Piccoli mondi

 

Piccoli mondi è un romanzo luminoso e coinvolgente sui legami che ci segnano e i luoghi che ci formano, sul coraggio di seguire le nostre passioni per diventare chi siamo realmente.

 

1
Siccome l’unica cosa che riesce a risolvere gran parte dei nostri
problemi è ballare, è logico che a questo punto, dopo aver visto
sfarfallare le mani Nere levate in preghiera, il pastore abbia invitato
noi fedeli a pregare, e noi abbiamo concesso a quella preghiera di
creare uno spazio, concesso a noi stessi di esplorare le profondità e
le vette del nostro essere, di dire cose sincere e autentiche, e persino
divine. Ci siamo concessi di parlare sia alla persona che siamo che
a quella che vogliamo essere, di parlare a bassa voce, il che è un appello
a rinunciare al bisogno di essere certi, e di chiederci: quand’è
l’ultima volta che ci siamo lasciati andare? Quand’è l’ultima volta
che siamo stati così aperti? E, senza aver avuto il tempo di rispondere,
parte la batteria, improvvisa e sicura. Segue un giro di basso
pompato, che va subito al sodo. Il pianista suona accordi segreti
che vengono dritti dall’anima. Prima che finisca l’intro, come per
magia sul palco appare il coro, e una mano con un microfono, e
un sorriso, mentre la solista scende cantando la sua preghiera: I’m
trading my sorrows, I’m trading my shame. Canta le parole sapendo
che se siamo in quella sala probabilmente abbiamo conosciuto il
dolore, e la vergogna. Conosciamo la morte in molteplici forme,
ma ce la mettiamo tutta per restare vivi. E siccome l’unica cosa che
riesce a risolvere gran parte dei nostri problemi è ballare, mutiamo
il lutto in movimento. Violiamo i limiti delle file, sconfiniamo ai
lati, ci dirigiamo di fronte al palco, andiamo a occupare quello
spazio.
Vedo mio padre più avanti, tra i fedeli, con il corpo scomposto,
fluido, libero. In mano ha un fazzoletto e lo sventola, come
un segnale, come per dire: io sono qui. Papà balla e balla e poi lo
guardiamo mentre rallenta un poco, come se avesse smarrito una
parte di sé. Cerca con gli occhi mia madre. La trova facilmente e
le fa un cenno. Lei lo liquida con un gesto, ma lui non si rassegna,
torna dove siamo noi, la convince a uscire dai ranghi, le loro mani
morbide si intrecciano con affetto, la stringe forte, con le labbra
all’orecchio le dice: sei al sicuro qui; non solo in quell’edificio, o
in quella chiesa, ma tra le sue braccia. Guardo i miei genitori e
vedo che un mondo può essere due persone che occupano uno spazio
dove non servono giustificazioni. Dove possono sentirsi belle.
Dove potrebbero sentirsi libere.
Do di gomito a Raymond. Ci facciamo una risata gioiosa, fraterna.
So che, come per me, per lui la fede è una disputa quotidiana,
so che si è dovuto costruire una chiesa altrove per poter conoscere
se stesso. Improvvisiamo lo stesso passo, un two-step appena
accennato sul posto, perché, nonostante tutto, la musica non si
può negare. In realtà io mi conosco da sempre solo in musica, tra
le note, lì dove la lingua non basta ma forse una batteria potrebbe
riuscirci, a parlare per noi, a parlare per quello che abbiamo nel
cuore. In questo momento, mentre la musica prende ritmo, e si
riavvolge su se stessa, va oltre l’esaltazione, si avvicina all’estasi, la
preghiera decolla, I’m trading my sorrows, I’m trading my shame, e
vorrei ancora dare di gomito a Raymond, per provare a dirgli: magari
riuscissimo sempre a essere così aperti, magari riuscissimo a sentire
sempre un po’ di questa libertà. Non so se trovo le parole. Ma, siccome
l’unica cosa che riesce a risolvere gran parte dei nostri problemi
è ballare, è logico che lì per lì, quando i nostri genitori ci chiamano
con un cenno, io e Raymond li raggiungiamo.
Molto dopo la funzione in chiesa, molto dopo che la giornata
ha perso il suo smalto e il sole è un tenue bagliore, facciamo il
breve tragitto fino a casa dello zio T, che ci aiuta a caricare con
cautela le sue casse sul sedile posteriore dell’auto di Raymond, e ci
insegna a tagliare un cavetto con le pinze, denudarlo con i denti
e poi ritorcerlo e infilarlo nella cassa, e la sua ammonizione di
riportargliele intatte risuona come un’eco in lontananza mentre
andiamo verso casa di Tej, vicino a Walworth Road. Quando accostiamo,
avvisto Adeline, la conosco da tanto tempo che so come
la luce le indugia sul collo, conosco il suo ritmo anche quando
sta ferma e, vedendo che c’è dello spazio tra di noi, le vado vicino,
concedo che dalle profondità del mio essere affiori un sorriso,
concedo che in un abbraccio affettuoso le guance si sfiorino, e nel
separarci le chiedo: quand’è stata l’ultima volta? Prima che lei possa
rispondere: Non è passato molto tempo dall’ultima festa, la porta di
Tej si spalanca e, di lì a poco, non siamo più una o due persone,
ma tante. Di lì a poco, siamo immersi in conversazioni rumorose
e ci concediamo di dire cose sincere e autentiche, e persino divine.
Di lì a poco, sentiamo provenire dall’interno una musica che conosciamo,
violiamo i limiti delle stanze, sconfiniamo in cortile, ci
dirigiamo nella zona di fronte ai piatti del dj, andiamo a occupare
quello spazio, con i bicchieri di carta in mano, retti in alto sopra la
testa, come un segnale, come per dire: noi siamo qui. Molti di noi
riuniti qui hanno perso la fede da diverso tempo, ma nel ritmo ci
crediamo, eccome. Crediamo, eccome, che un pezzo di quattro
minuti sia in grado di dilatare il tempo fino a renderlo irriconoscibile,
e ciascun secondo diventa la propria eternità. Mentre il dj
fa riascoltare ancora una volta “Buy Out Da Bar” di Charmz dall’inizio,
e quell’azione in quanto tale è nostalgia, è una preghiera,
è voler essere la persona che eri solo qualche attimo prima, io penso:
magari riuscissimo sempre a essere così aperti, a muoverci in
modo affettuoso, spalla a spalla, col cuore in mano, energy energy,
gimme that energy energy.
Abbiamo già nostalgia di ieri, quindi di lì a poco Adeline comincia
a mettere canzoni grime. “21 Seconds”, “I Spy”, “Too Many
Man”. Si sente “Pow!” che parte, attacca la grancassa, improvvisa e
sicura. Segue un giro di basso pompato, che va subito al sodo. Nel
giardino risuonano accordi inquietanti. Prima che finisca l’intro,
come per magia Raymond appare al mio fianco, gridando di far
ripartire la canzone. Non c’è tempo per quello che voglio dirgli
prima che ricominci il brano, con quell’intro spoglia e priva di
parole, che lascia spazio a noi. La pista si svuota, spoglia e priva di
corpi, intorno a noi si forma un cerchio, e io e Raymond siamo
come posseduti mentre ne allarghiamo i confini sempre di più verso
l’esterno del giardino. Sentite, sto cercando di raccontarvi cosa
implica stare nel mucchio a pogare: un mondo piccolo e bello in
mezzo al caos, libero, tra membra che si agitano e testi di canzone
mezzo urlati. Di lì a poco, dopo il quinto o sesto riascolto, cominciamo
a stancarci. Di lì a poco scompariamo nella notte, percorrendo
Walworth Road in quattro, affiancati, alla ricerca di cibo.
Di lì a poco ci troviamo da Bagel King, l’unico posto di nostra
conoscenza che non chiude mai. Di lì a poco Raymond mi stringe
la spalla e mi bisbiglia all’orecchio: tutto a posto, vero?, e io annuisco
nello spazio che mi lascia. Di lì a poco sento un braccio che mi avvolge
da dietro e so che è Del. Ci conosciamo da tanto tempo che
sa come la luce mi indugia sul collo, conosce il mio ritmo anche
quando sto fermo. Di lì a poco ci mettiamo a cantare con le casse
del telefono in sottofondo, e, siccome l’unica cosa che potrebbe
risolvere gran parte dei nostri problemi è ballare, improvvisiamo
un two-step sul marciapiede.
Di lì a poco, troppo poco, è ora di andarcene. Chi di noi è in
coppia sparisce nella notte, stringendosi ancora di più. Chi è single
brama ginocchia che si urtano nel percorso verso casa, la pelle che
si sfiora sulla soglia, l’invito a entrare in una casa dove i genitori
non ci sono. Siamo giovani e spesso fatichiamo a esprimere con
precisione quello di cui abbiamo bisogno, ma so che tutti diamo
molta importanza all’intimità.
È a questo che penso quando io e Del prendiamo l’autobus
notturno per Peckham: Raymond è sparito nella notte, e siamo
solo io e lei. Durante il breve tragitto lei dorme, e mi appoggia la
guancia morbida sulla spalla. Scendiamo dal bus e percorriamo la
sua via, e sulla porta di casa c’è una luce tenue, come un segnale.
È il momento più silenzioso di tutta la serata. La fisso. Mi metto
le mani in tasca e sposto lo sguardo a terra, prima di darle un’altra
occhiata furtiva. Lei sorride della mia timidezza e io ricambio. Qui,
quando sono con lei, sono consapevole che un mondo può essere
fatto di due persone, che occupano uno spazio dove non servono
giustificazioni. Dove possiamo sentirci belli. Dove potremmo sentirci
liberi.
Le labbra di Del si accasano per un attimo sulla mia guancia e
ci abbracciamo. Niente addii (conosciamo la morte in molteplici
forme, e un addio sembra una fine) ma, dopo l’abbraccio, ci battiamo
il pugno piano dicendo: a presto, che non è tanto un addio,
quanto la promessa di restare vivi.

2

Qualche ora dopo, il sole si insinua da uno spiraglio tra le tende.
È troppo presto, lo so anche senza guardare l’ora. Il letto di
Ray è vuoto, disfatto. Mi costringo ad alzarmi e uscire, sapendo
che devo andare al lavoro. Il mondo vacilla per un attimo, poi si
raddrizza. Al piano di sotto c’è Ray stravaccato sul divano, con una
bottiglia di birra in mano, come se la festa non fosse mai finita.
«È un po’ presto per bere», gli faccio, con un cenno alla bottiglia.
«È un po’ presto per vederti alzato».
«Giusto. Dov’è la mamma?».
«È uscita».
«Dov’è papà?».
«È uscito».
Alla tv trasmettono la sintesi dei gol della giornata. So che Ray
riesce a parlare, o a guardare gli highlights, ma non le due cose
contemporaneamente, quindi lascio perdere per un po’ e me ne
vado in cucina a cercare da mangiare nel frigo. La maggior parte
dei contenitori è piena di pietanze che devono essere costate fatica
alla mamma, roba pesante fatta da lei, il tipo di cibo che può riempire
di nostalgia la casa per un giorno intero, che magari ti divori
in fretta e poi entri in uno stato di catalessi nel quale riesci solo ad
annuire e dire quanto era buono. Sapendo che non posso andare
al lavoro in quelle condizioni, continuo a cercare qualcosa di più
leggero, e trovo un sacchetto di carta marrone nello sportello del
frigo. Dentro ci sono due hamburger. Li scaldo e ne impiatto uno
per me e l’altro per Ray. Quando torno di là lui toglie le gambe dal
divano e mi fa posto. Mangiamo in fretta, i bocconi sono un po’
troppo caldi, ma comunque mangiamo.
«Oggi che fai?».
Ray, con un cenno del capo, alza le spalle. «Boh, non ho idea.
Magari vado da Deb».
«Deb? Vuoi dire Tej, forse?».
«Nah, ce l’ha con me».
«Perché?».
«Perché continuo a vedermi con Deb».
«Sei in cerca di guai, vecchio».
«Io? Mai e poi mai», dice, con un sorriso infantile e poco convincente.
Torna a stravaccarsi sul divano e sbadiglia forte. «Tu che fai?».
«Lavoro. Senti, ho bisogno di un favore».
«Se vuoi soldi, non ne ho».
«No… Mi serve il tuo completo in prestito. Per il ballo della
scuola».
Ray fa una smorfia perplessa. «Ma dai, non mi dire che il ballo
è stasera?».
«Già».
A quel punto Ray si trasforma, diventa nostro padre, gonfia il
petto, parla con voce profonda e sicura.
«Voi giovani, sempre lastminute.com, vi piace troppo fare così!».
Raymond non ha bisogno di scuse per continuare, ma prende
la mia risata come un segnale, e attacca con il monologo preferito
di nostro padre: «Quando avevo la vostra età…». Alla mia età,
diciotto anni, papà si era già trasferito da Accra a Londra, aveva
già cominciato a farsi una vita, e gli piace ricordarcelo spesso. Raymond
inizia a esagerare con il tono e i contenuti, finché siamo
piegati in due dal ridere, e scivoliamo in un silenzio che non è
imbarazzante. Da fuori sentiamo uno scalpiccio di piedi, palloni
che rimbalzano, bambini che vanno a passare la giornata estiva nel
parco. Ray beve un sorso di birra, poi riflette, prima di chiedere:
«Ci vai con Del?».
«Sì, ma non in quel senso».
«Certo».
Io e Del ci conosciamo da sempre, anche da prima che i nostri
padri cominciassero ad andare al bar Gold Coast a bere drink lisci,
sperando che quella specie di stupido coraggio potesse avvicinarli
a qualcosa di spirituale, avvicinarli a se stessi. Il modo in cui ci
conosciamo noi due è diverso da quando vedi qualcuno dall’altra
parte della stanza, ti scambi un breve e timido sorriso, magari fai
finta di niente e aspetti che sia l’altro a venire da te, oppure chiedi
a un amico di presentarvi. Abbiamo il tempo dalla nostra parte.
Sono passati più di dieci anni dal giorno in cui, durante una gita
scolastica alla fattoria, avevo scordato il pranzo al sacco sul pullman
che era già ripartito. Mi vergognavo troppo per dire qualcosa. Non
eravamo amici, ma lei si era accorta che mi comportavo in modo
strano mentre tutti gli altri aprivano i panini. Ne ho uno in più, mi
aveva sussurrato – suo padre aveva sempre paura che quello che le
dava non bastasse – e, seduti vicini, come se lo avessimo già fatto
molte altre volte, aprì il cestino del pranzo, dove c’erano un panino,
un po’ di frutta e una ciambella a testa.
Tra noi c’è un rapporto di fiducia, costruito grazie al tempo
passato insieme: da piccoli, facendo gare di corsa su e giù per lo
stesso pezzo di parco giochi, fino a quando le gambe non ci reggevano
più; con i giri in centro nei primi anni dell’adolescenza, e la
sua risata profonda che era la colonna portante delle nostre giornate,
da Marble Arch a Oxford Circus a St James’s Park: Del, l’anima
e lo spirito del gruppo, il nostro collante, fino a quando non si
stancava e allora, al nostro segnale segreto, quello che tra di noi
chiamiamo il doppio occhiolino – lei non è capace di farlo, riesce
solo a sbattere le palpebre, strizzando gli occhi per un attimo – ce
ne andavamo, tornando verso Peckham, inventandoci giochi per
tenere svegli i corpi stanchi sull’autobus durante il viaggio di ritorno.
E adesso stiamo io e lei da soli, ogni volta che possiamo, perché
è facile, perché lo vogliamo, perché possiamo. Nell’ultimo periodo,
quando sua zia non è in casa, ci mettiamo a frugare tra i dischi di
suo padre. Ci conosciamo da tanto tempo che so quali preferisce a
seconda dell’umore: +’Justments di Bill Withers per i momenti di
tenerezza; Bitches Brew, per la bellezza della sua spontaneità, del
suo coraggio; Curtis, quando ha bisogno di muoversi. Ci conosciamo
da tanto tempo da sapere che, quando apprezza una sequenza
o una frase musicale, le si addolciscono i lineamenti, posseduti da
qualcosa di simile alla meraviglia. Ci conosciamo da tanto tempo
che non so quale nome dare a tutte queste informazioni.
«Non ti arrabbiare se qualcun altro ci prova con lei, è questo
che dico. Vecchio, se non vuoi farlo tu, forse è il caso che vado io a
capire cosa ne dice lei».
Mi si irrigidisce il corpo prima ancora di riuscire a parlare. E
intanto mio fratello fa di nuovo il suo sorriso infantile.
«Hai capito? Non aspettare, fra’. Voi giovani, sempre lastminute.
com. Vuoi una birra?».
«No, sono a posto così». Ray mi lascia per un attimo, mi lascia
con quelle sensazioni. Poi torna con una birra per sé e un succo di
frutta per me e brindiamo con il collo delle bottiglie, poi entrambi
ne beviamo una sorsata, Ray indica lo schermo e inizia a parlarmi
delle possibilità che ha la squadra del Ghana ai prossimi Mondiali.
Annuisco mentre parla e cerco di non distrarmi, ma il cervello vaga
comunque: da qualche parte con Del, magari a casa sua a sentire
un disco, qualcosa di lento, caldo e bello, dove ci siamo solo io e lei
e il tempo che passiamo insieme. Ma Ray, che è sempre il più sveglio
in ogni circostanza, mi richiama facilmente all’attenzione, gli
basta lanciare uno strepito quando qualcuno segna alla tv, e iniziare
a spiegarmi come e perché ha fatto gol.
Mentre parla, comincio a capire che questi momenti con Ray
hanno una durata circoscritta. Ora è estate e arriverà settembre e
poi io andrò via per l’università. Lui resterà qui e io non ci sarò.
Mi chino in avanti sul divano e gli faccio delle domande. Esulto
di fronte allo schermo nel momento in cui lo fa lui. Gli chiedo di
più sulle sue imprese sentimentali e rido per l’assurdità dei suoi
racconti, lasciandomi scaldare dal suo sorriso contagioso.
Mi crogiolo nel fulgore di mio fratello maggiore.

 

3

Dato che è estate, e saremo giovani fino a settembre, non sono l’unico che inizia tardi la giornata. Quando cammino per il quartiere, un uomo che potrebbe essere il mio specchio cerca di chiudere delicatamente la porta, fa una smorfia quando sbatte un po’ forte. Vede che lo guardo, alza le spalle, sorride, come per dire “Cosa dovrei fare?” » prima di aggiustarsi il colletto della camicia, allontanandosi con un bel passo, il corpo leggermente inclinato. Lo seguo, prendiamo un passaggio sotterraneo, superiamo un gruppo che si tiene al muro mentre cerca di motivarsi per la serata. Sento uno di loro che insiste per una festa a Deptford. Gli altri lo prendono in giro e lo scherniscono finché non emerge la verità: vuole andare solo perché ci sarà la ragazza che lo schiaccia, che è stanco di aspettare, che spera di fare una mossa . Il coro esclama “Allora perché non l’hai detto? “. Perché è estate, e saremo tutti giovani fino a settembre, faranno di tutto per i loro fratelli, consanguinei e non. Più avanti, dopo la zona polisportiva, dove i calciatori sono arrivati ​​in anticipo, occupano tutto il piccolo campo, un giovane controlla la palla con un tocco delicatissimo, come se fosse sua e solo sua e che tutti gli altri giocatori fossero solo prendendolo in prestito. Passiamo davanti a Uncle T’s, dove, essendo estate, il dub fa tremare le finestre, un fischio esce da uno spiraglio tra le finestre. Vedo le sue extension con dreadlock raccolte in uno chignon sopra un viso gentile e una bocca piena d’oro. Canta come se stesse facendo una serenata alla sua amante al tramonto, ma so che c’è solo lui nella stanza. “Aspettando invano”, di Bob Marley. Alzo la mano per salutarlo, lui fa lo stesso e, in questo momento, ricordo, immagine e potenzialità si sovrappongono. Come in: Lo zio T canta per un ex amante; mio padre ventenne, che decideva dove andare a festeggiare a Londra, per trovare la libertà; me tra qualche anno, cercando di non sbattere la porta di uno sconosciuto incontrato il giorno prima. Cosa succede al tempo quando arriva l’estate?

*

Siamo sicuri che mia zia, zia Yaa, abbia la più grande boutique afro-caraibica di Peckham; A sud di Londra, forse. Appena dietro Rye Lane, vai verso Peckham High Street, all’angolo, subito prima della biblioteca, e la trovi. Contiene tutto il necessario per chi vuole costruire qualcosa qui, lontano da casa. Igname, platano, polvere di kenkey e fufu, melanzane africane, gombo, peperoni scozzesi, pesce essiccato in tutta la scatola, Supermalt in tutta la scatola. Per lei, per molti di noi, il cibo non è solo un mezzo di sussistenza, ma un ricordo, una nostalgia; un modo per sedare l’invidia, un modo per costruire nuove basi. La zia rimanda anche le cose a casa, permettendo alle persone di spedire pezzi di se stesse in modo che i loro cari possano tenerle tra le mani. Una persona abituale, Dorcas, invia una volta al mese una scatola di cereali e dolci, biscotti allo zenzero, tè Weetabix e Tetley a sua sorella in Ghana. Dorcas continua a dire che è stata lei a fare la spesa, quindi spera che sia come se non se ne fosse mai andata. Prima di sigillare la scatola, mette una sua foto sul cibo, così il suo sorriso accoglierà la sorella al suo arrivo.

All’ingresso troverai lo zio D, che non è imparentato con nessuno eppure è imparentato con tutti. È un uomo allegro, di mezza età, che indossa sempre occhiali da aviatore con lenti trasparenti. Non ho mai scoperto se fosse ufficialmente impiegato nel negozio, ma nel primo pomeriggio lo vedrai spazzare i piedi, mostrare ai clienti dove sono i prodotti, sorridere e ridere. Al calar della sera, una Guinness in mano, una o due bottiglie al giorno. Direi che è la guardia di sicurezza del negozio, ma l’unica volta in cui sarebbe potuto intervenire è stata quando Koby, un amico di Ray, è entrato nel negozio, senza fiato, implorando di lasciarlo nascondere da qualche parte, e pochi minuti dopo diversi ragazzi entrarono e chiesero che gli fosse consegnato Koby, lo zio fece una faccia tosta, ma la zia lo respinse con un calcio. Invece, ha chiesto a ciascuno di questi ragazzi chi fossero i loro genitori e poi ha chiesto informazioni su di loro. Chi stava facendo cosa e in quale scuola, chi aveva segnato il gol della vittoria il fine settimana precedente? La zia capiva che la rabbia era un’emozione necessaria, ma spesso mal indirizzata; e la morte che conosciamo in tutte le sue forme approfitta di questo errore di direzione per crescere e moltiplicarsi, errore dovuto in gran parte alla mancanza di spazio . Fece questa breve accusa, poi li mandò a casa con burro di karitè per i loro capelli e pasticci di carne per la loro fame.

Sono dietro il bancone quando Del entra barcollando, spinto via dal caldo. Tiene in equilibrio la cassa del contrabbasso contro un tratto di muro ancora libero e si fa strada attraverso il labirinto di tavoli per raggiungere il bancone. Una catenella con un minuscolo ciondolo – quello di suo padre – le pende dal collo. La luce gli allarga gli occhi, un lieve sorriso illumina i suoi lineamenti. Lei è bella. Vorrei dirglielo, ma a parte nelle canzoni o nei film, non ho mai sentito dire quelle parole. Eppure, in questo momento, sono più vicino a lei, forse perché sono più vicino a me stesso, più vicino a sapere cosa provo per lei.

Devo aver perso gli occhi nel vago, perché lei mi dice:

– Che cosa ?

– Niente.

Lei non insiste e si siede al bancone. Apro una bottiglia di Fanta, ne verso metà con ghiaccio. Beve, a grandi sorsi, prima di girarsi sul sedile per avere la mia stessa visione della stanza. Una coppia, hanno occhi solo l’uno per l’altro, le mani intrecciate al centro del tavolo; un altro, stanno giocando a carte, apparentemente bloccati in un vicolo cieco; e una donna, con una penna in mano, che scarabocchia su un taccuino. “Peace on Earth” di Ebo Taylor è disattivato.

—Cosa pensi che stia succedendo tra loro? gli ho chiesto gentilmente.

– Ha commesso un errore e lei ha finito per perdonarlo.

—Come fai a sapere che è lui?

 E’ sempre lui a sbagliare. Non prenderla a male. E’ così, tutto qui.

– Se vuoi. E gli altri ?

— Penso… che siano amici. Stiamo per andare a vivere insieme. Il vincitore ottiene la stanza più grande. E questa donna… scrive una storia.

– Su cosa ?

— Due giovani d’estate.

—Ci somiglia.

“Potrebbe”, dice con un sorriso, alzando le spalle. Ma d’estate siamo tutti più giovani.

Si gira verso di me proprio mentre zia Yaa emerge dalla stanza sul retro e, per un breve momento, si dimentica di me. Si prendono il viso tra i palmi delle mani; salutatevi come sorelle. Zia Yaa ha perso i suoi genitori nello stesso modo in cui li ha persi Del; una madre che non è sopravvissuta al parto, un padre che ha resistito finché ha potuto, ma che ha finito per perdere la lotta contro il suo specchio. Zia Yaa e Del, uniti da qualcosa che non saprò mai.

– E tu come stai ?

«Sto bene, zia.

— Hai superato l’audizione?

– Non ancora.

— Lo supererai.

Io e Del chiniamo la testa. Entrambi abbiamo fatto domanda per l’università di musica. Anche con un prestito studentesco, questo sarà possibile solo con una borsa di studio e ogni giorno che passa senza notizie sembra renderlo sempre meno probabile. Ci sono solo una manciata di posti. Sembra arbitrario affidarsi a un piccolo gruppo di persone per decidere se siamo abbastanza bravi o no, quando fino ad ora il giudizio che davamo su noi stessi si basava principalmente sui sentimenti .

Del e io suoniamo con una band, soprattutto la sera e nei fine settimana. Sono passati alcuni anni. Ci dicono che suoniamo jazz, ma se ci chiedessero cosa significa, probabilmente ci indicheremmo l’un l’altro con un’alzata di spalle e un sorriso. Non è tanto che non lo sappiamo, è semplicemente che non sappiamo spiegare questa strana espressione di improvvisazione, quando entriamo in uno spazio e ci spostiamo verso l’ignoto. Di solito è Theo a farci iniziare, qualcosa di rapido e sicuro, il suo tocco sulla batteria suona come un richiamo all’attenzione. Entra Del, le note del suo basso spesse come un muro, costruisce un posto dove possiamo sistemarci, e io mi precipito nella casa che ha appena costruito, mi intrufolo nelle note della mia tromba. Poiché viviamo tutti in zona, convergiamo sul più piccolo punto di raccolta disponibile: le sale prove della scuola, gli studi musicali di cui qualcuno ci ha dato le chiavi, o più in generale la cucina o il garage di qualcuno. Una volta ci siamo caricati su due macchine e ci siamo diretti a sud verso Beckenham Place Park, che si estende all’infinito. Era primavera e la nuova vita sembrava sbocciare ovunque. Tutto era possibile. Abbiamo trascinato i nostri strumenti in una zona boscosa, abbiamo formato un cerchio e abbiamo inviato suoni agli alberi. Poco prima che iniziassimo a suonare, qualcuno ha messo un registratore al centro del nostro gruppetto, non perché pensassimo di non ricordare, ma perché non volevamo dimenticare.

Mentre suonavamo, le mie dita scivolarono, una nota strana uscì dalla mia tromba. L’errore non è passato inosservato, ma abbiamo continuato. Mi sono sentito grato per la libertà che avevo di abitare questo spazio, di commettere un errore; per il fatto che questo errore poteva apparire bello all’orecchio attento; per il modo in cui Del, dopo aver sentito quella nota, ha seguito la sua, adattando il suo ritmo; per il modo in cui tutti noi abbiamo accompagnato questa svolta, abbandonandoci all’ignoto verso cui andavamo, qualunque esso fosse. È stato allora che ho notato che conoscevo veramente me stesso solo attraverso la musica. Nella calma, nella libertà, nell’abbandono.

Più tardi, quando siamo tornati alle macchine, stanchi eppure così integri, abbiamo detto cose del tipo: non sapevo di averne bisogno o era un’esperienza spirituale . Stiamo cercando da un po’ – Del e io – di attingere a questa spiritualità, di essere ottimisti, di avere fede. Ma l’attesa è difficile. Soprattutto quando dall’altra parte di questa attesa le nostre strade potrebbero prendere strade separate, un’idea che non abbiamo mai discusso, abbiamo sempre dato per scontato che in qualche modo saremmo rimasti vicini. Nessuno di noi vuole chiedersi cosa accadrà allora; se questi ultimi giorni di liceo, d’estate, sono gli ultimi giorni di vicinanza che ci restano.

“Vale la pena aspettare”, dice zia Yaa, come se sapesse cosa abbiamo in mente.

Lei si allontana e Del lancia un’occhiata all’orologio.

“Sarebbe meglio se mi trasferissi anch’io”, ha detto.

– Già ?

— Ho detto a Theo e ai suoi ragazzi che avrei suonato con loro. Sono appena venuto a trovarti.

– Aspetta !

– SÌ ?

“Sei… andrai al ballo di fine anno con qualcuno?”

— Eh…

Abbassa lo sguardo, pensando a come dire quello che ha da dire. Il mio cuore si spezza un po’ nel silenzio.

—Qualcuno te lo ha già chiesto.

Questa non è un’accusa, ma un dato di fatto.

– Sì. E’ Johnny. Ieri.

Johnny, un chitarrista, suona spesso con noi. In un certo senso, condividere queste brevi intimità con lui mi fa sentire peggio, ma non lo dico a Del. E cosa ci sarebbe da dire?

– E’ bello.

— Visto che non me l’hai chiesto, ho pensato che avessi altri progetti…

— Sì, no… ehm…

Alzo le spalle. Nessuno di noi può incontrare lo sguardo dell’altro.

— E comunque questo non significa niente, giusto?

– NO.

Mi chiedo se ci crediamo entrambi. C’è un nuovo silenzio verso il quale nessuno dei due vuole andare. Del si dirama.

— Ci divertiremo. E nonostante tutto, mi devi un ballo.

-Eh?

— Il matrimonio di tuo cugino? Ti sei rifiutato di ballare con me.

— Non ho rifiutato. Avevo bevuto troppo.

– È lo stesso.

Emette un sospiro, come se non si fosse accorta di essere in apnea.

— Io, ehm…

Abbassa di nuovo lo sguardo, poi incontra il mio sguardo.

– Arrivederci.

— Sì, a tutto.

Lei si volta, prende in mano il contrabbasso mentre si dirige verso l’uscita, si gira per salutarmi prima di andarsene. Fisso lo specchio sulla parete laterale del bar, chiedendomi se mi fornirà qualche risposta. Qualcosa è cambiato, si è spostato tra di noi; O forse è sempre stato così e abbiamo semplicemente scelto di non vederlo.

____________

Caleb Azumah Nelson fotografo e scrittore, è nato nel 1993 e vive nel sud-est di Londra. Come fotografo ha vinto numerosi premi tra cui il Palm Photo Prize e il People’s Choice Prize. Il suo libro di debutto, “Mare aperto”, pubblicato in Blu Atlantide nel 2021, è stato accolto dalla stampa internazionale come uno dei migliori esordi del decennio, ha vinto numerosi premi letterari ed è stato per settimane il romanzo più venduto in Inghilterra. “Piccoli mondi”, suo secondo libro, appena pubblicato è immediatamente arrivato ai vertici delle classifiche inglesi.