Al momento in cui scriviamo [7 gennaio – n.d.t.], la guerra di Israele contro Hamas infuria da tre mesi e non mostra segni di diminuzione. Da qualsiasi angolazione – militare, politica o diplomatica – qualsiasi analisi della situazione non può che essere provvisoria, incerta come la mutevole realtà in cui ci troviamo. Non si può parlare di bilancio.
Per quel che vale, tralascio la possibilità di una conflagrazione regionale che ci proietterebbe in un’altra dimensione. Diciamo solo che Hamas ha perso la sua scommessa strategica, quella di coinvolgere i suoi alleati, e di fatto tutto il mondo musulmano, nel “diluvio” finale contro l'”entità sionista” (“diluvio di al-Aksa” è il nome di ispirazione messianica che ha dato all’assalto omicida del 7 ottobre). Per il momento, e nonostante il confronto sempre più intenso al confine libanese tra Israele e Hezbollah, questa possibilità rimane remota. Infatti, a differenza di Hamas, che deve rendere conto solo a se stesso, Hezbollah, attore principale della politica libanese e allo stesso tempo feudo dell’Iran, è invischiato in una rete di considerazioni e interessi complessi che ne riducono il margine di manovra. Certo, dagli Houthi yemeniti a Hezbollah, passando per le milizie filo-iraniane in Siria e le cellule armate in Cisgiordania, Israele si trova ad affrontare una moltiplicazione di fronti senza precedenti; ma la guerra, quella vera, è confinata nella Striscia di Gaza.
È, per più di un aspetto, senza precedenti, sia per la sua ferocia che per l’eccezionalità del campo di battaglia. Nel corso degli anni, Hamas, in previsione della guerra totale che stava pianificando, ha trasformato il territorio in un vasto campo trincerato, sopra e sotto terra, con una rete di diverse centinaia di chilometri di tunnel — tra i cinquecento e i mille, nessuno lo sa con certezza — in un’area grande meno di un terzo della regione dell’Ile-de-France e che ospita più di 2 milioni di persone.
A che punto siamo
Dal punto di vista militare, subito dopo l’attacco del 7 ottobre è stata avviata una fase aerea, seguita un mese dopo da un’incursione di terra congiunta su larga scala. Questa seconda fase ha più o meno raggiunto i suoi obiettivi nel nord e nel centro della Striscia di Gaza, dove Hamas ha perso il controllo del territorio. Sta continuando nel sud della Striscia, a Khan Younès e dintorni, dove ora si concentra la maggior parte delle forze e della leadership del movimento terroristico e senza dubbio anche i 136 ostaggi israeliani, di cui una quarantina sono morti. Una terza e ultima fase si sta già delineando: una fase di minore intensità, con forze a livello di brigata e non di divisione, oltre a unità di commando, i cui obiettivi prioritari sono la distruzione della rete di tunnel, molto fitta in questo settore, la localizzazione degli ostaggi e l’eliminazione dei principali leader del movimento. Questa fase sarà anche la più lunga della guerra.
La distruzione di Hamas, definita fin dall’inizio come obiettivo di guerra di Tsahal, è un obiettivo raggiungibile? Dipende da cosa intendiamo. I leader politici e militari israeliani hanno offerto, e offrono tuttora, una visione estrema: lo sradicamento totale dell’organizzazione, fino all’ultimo terrorista, o addirittura la “de-radicalizzazione” del territorio, in altre parole l’estirpazione dell’ideologia di Hamas. Questo non è possibile. Come dimostra l’esempio dei settori già controllati da Tsahal, ci sono sempre cellule in grado di emergere da tunnel e cantine per sparare un colpo prima di tornare sottoterra. Allo stesso modo, la rieducazione di una popolazione è un compito a lungo termine, che dipende dall’evoluzione delle sue condizioni di vita. Sette decenni dopo la distruzione della Germania hitleriana, il cadavere del nazismo si muove ancora. Ciò che è realistico, tuttavia, è lo smantellamento delle capacità militari e politiche di Hamas. Militarmente, questo è già avvenuto nella metà settentrionale del territorio e politicamente in tutta la striscia. A breve termine, possiamo quindi prevedere una Striscia di Gaza effettivamente liberata da Hamas. La domanda è con cosa sostituirlo.
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo prima fare il punto sul terremoto causato dal cataclisma del 7 ottobre e sul vuoto concettuale e politico che ha lasciato in Israele.
I miti che hanno dato origine al 7 ottobre…
È facile elencare i presupposti, le certezze e le illusioni infrante da quel giorno fatale. Il fatto che non tutti in Israele li condividano, tutt’altro, è una magra consolazione; erano il cavallo di battaglia dei potenti e, per questo, hanno plasmato, consapevolmente o meno, la mente dell’opinione pubblica. Ecco un elenco (non esaustivo):
Israele è protetto dalla sua superiorità militare
Ha l’esercito più potente della regione e alcuni dei migliori servizi di intelligence del mondo, e ha costruito una formidabile barriera protettiva al confine con la Striscia di Gaza, dotata di sensori ultrasensibili. Tutto questo è vero. Ma si dimentica che un esercito è efficace solo quanto la sua guardia, che l’intelligence è buona solo quanto la sua interpretazione e che la storia, compresa la nostra, è piena di barriere insormontabili che sono state superate. Soprattutto, stiamo dimenticando la grande lezione di Thomas Hobbes nel suo Leviatano (1651): nello stato di natura, che purtroppo è il nostro, nessuno è abbastanza debole da non essere in grado di uccidere il più forte.
Israele è l’unico responsabile della propria sicurezza
Sicuro della sua superiorità militare, Israele non ha bisogno di nessuno, nemmeno del suo grande alleato, gli Stati Uniti, per garantire la sua sicurezza. Questa convinzione è così radicata che i leader militari sono sempre stati riluttanti ad aderire a un’alleanza internazionale per paura che questa ostacolasse la loro libertà d’azione. Niente di più sbagliato. Già nel 1956, la campagna di Suez fu vinta grazie all’equipaggiamento francese e, durante la guerra dello Yom Kippur dell’ottobre 1973, solo il treno aereo americano permise a Tsahal di ribaltare a proprio vantaggio la situazione sul terreno. Lo stesso vale oggi a Gaza. Il valore degli uomini e il talento tattico dei generali non possono nulla senza munizioni e pezzi di ricambio. Si tratta di ridurre alla sua espressione più semplice una dipendenza che va ben oltre l’aspetto militare.
Israele è una “villa nella giungla” (Ehud Barak, ex Capo di Stato Maggiore ed ex Primo Ministro)
Non c’è niente di male neanche in questo: uno Stato democratico, potente e prospero, circondato da autocrazie più o meno fallite. Solo che questo Stato, sotto il governo di un delinquente narcisista circondato da lacchè e pazzi timorati di Dio, ha permesso alla giungla di prendere il sopravvento: Cisgiordania occupata consegnata ai coloni, pogrom quasi quotidiani, ripetute provocazioni sul Monte del Tempio/Haram el-Sharif; un tentativo di colpo di Stato giudiziario volto ad allineare la democrazia israeliana a quella di Budapest o di Ankara; dieci mesi di guerra civile latente che hanno lacerato il tessuto sociale e minato gli organi costituiti, compresi l’esercito e i servizi di sicurezza, il tutto sotto l’occhio avido di tutti i rabbiosi nemici dello Stato ebraico della regione…
I palestinesi sono scomparsi dai radar del mondo in generale e del mondo arabo-musulmano in particolare
La prova? Gli accordi di Abramo ieri, la normalizzazione con l’Arabia Saudita domani. Chi di noi faceva notare che il popolo palestinese era ancora lì, che il fuoco covava sotto la cenere e che un giorno sarebbe divampato, attirava gli sguardi di commiserazione delle persone serie.
Hamas è più che altro una risorsa per Israele
Questo era il cuore della strategia palestinese di Benjamin Netanyahu: fare in modo che l’organizzazione terroristica fosse abbastanza debole da non mettere in pericolo Israele e abbastanza forte da rimanere al potere. Per quale motivo? Perché le due entità palestinesi, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, rimanessero separate, scongiurando così lo spettro di uno Stato palestinese. Di conseguenza, il governo israeliano ha incoraggiato il Qatar a salvare Hamas e ha rilasciato migliaia di permessi di lavoro ai gazesi. Lavoratori, alcuni dei quali hanno accuratamente fotografato e mappato le comunità in cui avrebbero operato gli assassini di Hamas.
… e la loro persistenza
Il fatto che il crollo di questa impalcatura concettuale non abbia una traduzione politica immediata è dovuto alla composizione della coalizione al potere a Gerusalemme. Seguendo un processo che ricalca in tutto e per tutto l’evoluzione del Partito Repubblicano americano, il fulcro del sistema, il Likud di Benjamin Netanyahu, è diventato da tempo una setta estremista devota al suo leader. Epurati dagli elementi liberali e politicamente responsabili, i suoi esponenti di spicco si sfidano a colpi di dichiarazioni incendiarie e teorie del complotto. Alla sua destra, o meglio al suo fianco, due gruppi religiosi con tendenze messianiche – il Sionismo religioso di Bezalel Smotrich e il Potere ebraico di Itamar Ben-Gvir – coltivano un nazionalismo suprematista, invocano la pulizia etnica e l’annessione dei Territori occupati e spingono per la ricostituzione degli insediamenti ebraici nella Striscia di Gaza, smantellati durante il “disimpegno” del 2005.
Per dare un’idea di quanto sia avanzata la destra israeliana, va ricordato che entrambi questi personaggi hanno avuto contatti con lo Shin Beth, che Ben-Gvir è stato condannato per incitamento all’odio razziale e che il suo partito originario è stato sciolto per lo stesso motivo. Nell’attuale coalizione, uno è Ministro delle Finanze e Ministro della Difesa con responsabilità per gli insediamenti, e l’altro è Ministro della Sicurezza Nazionale con responsabilità per le forze di polizia. Il Primo Ministro è un ebreo laico che non ha nulla a che fare con i sogni messianici dei suoi partner, ma è loro prigioniero. Senza di loro, non ci sarebbe una maggioranza alla Knesset. Stretto tra i pazzi timorati di Dio e l’amministrazione Biden, si dimena come può, cercando di dare impegni ai secondi senza perdere il sostegno dei primi. Non può e non vuole formulare una strategia di uscita, se non dire che a Gaza non ci sarà “né Hamastan né Fatahstan”, in altre parole l’Autorità Palestinese.
Quali sono dunque gli scenari possibili?
Il giorno dopo
Lasciarsi alle spalle una sorta di Somalia miserabile, anarchica e odiosa è impensabile. Lasciato alle mafie e alle bande armate, il territorio produrrebbe una miriade di piccoli Hamas.
Escludiamo in partenza anche lo scenario prospettato dai ministri di estrema destra e dal loro movimento: la rioccupazione, come abbiamo visto, della Striscia di Gaza da parte di Israele, il trasferimento “volontario” dei suoi abitanti e la ricostituzione degli insediamenti ebraici smantellati quasi diciotto anni fa. Netanyahu ha ammesso pubblicamente che tutto ciò era fuori discussione. Gli unici effetti tangibili di questa utopia mortale sono inquinare il dibattito pubblico, alimentare la campagna internazionale anti-israeliana e fornire argomenti ai giudici della Corte di Giustizia dell’Aia.
L’estrema destra non sarà più al potere nel momento in cui verrà messa in atto una soluzione provvisoria. Cadrà contemporaneamente allo stesso Netanyahu, che più di tre quarti degli israeliani non vogliono più. Il che non vuol dire che non manterrà il suo potere di influenzare — e causare danni — anche in seguito. Non appena la campagna militare terminerà, tornerà, senza dubbio moltiplicato, il confronto tra gli opposti schieramenti che abbiamo visto durante l’anno precedente al massacro del 7 ottobre. Come andrà a finire? Temo che quando arriverà il momento della verità e si dovranno prendere decisioni dolorose, Israele non sfuggirà a una forma di guerra civile.
Il Ministro della Difesa Yoav Gallant, il cui rapporto con il Primo Ministro è atroce, ha recentemente presentato un piano basato su un duplice principio: “Hamas non governerà più Gaza e Israele non governerà Gaza civilmente”. Comitati locali composti da gazesi, la cui nomina dovrà essere approvata da Israele, “non ostili a Israele e incapaci di agire contro di esso”, sarebbero incaricati di gestire gli affari civili. In una seconda fase, una forza internazionale composta da Paesi arabi moderati, Stati Uniti ed Europa si assumerà la responsabilità della ricostruzione e della riabilitazione economica del territorio. Israele, da parte sua, manterrà la capacità di operare militarmente nella Striscia di Gaza, senza restrizioni di alcun tipo.
Le possibilità del piano Gallant sono pari a zero, e non solo perché la sua adozione da parte del governo significherebbe la sua fine. In realtà, ciò che propone è una riproposizione di ciò che abbiamo in Cisgiordania, con il successo che conosciamo: una sorta di autonomia civile all’ombra delle baionette israeliane. A parte il fatto che è difficile capire chi accetterebbe di far parte di questi “comitati locali” a rischio della propria vita, non è chiaro come si potrebbe costituire una coalizione internazionale come quella che egli prevede in queste condizioni.
Gli americani, da parte loro, hanno definito con fermezza e pubblicamente tre condizioni negative: nessuna presenza israeliana permanente, nessuno spostamento della popolazione palestinese e nessuna riduzione del territorio. Quest’ultimo punto si riferisce all’idea avanzata dall’establishment della sicurezza di una “striscia di sicurezza” in territorio palestinese. Un’idea strana se ricordiamo il destino di questa formula all’indomani della prima guerra israeliana in Libano, nel 1982, che ci ha lasciato Hezbollah e diciotto anni di presenza catastrofica nel sud del Libano.
Tolti questi tre “no”, possiamo vedere i contorni di un piano per porre fine alla guerra, come delineato dal lavoro dei think tank di Washington, dalle dichiarazioni pubbliche dei funzionari americani e da ciò che traspare dai loro colloqui con il governo israeliano. Poiché è urgente riempire al più presto il vuoto creato dall’eliminazione del governo islamista, è necessario creare un accordo provvisorio che si occupi contemporaneamente di tre compiti assolutamente urgenti: mettere in sicurezza il territorio, con una forza multinazionale a maggioranza araba e preferibilmente su mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite; istituire un’amministrazione palestinese provvisoria sotto l’egida dell’Autorità di Ramallah, l’unica entità palestinese riconosciuta da tutto il mondo, compreso Israele, che continua a pagare i dipendenti pubblici di Gaza per non fare nulla; avviare la ricostruzione, con l’aiuto dei Paesi arabi vicini e di quelli del Golfo, nonché dell’Europa, degli Stati Uniti e delle organizzazioni finanziarie internazionali. Allo stesso tempo, occorre offrire ai palestinesi un orizzonte diplomatico, ovvero rimettere in moto un processo significativo di risoluzione del conflitto israelo-palestinese.
A che scopo? Ebbene, uno Stato palestinese sovrano accanto allo Stato di Israele. È quasi comico che, tranne che ai due estremi dello spettro ideologico, tutti si stringano ancora una volta intorno a questa soluzione, che aveva finito per provocare un’alzata di spalle disillusa da parte di diplomatici ed esperti di ogni genere. Semplicemente, non c’è altra soluzione. È un’idea vecchia di quasi un secolo, proposta per la prima volta dagli inglesi nel 1937, convalidata dalla comunità delle nazioni dieci anni dopo, quando l’ONU votò la spartizione della Palestina, e negoziata nei minimi dettagli sulla scia degli accordi di Oslo del 1993. È ora che venga finalmente attuato. Il fatto che ci sia voluta la tragedia del 7 ottobre per riscoprire l’ovvio è un altro esempio di una triste verità della storia: le nazioni si risolvono a trovare soluzioni ragionevoli solo dopo aver esaurito tutte le altre.
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