti in latino nel libro di F. Fleuret (L. Hernandez) e sul difetto di conoscenza degli atti del processo civile dello storico delle religioni S. Reinach (v. ivi, p. 432), con riferimento al saggio, citato alla nota 11, poi raccolto in S. Reinach, Gilles de Rais, in Id., Cultes, mythes et religions, Éditions Ernest Leroux, Paris, 1905-1923.

[15] R. L. Stevenson, Lo strano caso del Dr. Jekyll e del Signor Hyde, Einaudi, Torino, 1990, p. 21.

[16] Ibidem.

[17] Ivi, pp. 34 e 71.

[18] Ivi, p. 56.

[19] Ivi, p. 78.

[20] Ivi, p. 79.

[21] Ivi, p. 82.

[22] Ivi, p. 83.

[23] Ivi, p. 94.

[24] Ivi, p. 87.

[25] Ivi, p. 96.

[26] Ivi, p. 98.

[27] Ivi, p. 61.

[28] Ivi, p. 61.

[29] P. Klossowski, Il suggeritore, Sugarco, Milano 1983, p. 25.

[30] Vedi F. Impellizzeri, Lautofabulation erotique de Roberte dan loeuvre de Pierre Klossowski, in «Illuminazioni», 2018, n. 43.

[31] M. Foucault, La prose d’Actéon, in «La Nouvelle Revue française», 1964, n. 135, pp. 444-459.

[32] M. Blanchot, Lo spazio letterario, Einaudi, Torino, 1975, p. 61.

[33] F. Kafka, Il Castello, in Romanzi, Mondadori, Milano, 1996.

[34] G. Deleuze, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 2010, cap. 5.

[35] F. Kafka, Il Processo, in ed. cit., p. 532.

[36] F. Kafka, Un messaggio dellimperatore, in Racconti, ed. cit., pp. 250-251.

[37] F. Kafka, Davanti alla legge, in Racconti, ed. cit., pp. 238-239.

[38] J. Baudrillard, Parole chiave, Armando, Roma 2002.

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Autore: Massimo Piermarini

Docente di filosofia, saggista poliedrico, attento lettore di letteratura, autore di poesie e romanzi, Massimo è scomparso prematuramente nel 2023. Socio storico del Centro per la filosofia Italiana, si era laureato presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza e aveva conseguito il diploma post-laurea del Corso di Perfezionamento in Filosofia del Novecento presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata nel 1998. Tra i suoi campi di ricerca il neoidealismo e la filosofia italiana (in particolare l’attualismo di Gentile), F. Hölderlin, e la poesia tedesca del Novecento, il teatro di Artaud, l’ontologia post-strutturalista (G. Deleuze) e la filosofia francese del dopoguerra, la filosofia della vita. Nell’ultimo periodo si era occupato di Simone Weil, E. Mounier, Ortega y Gasset, Albert Camus, della filosofia riflessiva francese (da Maine de Biran a J. Nabert), del Postmoderno, della mistica di S. Giovanni della Croce e di S. Ignazio di Loyola, della filosofia della mente di Agostino in saggi pubblicati da vari editori (Teseo, Aracne, Manifestolibri, Universitalia, Chirico). Ha pubblicato per l’Editore Aracne una monografia su Ernst Jünger, già oggetto di un Convegno del Centro per la Filosofia Italiana. Autore di due voci del lessico pandemico “Lavoro” per le edizioni Asterios di Trieste. Redattore della rivista “Homo sapiens”, dove ha pubblicato saggi sulla Coscienza, la Violenza nella storia, il Corpo, la Memoria, l’Oblio. Ed è stato caporedattore della rivista di filosofia “Azioni Parallele”. Molti sono i suoi saggi di filosofia e critica letteraria e recensioni.


https://www.asterios.it/catalogo/influenza-lessico-pandemico-n-8