E se l’errore fosse ab origine? Se la ragione di tanti, tragici fallimenti non dipendesse dalla correttezza delle analisi della situazione e nemmeno dall’appropriatezza degli obiettivi da raggiungere1, ma dall’errata impostazione del problema? Ovvero, dalla scelta del chi e del come dovrebbe agire per ottenere i risultati desiderati? Affidare la cura delle relazioni tra gli esseri umani e tra loro e la natura agli apparati di governo degli stati significa infilarla in un binario morto. È sbagliato aspettarsi che a risolvere le crisi planetarie, umane ed ecologiche, siano coloro che le hanno create.
Allora, forse, è necessario rovesciare l’approccio ai problemi; smetterla di delegare la loro soluzione a chi occupa le posizioni di potere ai vertici dell’economia, della tecnoscienza, della politica e affidarli invece alle comunità insediate nei territori2, alle popolazioni direttamente responsabili della bontà delle relazioni tra gli esseri umani e tra loro e gli ecosistemi di appartenenza.
1. La salute del Pianeta
Cominciamo dalla salute del pianeta. Quando una cinquantina di anni fa (prendiamo come punto di riferimento simbolico la prima conferenza Onu sull’“ambiente umano” di Stoccolma del 1972) fu evidente al mondo che l’impatto delle attività economiche sulla biosfera avrebbe avuto conseguenze catastrofiche, al capezzale della Terra furono chiamati, su pressione delle popolazioni allarmate e arrabbiate, i grandi poteri istituzionali, i quali cominciarono ad elaborare soluzioni globali. Ogni stato, ogni comparto dell’economia e ogni popolazione del pianeta avrebbe dovuto fare la propria parte per rientrare nei limiti della sostenibilità ecologica. Ossia, consentire alla vita di continuare a riprodursi. Tutto molto chiaro e razionale. Il mondo scientifico era preparato e ha fornito tutti gli elementi quali-quantitativi utili a comprendere la fisiologia di ciascun ecosistema, nonché le innumerevoli e complesse relazioni che li legano assieme. L’ecologia è così diventata un modo comune di pensare e di esprimersi. Non solo la comunità scientifica, anche le principali autorità intellettuali, morali e religiose – pensiamo alle due encicliche di papa Bergoglio – hanno fatto pesare il loro prestigio. Tutti sappiamo ormai che ogni cosa, ente, processo naturale è interconnesso e interdipendente. Il genere umano è una parte (piccola) del tutto (l’immenso universo) e ce ne dobbiamo rendere conto umilmente, pena il nostro benessere e, forse, la stessa sopravvivenza come specie. I pubblici poteri – si è detto e ripetuto – sono chiamati ad una prova epocale di civiltà, di collaborazione e di responsabilità intergenerazionale e intraspecie.
Peccato che attorno al malato sia invece andato in scena un indecoroso “Balletto delle nazioni”3, ovvero un tragico gioco di egoismi, manipolazioni, reciproci inganni. Commissioni tecniche e diplomatiche, nuove tecno-burocrazie specializzate in ambiente, hanno cominciato a discutere e discutere in congressi, conferenze, summit per decidere secondo quali parametri avrebbe dovuto essere ripartito il peso degli interventi (consistenza della popolazione, estensione e qualità dei territori, disponibilità economiche, responsabilità storiche accumulate…); con quali metodologie, tecnologie, risorse finanziarie si sarebbe dovuto intervenire; quali autorità avrebbero dovuto misurare e controllare gli effetti; chi avrebbe dovuto muovere il primo passo e, nel caso di inadempienze, chi e come avrebbe avuto il potere di intervenire anche nei confronti degli stati pervicacemente “negazionisti”?
La storia delle Conferenze sul clima (Cop) dell’Onu sono una tragica rappresentazione dell’impotenza del sistema: «Palcoscenici per una classe dirigente globale che recita a favore di audience nazionali», come le ha definite il sociologo Filippo Barbera4. Così, la mancanza di una governace transnazionale condivisa ha lasciato la questione ecologica al buon cuore dei governi dei singoli stati. Peggio, molto peggio. C’è chi si è approfittato dell’inattivismo degli stati inventandosi regole tutte sue, tanto “volontarie” quanto discrezionali al fine di compensare le proprie malefatte, acquistare indulgenze con poca spesa ed esternalizzare le scorie, vendere tecnologie a caro prezzo e impadronirsi di risorse vergini. Esaurita la terra, si guarda ora ai fondali degli oceani e allo spazio stratosferico; estinte le specie, ci si appropria dei semi, dei genomi e la stessa mente umana viene catturata e intrappolata da dispositivi tecnologici. Dietro il paravento retorico delle narrazioni della lotta al cambiamento climatico, della conservazione delle foreste, dell’accesso all’acqua, della “transizione ecologica giusta” la natura è diventata in realtà il campo di battaglia e – al contempo – l’arma della guerra permanente che gli stati combattono per l’egemonia economica e geopolitica.
I fallimenti di tanti accordi, protocolli, trattati transnazionali 5 non derivano da un deficit di coerenza e rettitudine morale di questo o quel governo, dalla mancanza di risolutezza e ambizione delle leadership politiche di turno – come solitamente viene detto e si tende a credere -, ma, al contrario, dalla spietata e coerente razionalità del sistema socioeconomico che si è instaurato nel mondo e di cui gli stati nazionali, variamente associati tra loro, ne sono i legittimi garanti.
Quali margini di libertà possono avere i governi se le loro stesse risorse finanziarie dipendono dall’espansione economica? L’immedesimazione tra stato e mercato, tra diritto e proprietà, tra profitto e accumulazione, tra denaro e potere politico determina il tipo di scelte sociali e ambientali.
Ingabbiate in questa logica economica monodimensionale, le uniche politiche ecologiche che i governi riescono a concepire sono quelle offerte dai meccanismi di mercato: imporre un prezzo artificiale alle risorse naturali (cap and trade system, Carbon Border Adjustment Mechanism, Emissions Trading System, oneri di concessione, imposte e sconti fiscali vari) nella speranza che ciò incoraggi le imprese ad essere meno estrattiviste ed inquinanti. Una pia illusione, per almeno due motivi: sotteso ad ogni processo produttivo di valore economico vi è sempre un flusso di energia e di materia che intacca inesorabilmente il “capitale naturale” (come insegna la Bioeconomia); secondo, la mercificazione dei “servizi ambientali” non fa altro che ridurli ad asset produttivi delle imprese di capitale. Risultato: nessun decoupling, nessun sganciamento tra crescita economica e impatti ambientali sarà mai possibile rimanendo all’interno di un regime di crescita economica indefinita e indeterminata. Nessuna decarbonizzazione senza demercificazione. Nessuna sostenibilità senza decrescita. Nessuna guarigione dalle crisi ecologiche senza condivisione e giustizia sociale. Nessuna presa in cura del pianeta senza la diretta assunzione di responsabilità da parte dei suoi abitanti. È tempo di ritirare la delega ai governi degli stati.
Il trasferimento delle politiche ambientali a scala globale (sequestrate dalle negoziazioni transnazionali) ha in realtà comportato l’esproprio e la deresponsabilizzazione delle comunità locali. Dimenticando che non esistono “problemi globali” che non siano originati da azioni distruttive innescate “al suolo”. Le soluzioni che non partono dai territori rischiano di essere mere congetture, scommesse inverificabili giocate sul futuro, cieco affidamento a miracolose soluzioni tecnologiche.
Quindi, è forse giunto il momento di cambiare strategia e non affidare la soluzione delle crisi ecologiche alle conferenze internazionali. Un grande studioso italiano del metabolismo delle merci in relazione ai cicli vitali del pianeta, Giorgio Nebbia, scriveva già molti anni fa pagine disincantate: «È un’illusione credere che le Nazioni Unite o le sue polizie, o gli accordi internazionali, abbiano una qualche efficacia per la difesa degli oppressi, dei poveri, dell’ambiente dallo strapotere delle società multinazionali» (Giorgio Nebbia, Crescita, etica, economia. A un quarto di secolo dal Club di Roma, in Ecologia Politica, DataNews, giugno 1997). Allora erano le “sette sorelle” del petrolio a monopolizzare l’economia, ora è il Gafam, il cartello delle cinque maggiori multinazionali dell’IT occidentali (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft).
La ragione dei fallimenti sta proprio nell’aver delegato la “salvezza del pianeta” alle grandi istituzioni internazionali. Lo ha spiegato bene qualche tempo fa un attento osservatore latinoamericano, da poco vento a mancarci, Gustavo Esteva:
«L’invenzione dell’ecologia globale, in occasione del Vertice sulla terra di Rio, nel 1992, mise il problema nelle mani dei governi e delle corporation che sono invece la principale causa della distruzione ambientale». (G. Esteva, El día después. Se está produciendo un despertar, Ibero, aprile 2020).
Per contrastare fenomeni planetari come il caos climatico – così come la estinzione di massa delle specie viventi o la acidificazione e “plastificazione” degli oceani – in assenza di una governance globale multilivello, si potrebbe allora pensare di capovolgere la logica top-down e ripartire “rasoterra”, dal locale, da programmi unilaterali di rinaturalizzazione dei territori, elaborati e gestiti direttamente dai popoli indigeni e dalle popolazioni residenti, mirati alla conservazione dei singoli ecosistemi nelle specifiche bioregioni. Probabilmente, la loro somma otterrebbe risultati migliori anche a scala mondiale6. Le controprove positive sono molte. Ad esempio, il referendum in Ecuador che ha stabilito la chiusura delle trivellazioni petrolifere nel parco nazionale Yasuni, dopo vent’anni di lotte delle popolazioni waorani. Fino alle lotte dei contadini francesi de Les Soulèvements de la terre. Ma i casi sarebbero molti7. Le condizioni di abitabilità della Terra si difendono albero per albero, siepe dopo siepe, campo per campo, falda per falda, torrente per torrente, collina per collina… Partendo da qui potremmo immaginare di creare corridoi verdi che collegano tra loro gli insediamenti urbani; potremmo creare reti ecologiche e migliorare le relazioni comunitarie; integrare natura e società. Solo una strategia lillipuziana può imbrigliare il mostro malefico del produttivismo e del profitto che sta letteralmente appestando il pianeta rovinandoci la vita. La preservazione delle basi materiali dell’esistenza è una lotta che si gioca quotidianamente, in un corpo a corpo tra le migliori energie vitali presenti sui territori e i plutocrati a capo delle congregazioni tecnofinanziarie che dominano i mercati e controllano gli stati e le istituzioni internazionali.
2. La tempesta della guerra
La crisi ecologica è “solo” un riflesso dello stato drammatico in cui versa la convivenza tra i popoli. La tempesta della guerra è tornata ad alzarsi e si diffonde. In realtà non si è mai placata. L’“ultima guerra” non finisce mai. Dov’è iniziata? Cosa l’ha provocata? Chi sono i colpevoli? Intanto che se ne discute all’Onu, nelle conferenze intergovernative, sui giornali e nelle piazze virtuali la spirale di odio e di violenza si allarga. Una sola cosa è certa: sappiamo chi sono le vittime. Non i militari, non le fazioni armate in lotta, nemmeno gli osservatori delle diplomazie degli stati, ma bambini, donne, civili che hanno avuto la sfortuna di essere nati e di abitare in terre contese e di essere per questo i bersagli primi delle strategie militari. L’unico punto di vista umanamente accettabile è il loro. Quindi: ceasefire, subito, ovunque, immediatamente. In Palestina come in Ucraina, in Yemen come in Sudan e nelle altre decine di conflitti armati in corso nel mondo8. Cessi l’orribile massacro, gli eserciti si tolgano dal campo, gli uomini si ravvedano e smettano di farsi assassini.
Questa è la precondizione indispensabile, ma non basta. La pace vera non può essere solo tregua tra le guerre. La pace duratura dipende dalla realizzazione di un sistema di modalità di convivenza tra persone di diverse appartenenze nazionali, religiose, etniche. Convivenza significa vivere insieme, condividere la comune condizione umana, imparare a soddisfare equamente i bisogni di tutte/i gli abitanti presenti e futuri.
L’ostilità che conduce alle guerre tra i popoli ha radici nel fanatismo religioso, nel suprematismo razzista, nel colonialismo economico, nel patriottismo nazionalista, nel sessismo maschilista. Questi terribili pregiudizi culturali sono il frutto di una concezione della vita e di un modo di essere fondati sul conflitto permanente per imporre il proprio potere sugli altri e su ogni elemento naturale. Questa è la ragione per cui, come ha scritto Judith Butler:
«A dispetto di tutti gli sforzi profusi per circoscrivere l’uso della violenza al rango di mezzo diventa inevitabilmente fine a sé stessa, producendo nuova violenza, riproducendola, reiterando la licenza e autorizzando altra violenza. La violenza non si esaurisce nella realizzazione di un dato obiettivo; al contrario si rinnova in direzioni che eccedono tanto le intenzioni deliberate quanto gli schemi strumentali»9.
Ciò rende difficile contenere e delimitare giuridicamente l’uso della violenza, legittimando quella “giusta” ed escludendone altre. Nessuna forma di violenza è giustificabile. La violenza come sistema di regolazione delle relazioni interpersonali e politiche è frutto di una mentalità antica patriarcale cinicamente fomentata da chi ha interesse a mantenere le proprie posizioni di potere.
La logica bellica non regola solo le relazioni internazionali tra gli stati e le rispettive aree di influenza, essa militarizza il controllo delle relazioni sociali anche all’interno dei singoli paesi.
C’è un collegamento tra la globalizzazione neoliberista e il riemergere del patriottismo nazionalista: il dispotismo del denaro. Mentre la prima fondava il proprio consenso sul miraggio del facile arricchimento attraverso la competizione economica, il secondo fa leva sulla paura dell’impoverimento delle persone e genera rancori e ostilità contro tutti coloro che vengono percepiti come potenziali rivali. Il risultato è lo stesso: una conflittualità permanente, una guerra costante combattuta con ogni mezzo.
Le guerre in corso oggi nel mondo sono anche la conseguenza di un mutamento epocale dei rapporti di forza tra le varie aree geopolitiche. Per questo il timore di una loro generalizzazione a scala mondiale è più che giustificato. I “pezzi” della terza guerra mondiale in corso (Bergoglio) possono saldarsi in un qualsiasi momento e deflagrare in un conflitto planetario. L’egemonia delle grandi potenze dell’Occidente, così come si è storicamente affermata dopo la Seconda guerra mondiale, è franata. Per tante ragioni: demografiche, economiche, ideali. L’ordine fondato sulla supremazia del dollaro e sulla narrazione del sogno americano non regge di fronte delle crisi sociali, morali ed ecologiche che attraversano i paesi dell’ex Primo mondo.
In questa parte del mondo (perlomeno) i tassi di rendimento e di accumulazione non soddisfano gli sfrenati appetiti dei super-ricchi e non bastano a riprodurre ed espandere i modi di produzione e di consumo capitalisti. Gli Stati Uniti e il loro sistema di alleanze si sentono minacciati nei loro interessi dalla Cina, dalla Russia, dal resto del mondo10 e reagiscono nel peggiore dei modi: blindandosi militarmente e innescando una corsa agli armamenti come mai si era vista.
Le “classi dirigenti”, le plutocrazie ai vertici del sistema di comando con le loro schiere di accoliti, pur di procrastinare la perdita dei propri privilegi, sono disposte a trascinare nel baratro della guerra l’intera umanità, non fermandosi di fronte a nulla, nemmeno all’uso delle armi nucleari. Sono note nell’economia capitalistica le funzioni “anticicliche” della guerra; sia a monte, per l’effetto droga degli investimenti aggiuntivi nell’apparato industriale-militare, sia a valle per effetto dei business della ricostruzione.
Come ha già scritto Marco Deriu11, la guerra è la principale minaccia alla democrazia, non certo un mezzo per farla avanzare. Non ci sono “guerre giuste”, quelle che civilizzano e pacificano i popoli che le perdono, come recita la narrazione ipocrita e criminale degli stati che usano la propria forza militare per autoaffermarsi. Non saranno le conferenze internazionali, le convenzioni e i trattati a dissuadere gli stati dall’intraprendere azioni di guerra non appena ne dovessero vedere la convenienza. La storia delle relazioni internazionali è una collana di tradimenti, di patti disattesi, di impegni stracciati. Peggio, le trattative tra stati creano false aspettative, sottraggono spazio al protagonismo delle popolazioni, alla “diplomazia dal basso”, popolare e spontanea delle associazioni non governative, ai processi di riconoscimento e di riconciliazione tra le popolazioni che depongono le armi. Il nostro paese è stato ricco di esperienze straordinarie di iniziative pacifiste e nonviolente. Tra tutte pensiamo all’Onu dei popoli 12 e, da ultimo, all’Agorà degli Abitanti della Terra13.
Solo un’azione diretta delle popolazioni capace di delegittimare moralmente ogni forma di violenza potrà fermare le guerre in corso. Solo una trasformazione democratica dei sistemi sociali potrà rendere inutile la militarizzazione degli stati.
Note
1 Pensiamo ai 17 Goals dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo sostenibile approvati nel 2015, così come ai vari Report dell’Ipcc.
2 Per una approssimazione all’idea metapolitica di “comunità territoriale trasformativa”, vedi il documento elaborato da un gruppo di discussione formatosi nell’Incontro di Venezia 2022 sulla decrescita nella ultima versione ora pubblicata nella sezione Documenti di questo stesso numero dei Quaderni della decrescita.
3 È il titolo di una satira allegorica scritta da Vernon Lee, pseudonimo di Violet Paget, che faceva il verso all’Alleanza delle nazioni. Un’opera scritta nel 1915, primo anno della Prima Grande Mondiale, pubblicata a Londra e dedicata allo scrittore pacifista e futuro Premio Nobel Romain Rolland.
4 La conferenza che non serve più al clima, “il manifesto” del 5/12/2023.
5 Uno per tutti, ci riferiamo al fallimento delle Conferenze organizzate dall’Onu su clima. Al tempo della prima conferenza Onu di Stoccolma del 1972, la concentrazione in atmosfera di CO2 era di circa 330 parti per milione. Al tempo della Dichiarazione di Rio e della nascita della Convenzione internazionale sui cambiamenti climatici del 1992, le concentrazioni di CO2 erano salite a 355 ppm. Alla Cop numero 1, tenutasi a Berlino nel 1995, la CO2 raggiungeva le 360 ppm. Nel 2000, al tempo della Dichiarazione del Millennium di New York, la CO2 era 370 ppm. Con l’Accordo di Parigi del 2015 la CO2 toccava le 400 ppm. Alla 26 COP di Glasgow la CO2 misurava 410 ppm. Nel marzo di quest’anno, nuovo record: 419 ppm. Una progressione micidiale, incontrastata, che riporta la composizione chimica dell’atmosfera simile a quella esistente qualche milione di anni fa, quando le temperature erano più elevate di 3-5 gradi e i livelli marini più alti di dieci metri. Nel frattempo, le agenzie dell’Onu hanno reso noto il primo bilancio globale (Global Stocktake) degli impegni volontari sottoscritti dagli stati con l’Accordo di Parigi del 2015. Una pagella da somari. Pochissimi stati hanno mantenuto le promesse e con questi ritmi di emissioni di gas climalteranti a fine secolo la temperatura media mondiale aumenterà di 2,5 gradi. Ci siamo già persi per strada l’obiettivo solenne allora sottoscritto di mantenere l’aumento della temperatura media globale “ben al di sotto di 2 °C rispetto ai livelli preindustriali”.
6 Ci permettiamo di non essere d’accordo con le ultime posizioni di papa Francesco, quando afferma «È necessario essere sinceri e riconoscere che le soluzioni più efficaci non verranno solo da sforzi individuali, ma soprattutto dalle grandi decisioni della politica nazionale e internazionale». (Laudate Deum, 2023)
7 Basta consultare la mappa dei conflitti ambientali catalogata dal progetto EJAtlas. (https://it.ejatlas.org/)
8 Un piccolo elenco, per non dimenticare. Ucraina (Donbass dal 2022; Crimea dal 2014), Yemen (dal 2011), guerra civile in Somalia (dal 1991), scontri etnici in Sudan (dal 2011), Darfur (dal 2003), conflitto dell’Ituri in Congo (dal 1999), narco-guerra in Colombia (dal 1964) e al confine con il Venezuela (dal 2021), Mali (dal 2012), guerra del Kashmir tra India e Pakistan (al 1947), guerre separatiste in India (dal 1954), guerra civile nella Repubblica Centro Africana (2012), guerra jihadista di Cabo Delgado in Mozambico (dal 2017), guerra turco-curdo (dal 1984), ribellione nelle Filippine (dal 1964), Siria, Myanmar, Niger, Camerun (dal 2017), Libia (dal 2011)… Fino al conflitto Israele-Palestina (dal 1948).
9 Judhith Bulter, La forza della nonviolenza, citata da Pasquale Pugliese, Patriarcato, bellicismo e nonviolenza, “il manifesto”, 4/12/2023.
10 A titolo di esempio della pressante chiamata alle armi che il mondo del business occidentale invoca, vedi la inquietante domanda che si è fatto The Economist, Gli Stati Uniti sono ancora indispensabili?, tradotto in Internazionale, 3 novembre 2023.
11 Marco Deriu, Demilitarizzare il nostro immaginario (e prendersi cura della vulnerabilità reciproca), Quaderni della decrescita n.0/1.
12 La 1° Assemblea dell’Onu dei Popoli si svolse a Perugia dal 22 al 24 settembre 1995, in occasione del 50° anniversario dell’Onu, con l’obiettivo di promuovere la riforma e la democratizzazione dell’Onu. Più di 600 Enti Locali e associazioni sono stati coinvolti nell’organizzazione dell’iniziativa. Richiamando le prime parole della Carta “Noi popoli delle Nazioni Unite”, 140 rappresentanti di 82 popoli provenienti da tutti i continenti hanno unito la loro voce per chiedere pace, giustizia e democrazia per il mondo intero. Vedi: unimondo.org
13 Vedi: transform-italia.it
Fonte originale: Quaderni della decrescita
https://www.asterios.it/catalogo/la-decrescita-10-domande-capire-e-dibattere