War is Peace. Freedom is Slavery. Ignorance is Strength.
George Orwell, Nineteen Eighty-Four
Ci sono molti modi di occuparsi di fake news, ma ognuno sembra destinato da un lato a ripetere luoghi comuni, dall’altro a cercare soluzioni che si vorrebbero originali: il luogo comune è che le fake news ci sono sempre state, la soluzione “originale” è quasi sempre di fornire al lettore gli strumenti per scoprirle.
Qualche anno fa, nei primi tempi della diffusione di Wikipedia come strumento di informazione, gli studiosi seri raccomandavano di prendere con le molle le notizie fornite dall’enciclopedia on line costruita da tutti, perché spesso faziose o prive di basi scientifiche. Un’indicazione ricorrente era di mettere alla prova la notizia ottenuta incrociandola con altri siti, per poterla fondare sopra una sorta di probabilità, sempre più alta via via che le conferme si assommavano. Non è una caratteristica specifica di Wikipedia, perché di errori sono pieni anche libri ritenuti attendibili, in qualunque epoca, ma la facilità di accesso e di intervento su Wikipedia finisce per aumentare le chance di errore, voluto o non voluto che sia.
Ma che cos’è l’errore? Una data sbagliata è un errore, un titolo scritto male è un errore, una collocazione geografica sbagliata è un errore, ma un’opinione, un commento, un’interpretazione, possono essere sbagliate, o sono sempre e soltanto dati soggettivi e opinabili? Che un autore dal rilievo storico importante sia “grande” non è questione opinabile, ma che un autore sia “il più grande” oppure sia “sopravvalutato” sono dati soggettivi, e quindi non più errori: che cosa sono allora? Sono fake news?
La fake news è spesso un dato volutamente errato; ma altrettanto spesso è un dato vero estrapolato dal suo contesto oppure reso significativo da insignificante che era. Districarsi nel mondo delle notizie, che sono ormai semplicemente troppe, è di fatto impossibile. Parafrasando la celebre sintesi di Umberto Eco, gli imbecilli sono davvero legioni e gli imbroglioni ancora di più.
Una volta detto, però, della difficoltà di districarsi – che è in fondo un elemento del mondo moderno interconnesso e sempre più affollato –, ci sono altri aspetti da analizzare e da approfondire. Internet non è il diavolo, ad esempio, ma semplicemente un nuovo potente strumento di comunicazione; il numero di persone che accede ai dati disponibili in rete è altissimo, ma non più alto del numero di quanti ascoltano i telegiornali. E se la televisione è stata spesso accusata di essere strumento di regime, e lo è tuttora in molti Stati, di certo Internet per sua stessa natura non può essere associata a un governo. Semmai, Internet può essere contro un governo, e in effetti è accaduto che in paesi sottoposti a dittatura ne vengano censurati o azzerati i contenuti.
Tra gli aspetti pericolosi del Web si deve invece inserire, a mio parere, il propagarsi di siti apparentemente seri e ben strutturati, ma costruiti per attirare gli ignoranti, che non sono ignoranti nel senso generale del termine, ma ignoranti in specifici settori. Alcuni quotidiani on line sono smaccatamente di parte, ripetendo le ben note strutture di tanta informazione cartacea che traveste la realtà in pura fantasia, ma ce ne sono altri che giocano su apparenti dati di obiettività per costruire trappole intellettuali. Forse anche questo non è nuovo, ma se in passato per diventare primo ministro bisognava avere qualità politiche o essere padrone di varie reti televisive, oggi un mediocre studioso di economia può diventare senatore grazie a un blog ben costruito. È un sintomo di maggior democrazia? Qui sta il nodo del problema.
Gli strumenti per comunicare sono stati storicamente la voce, le punte per disegnare, la scrittura a mano e poi la stampa, la fotografia, il cinema, la radio, la televisione, Internet. L’accesso al prodotto di tali strumenti, vale a dire le parole dette, le parole scritte, i suoni e le immagini, è sempre stato un punto basilare della politica: quanto più i prodotti della cultura umana sono accessibili, tanto più è democratica una collettività. La trasmissione della parola, e poi della stampa, e in tempi moderni della fotografia e delle sue conseguenze (cinema, televisione, monitor) ha consentito a un numero sempre maggiore di persone di conoscere e conoscersi, istruire e istruirsi, crescere, e quindi capire, imparare, guarire, relazionarsi.
Internet non ha portato novità assolute, ma la sua novità sensazionale è di assommare tutti i precedenti strumenti, dal cinema alla radio al telefono alla televisione. La potenza del mezzo si misura nel suo essere onnicomprensivo e molteplice quanto nessun altro mezzo del passato o attuale.
Torniamo alle fake news: un esempio può spiegare al meglio i sistemi di fabbricazione del falso cui mi riferisco. Si tratta spesso di costruzioni volutamente scorrette, ma altrettanto spesso di situazioni ormai interiorizzate dagli autori che, detto in parole semplici, finiscono per mentire anche a se stessi. L’esempio è quello di un’ossessione, rappresentata dal vero e proprio odio di molti per il miliardario americano Soros. Secondo la vulgata manipolata ad arte da associazioni parafasciste, Soros è in grado di governare il mondo grazie ai suoi soldi; è lui il Grande Vecchio, paradossalmente un vecchio di sinistra. Gli ingenui che credono nel soprannaturale credono anche che qualcuno sia in grado di calcolare l’incalcolabile, come dire le infinite combinazioni delle casualità della vita degli uomini e delle nazioni. L’ossessione Soros può far sorridere i non-ingenui, ma ha risvolti drammatici quando si scopre che ad essa è legata la fortuna politica di un personaggio sicuramente discutibile come il primo ministro ungherese Orbàn.
Ma come si fa a costruire il mito dello strapotere di Soros? Una ricerca su Google in italiano fa uscire ai primi posti alcuni siti o filmati che attaccano Soros in quanto «complice di piano per destrutturare la società» e addirittura in grado di «invadere l’Europa». L’utente ingenuo che vuole informarsi troverà notizie su Soros cattivo in quantità molto superiori a quelle su Soros buono, ed è evidente quanto ciò possa spingere verso convincimenti in grado poi di rinforzarsi nel tempo.
Esistono poi fake news su teorie scientifiche manipolate. Il problema dei vaccini in Italia non dovrebbe neppure esistere, essendo un tema di salute pubblica equivalente a un obbligo sociale (paragonabile a quello di usare le fognature per gli scarichi e non le strade aperte). Eppure, la ridicola interpretazione di fatti basata su qualche sfortunata coincidenza, come l’insorgere dell’autismo in bambini appena vaccinati, ha portato vari ciarlatani a connettere le due cose e a diffondere notizie tendenziose a riguardo. Forse il ciarlatano è semplicemente ignorante (che cosa sia la statistica è probabilmente fuori da qualunque sua possibile sfera di interesse), ma in molti casi è spesso soltanto uno sconosciuto, desideroso di conquistarsi un posto al sole per i fatidici cinque minuti.
Scriviamo “vaccini” su Google simulando di voler capire il problema. I risultati sono in gran parte connessi con il problema della sfiducia nei vaccini, e quindi in questo caso si potrebbe forse stabilire che Internet non c’entra o c’entra poco; una rapida occhiata altrove ci può confermare che sono le riviste popolari e alcuni programmi televisivi ad aver innescato la miccia esplosiva.
Molto più serio è invece il ruolo di quei blog rivolti esplicitamente a persone di una qualche cultura, che propongono argomenti per loro natura molto complessi, ma ivi risolti in pochi tratti di penna o di tastiera. In Italia il primato del blog di Beppe Grillo ha permesso addirittura la nascita di un partito, ma ci sono sul Web decine di siti di arte, di sport, di economia, di filosofia, di medicina, proposti da specialisti il cui unico difetto è di non aver fatto la carriera e aver avuto il successo che – a loro parere – meritavano.[1]
Tra molti innocui falliti tuttavia qualcuno, per motivi spesso non prevedibili uniti comunque ad abilità e/o fortuna, diventa davvero famoso grazie a Internet. È il caso di blogger opinionisti come Massimo Mantellini, di una esperta di moda come Chiara Ferragni, di una ragazza qualunque come Sofia Viscardi, di un giornalista come Luca Sofri che con Il Post ha fondato il miglior quotidiano italiano on line; e sono anche diventati blogger di successo molti noti giornalisti che sui giornali online gestiscono le vecchie rubriche personali trasformate appunto in blog (e in questo caso non c’è nulla di nuovo).
Gli opinionisti per definizione scrivono guardando le cose dal loro punto di vista, mentre gli esperti o tecnici dovrebbero per definizione essere più obiettivi. Il vero problema delle fake news è quando l’opinionista si camuffa da esperto e spaccia per dato tecnico obiettivo un dato completamente soggettivo e spesso provvisorio; ma non solo, perché c’è chi spaccia addirittura per scienza quella che è una pseudoscienza o se si preferisce una disciplina che possiede solo qualche elemento scientifico.
Deve essere spiegato bene a questo punto che il termine pseudoscienza è, sì, un termine negativo, ma nei fatti descrive una disciplina anche onesta e dotata di struttura razionale, eppure basata su fatti non scientificamente dimostrabili (ad esempio l’astrologia, l’omeopatia, lo spiritismo, ma anche – a ben guardare – la psicologia, l’economia, la politica). Se si tiene a mente quanto detto, è facile spiegarsi come mai i principali litigi e scontri tra gli esperti si verifichino nelle pseudoscienze, causati dalla volatilità e opinabilità di troppi elementi. Due matematici anche di scuole diverse sono in genere d’accordo sul 90% delle loro teorie, in particolare su quelle basilari, mentre due economisti di scuola diversa sono in disaccordo quasi su tutto.
La fake news si annida e prolifera in questi ambiti. L’economista serio si pone dubbi e propone teorie che propongano simulazioni del passato e del presente su basi provvisorie ma verosimili, l’economista avventato si lancia in previsioni azzardate alle quali non fornisce punti credibili d’appoggio. Eppure, l’economista serio che si pone come figura di esperto affidabile, risulta purtroppo monotono e non particolarmente suggestivo, mentre l’economista avventato può diventare popolare, specialmente se dotato di simpatia o di apparente professionalità. Purtroppo, economisti da considerarsi pseudoeconomisti sono diventati in Italia parlamentari e aspirano a posizioni di potere decisamente pericolose per tutti.
Come funziona il meccanismo di convincimento? In un suo intervento di qualche tempo fa, Massimo Mantellini, che è un informatico ma anche una persona di vasta cultura, ha scritto:
Quando è accaduto che abbiamo iniziato ad eleggere a bussole culturali persone di modesto livello? Quando – esattamente – abbiamo iniziato a farci spiegare la storia dell’arte da Sgarbi, la politica da Roberto D’Agostino, il giornalismo da Maurizio Belpietro? Perché questo un giorno in Italia è accaduto ed è accaduto molto tempo prima che Internet iniziasse ad instillare pensieri sbagliati dentro le nostre menti di cittadini che – per dirla con Baricco – “non sanno una fava”.[2]
Persone di modesto livello trasformate in bussole culturali: un’ottima descrizione del tempo presente, oppure una definizione valida sempre? A livello politico oggi una certa tendenza di sinistra si lascia scappare riferimenti bizzarri, facendo trapelare nostalgie per avversari preparati e corretti come Moro o come De Gasperi, ma anche per tutto un mondo perduto in cui in realtà, all’ombra di personalità forse ineccepibili, sguazzavano pescecani e serpenti della politica. A livello culturale certo si avverte l’assenza di tanti mostri sacri del passato (si pensi agli scrittori, ai musicisti e agli artisti), ma è tutta la dimensione culturale italiana ad aver perso credibilità e prestigio, facendo seguito al tracollo della istituzione scolastica, oggi da considerarsi una delle fondamenta incrinate della nostra cultura.
Il problema dele fake news ci ha comunque portato e sistematicamente spinto all’interno del mondo digitale, nel quale sembrano trovarsi annidati mille rischi e mille trabocchetti. In realtà, le fake news non esisterebbero o sarebbero comunque molto limitate se la gente, ovvero il popolo, ovvero i cittadini, applicasse parte del proprio tempo a capire ciò che sta usando quando usa Internet. L’atteggiamento passivo dello spettatore televisivo si è in gran parte trasferito nell’utente del web, mentre la funzione di chiacchiera che un tempo era riservata ai telefoni fissi si è estesa alle chat di Facebook, di Instagram, di Twitter. L’utente medio di Internet legge notizie e chatta con gli amici, trasferendo velocemente dati e notizie, che tanto più sono anomale o sorprendenti tanto più diventano virali, cioè velocissime ed estese. Tra quei dati trovano alimento le fake news, create da utenti specializzati ed abilissimi nello sfruttare la passività e la pigrizia dell’utente medio. Ma davvero l’utente medio è passivo e pigro, se non del tutto ignorante a livello informatico?
Affermazioni come quelle che ho fatto nascono da intuito e esperienza diretta, ma vanno suffragate da qualche dato: cerchiamo allora un rapporto sull’utilizzo della rete nel mondo, ovviamente nella rete stessa. In Italia esiste l’AICA, Associazione Italiana per l’Informatica ed il Calcolo Automatico, che si occupa direttamente, ma anche diffondendo dati internazionali, di argomenti legati alle mille problematiche della rete ed esistono anche varie riviste tecniche che si occupano di argomenti sociali legati alla rete, e tra queste Punto Informatico appare la più aggiornata e seguita. In un documento dell’AICA troviamo questa affermazione che potrebbe lasciare interdetto chi è caduto nell’inganno dei “nativi digitali”, quelli che dovrebbero essere tanto informatizzati da poter insegnare a vivere nel nuovo mondo ai loro stessi genitori.
I giovani non possiedono di per sé le competenze per l’utilizzo in maniera sicura e efficace delle tecnologie e le competenze acquisite informalmente rischiano di essere incomplete. L’insufficiente attenzione a far sì che i giovani acquisiscano competenze complete in maniera formale, conduce ad un nuovo divario “digitale”, ossia tra uno “stile di vita digitale” e le competenze digitali richieste dal mondo del lavoro. La mancanza di conoscenza degli strumenti necessari alla forza lavoro di oggi contribuisce a una nuova generazione di individui che non riesce a realizzare il proprio pieno potenziale come studenti, impiegati, imprenditori o cittadini di tecnologie digitali.[3]
Sinora ho scritto di ingenui, intendendo qualcuno che non sa ma crede di sapere; si potrebbe pensare che in fondo gli ingenui non sono molti nel nuovo mondo, mentre è proprio il contrario, sono tantissimi, giovani, adulti, anziani. Da anni, nel mio mestiere di insegnante di Storia dell’Arte con nozioni di informatica tali da essere considerato un tecnico (cosa che in realtà non sono), mi accorgo che tra i giovani dell’ultima generazione, cui i genitori hanno messo in mano uno schermo all’età di tre anni, la maggior parte non ha alcuna sensibilità digitale superiore alla mia, e anzi a quindici anni è del tutto passiva rispetto agli strumenti che conosce. Ad appesantire il problema, troppi giovani nati dal 2000 in poi credono e presumono di essere digitali, ma non lo sono affatto!
una riflessione sui nativi digitali è del tutto essenziale. Altrimenti il divario digitale si trasformerà in un passo indietro che, in epoca di Big Data e Intelligenza Artificiale, tutto è fuorché auspicabile.[4]
L’analfabetismo funzionale si unisce a quello digitale e qualunque rapporto statistico ci dice che l’Italia in occidente risulta tra i paesi più arretrati in entrambi i settori. Vogliamo chiederci allora come mai le fake news trovano il loro terreno migliore e più fertile proprio nella nostra provincia, nel nostro Sud, nelle nostre periferie? Vogliamo anche buttarci – qui però scivolando su un terreno meno saldo – in un’analisi politica che confronti i risultati delle votazioni amministrative e politiche in Italia con i dati dell’analfabetismo informatico? È un terreno minato, ma purtroppo a mio parere è il terreno su cui razzolano politici maliziosi, a volte malintenzionati, molto spesso altrettanto ignoranti quanto i loro elettori.
[1] Anch’io rientro in questo numero di “falliti in cerca di rivincita”, visto che, non trovando posto in alcuna rivista d’arte, ho deciso di inventarmene una mia personale sul Web: resto un fallito, ma vivo la soddisfazione di trovare il mio nome nelle ricerche di Google, e – fortunatamente per tutti – mi basta così.
[2] Dal blog di Massimo Mantellini, manteblog.
[3] AICA, Il falso mito del “nativo digitale”: perché i ragazzi hanno bisogno di sviluppare le proprie competenze digitali, file pdf disponibile sul sito AICA.
[4] G. Dotta, Nativi digitali: analfabetismo che non ti aspetti, sul sito di Punto Informatico.
https://www.asterios.it/catalogo/ontologia-della-menzogna