I
Avevo ventidue anni quando andai a vivere a Pietroburgo. Tre mesi prima circa mi ero laureata presso una università straniera e, con la tesi di laurea in tasca, ero ritornata in Russia. Dopo cinque anni di vita d’isolamento, direi quasi di clausura, passati in una piccola città universitaria, fui subito presa, quasi ubriacata dalla vita della capitale. Dimenticate per un po’ le riflessioni sulle funzioni analitiche, sullo spazio e sulla quarta dimensione, che fino a così poco tempo prima avevano riempito il mio più inconfessato mondo, mi lanciai con tutta me stessa verso nuovi interessi: facevo un sacco di nuove conoscenze, cercavo in tutti i modi di entrare a far parte dei più svariati circoli e con fremente curiosità analizzavo tutte le sfaccettature di quel gran trambusto, a primo sguardo seducente, ma in realtà vuoto: la vita pietroburghese. Tutto adesso suscitava il mio interesse e mi rendeva felice. Che belle quelle serate di beneficenza, quei teatri e quei circoli letterari con le infinite discussioni prive di qualunque concretezza sui temi più svariati. Gli assidui frequentatori erano già stanchi di quei dibattiti ma io ero ancora presa dalla novità. Mi abbandonavo a quei confronti con tutta la passione di una russa e, in quanto russa chiacchierona di natura, che aveva vissuto cinque anni in terra straniera in esclusiva compagnia di due-tre specialisti, inghiottiti ognuno dal suo ristretto lavoro e ignari di come fosse possibile spendere del tempo prezioso seminando parole al vento. Quel piacere che io provavo dialogando con altra gente si emanava anche a coloro che mi stavano intorno. Io per prima ero in preda a quella euforia e collocai la mia vita e la mia rinascita in quegli ambienti che frequentavo. La reputazione di donna colta oramai mi avvolgeva, conferendomi una aura di notorietà. Tutti i miei conoscenti che si aspettavano qualcosa da me si erano già preoccupati di dedicarmi due-tre riviste. Anche questo ruolo di celebrità era del tutto nuovo per me e, sebbene mi imbarazzasse un pò, i primi tempi mi lusingava non poco. Insomma, mi trovai nello spirito giusto, per così dire, di ripercorrere la mia lune de miel[1] di notorietà e in quel momento della mia vita, magari anche pronta a esclamare: “Tutto va nel migliore dei modi, nel migliore dei mondi”.
Quel giorno ero particolarmente di buon umore. La sera prima ero stata alla redazione di una nuova rivista, dove mi era stato anche offerto di collaborare, cosa che aveva suscitato entusiasmo tra i colleghi. Devo dire che i sabati nelle redazioni si distinguevano per eccezionale vivacità tant’è che quella sera rientrai a casa alle tre del mattino. Mi alzai tardi, sorseggiai a lungo il mio tè mattutino e con interesse sfogliai alcuni giornali. Avendo visto l’annuncio di una libreria intagliata d’occasione, andai a vederla. Per strada, sul tram a cavalli, incontrai una signora di mia conoscenza che come me era membro del Comitato per i corsi femminili di studi superiori che aveva aperto da poco[2]. Parlai con lei delle questioni del Comitato, poi passai a trovare due-tre amici e verso le quattro tornai a casa. Seduta sulla mia comoda poltrona, di fronte al camino ardente, stavo a contemplare il mio elegante studio. Dopo cinque anni di tribolazione per i diversi arredi di quelle case tedesche, adesso provavo una nuova sensazione di armonia nel mio accogliente cantuccio. Qualcuno poi suonò alla porta.
“Chi sarà mai?” pensai. Scorsi nella mia mente uno per uno i nomi dei miei conoscenti e un pò preoccupata diedi uno sguardo allo specchio per controllare se il mio vestito fosse in ordine. Si fece avanti nella stanza una giovane donna, alta e con un pellicciotto di panno. A causa della miopia, non riuscii subito a capire se conoscessi quel personaggio, tanto più che il suo foulard nero le nascondeva quasi completamente il volto, lasciando intravedere il piccolo e regolare nasino, leggermente dorato dal gelo. Sebbene con lo sguardo un pò imbarazzato, andai incontro alla donna.
“Mi scusi se ho deciso di disturbarla anche se non la conosco di persona” iniziò lei. “Sono Vera Baranzova. Benchè i nostri genitori avessero dei poderi confinanti, dubito che lei ricordi il mio nome. Poco tempo fa, ho letto di lei sui giornali, so che ha studiato a lungo all’estero e la sua bontà e serietà sono sulla bocca di tutti; per questo ho pensato che possa darmi un consiglio”.
La nuova arrivata pronunciò tutto ciò in fretta e tutto d’un fiato, ma con una voce estremamente grave e deliziosa. Ero confusa e allo stesso tempo lusingata da quella mia evidente notorietà; per la prima volta uno sconosciuto bussava alla mia porta per chidermi un consiglio.
“Ah, mi fa molto piacere! Prego, si accomodi. Ehm…tolga anche il suo pellicciotto” barbugliai, anch’io preda a un forte imbarazzo. Vera si tolse il foulard dalla testa lasciandomi di stucco di fronte a quella bellezza.
Improvvisamente Vera riprese a parlare: “Sono totalmente sola al mondo, e non dipendo da nessuno. La mia vita privata è finita e non mi aspetto nè voglio niente. Ma ho un unico desiderio, il più ardente: io voglio sposare la causa del mondo. Mi dica, mi insegni, cosa devo fare!” Senza fronzoli era arrivata al nocciolo della questione, al motivo della sua visita.
Da parte di chiunque altro quella strana ed inaspettata sortita sarebbe potuta sembrare un modo come un altro per far colpo. Ma non fu così con Vera. La sua voce suonava di sincerità, commozione, nonchè di supplica e parlava così semplicemente che non mi meravigliai neppure.
Quella ragazza alta, slanciata e col viso opaco e pallido sul quale spiccavano degli occhi blu, che Dio solo sa in quali pensieri erano assorti, la cominciai a sentire straordinariamente vicina e simpatica. Avevo una sola paura e cioè di tradire la sua fiducia con una risposta non degna della sua domanda o di non poterle dare nessun consiglio in qualche modo utile. E tutt’un tratto la mia vita degli ultimi tre quattro mesi mi si presentava vuota e meschina. Tutti quegli interessi che avevano riempito la mia vita in quel periodo, avevano perso il loro vero significato e un rimorso di coscienza mi punse diritto nel cuore: “Cosa le dico adesso? Come la posso aiutare?”.
Non sapendo da dove cominciare feci accomodare Vera e le offrii un tè. In Russia non c’è discorso degno di essere chiamato tale, se non lo si fa di fronte ad un samovar. Ciò che mi colpì di Vera, dal primo momento del nostro rapporto, fu la sua totale indifferenza verso tutto quanto costituisse esteriorità. Somigliava a una di quelle veggenti che riescono a scorgere determinate sfumature nelle situazioni, che in altri non suscitano nessun effetto. Le chiesi se fosse da molto a Pietroburgo e se si fosse sistemata bene in albergo, ma a quelle domande banali Vera rispondeva distrattamente e quasi un pò svogliata: era evidente che le piccolezze della vita non destavano in lei alcun interesse. La vita di Pietroburgo non la seduceva, non ne era rapita, sebbene mai più avrebbe avuto la possibilità di vivere nella capitale. Vera rifletteva sempre e soltanto su quello: trovare il significato, lo scopo della sua vita. Rimasi subito attratta da quella ragazza, così diversa da tutta la gente che avevo conosciuto prima e mi sforzai di conquistare la sua fiducia, di penetrare i suoi più reconditi pensieri. Le dissi che non avrei potuto darle un consiglio fino a quando non l’avrei conosciuta più da vicino e per questo le consigliai di venire da me quanto più spesso e di raccontarmi tutto il suo passato. Vera stessa pensava esclusivamente a tutto ciò che sentiva dentro e che meritava di essere detto e rispondeva con netta franchezza. Non passarono molte settimane che io avevo già esplorato il suo cuore e cominciavo a leggervi dentro in modo tanto chiaro, quanto soltanto una donna può leggere nel cuore altrui.
[1] In francese nel testo.
[2] Qui la Kovalevskaja commette un piccolo errore cronologico in quanto i fatti narrati in questo libro si collocano a partire dal 1874 e cioè quattro anni prima della fondazione dei corsi femminili di alti studi “Bestuzhev”. L’autrice prese parte all’organizzazione di questi corsi ed era membro del Comitato per la fornitura dei mezzi.
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II
Sebbene la famiglia dei conti Baranzov fosse conosciuta e di nobili origini, non si può dire che fosse un casato di vecchia data. La genealogia ufficiale della famiglia era nota sicuramente fino a un po’ prima di Rjurik, anche se l’attendibilità di questi documenti non fosse di certo indiscutibile. Era almento sicuro che un certo Ivashka Baranzov aveva prestato servizio come soldato semplice presso una compagnia di Sua Maestà l’Imperatrice Caterina II. Aveva il viso acqua e sapone, robusto più di quanto possiate immaginare, ed era così abile nelle manzioni militari affidategli, che presto si guadagnò la promozione a caporale e una tenuta da 500 anime e 1000 rubli, ai tempi in cui le anime costavano poco e i soldi valevano tanto. Da qui iniziò il fiorire della stirpe Baranzov. Godevano di un titolo nobiliare alla corte di Alessandro I, all’interno della quale, per un certo periodo, la graziosa contessa Baranzova svolse un ruolo notabile. Negli ultimi 100 anni, tuttavia, non si contavano di questi successi nel casato dei Baranzov. Anche loro, come tutti gli altri, avevano subito le vicissitudini del periodo.
Tutti i Baranzov si distinguevano per l’ardore e la caparbietà delle loro aspirazioni. Questa caratteristica permise loro di non cadere mai in povertà e nessun proficuo podere, o una qualunque cosa potesse essere in qualche modo redditizia, vennero persi a carte o scialacquati con donne e cavalli. Nel destino dei Baranzov si presentò però allora un temporaneo offuscamento dell’intelligenza. Per grazia di Dio, però, questa piccola nuvoletta svanì grazie alla solare grazia della famiglia reale. Dovete sapere che uno dei Baranzov trovava sempre il modo di prestare un servizio allo zar o alla patria, e così nuove ricche tenute prendevano il posto di quelle perse, cosicchè la famiglia, tra una difficoltà e un’altra, continuava a crescere e a elevarsi. I terreni che presto venivano svenduti, altrettanto presto in mano loro, acquistavano valore e così un’ingente eredità passava di generazione in generazione, di padre in figlio e di madre in figlia. Questo era lo straordinario, per così dire, fascino di famiglia. E tutti i Baranzov erano belli. Non soltanto non vi erano tra loro mostri o pazzi, ma era impensabile perfino immaginare una Baranzova bruttarella. Grazie a una certa tendenza naturale verso la bellezza o forse per selezione naturale darwiniana, tutti i conti Baranzov erano sposati con belle donne e tutte le loro figlie avevano trovato begli uomini. Il modello di bellezza della famiglia si era così saldamente costituito, ed era così famoso tra l’aristocrazia russa, che la frase “Ha proprio un viso da Baranzov” pronunciata a proposito di qualcuno, avrebbe creato sicuramente un’immagine ben precisa: alto, prestante, viso chiaro e allungato con un leggero e trasparente colorito rosso sulle guance, fronte bassa e larga, tempie scolpite da bluastre e massicce venature, capelli nero corvino, occhi azzurri e ciglia nere. A chi quest’immagine non fosse prontamente venuta in mente, allora non si sarebbe trattato di un aristocratico o di qualcuno che giocasse, in Russia, un qualche ruolo negli affari of the upper ten thousands[1].
Questo modello era così forte e riconosciuto, che ai vecchi tempi della servitù della gleba, in esso si vedeva la possibilità da parte dei contadini o dei servi di entrare a fare parte dei nobili. Che cosa straordinaria!
Il conte Mikhail Ivanovich Baranzov fu degno erede del suo casato. Anch’egli bello, ebbe la fortuna di nascere all’inizio del regno di Nicola, nel periodo della maggiore prosperità della guardia di Pietroburgo. Aveva servito per alcuni anni nel reggimento di Kirasirsk, aveva infranto il cuore di molte donne e, a pieno titolo, si era meritato tra i compagni il lusinghiero soprannome di “furore degli uomini”. Ancora giovane, il conte si innamorò come mai prima della sua lontana parente Maria Dmitrievna Kudrjavzeva. Anch’ella portava sul suo bel viso, che sembrava essere stato scolpito dal cesello di un grande artista, il chiaro simbolo della famiglia Baranzov. Visto che ricambiava il suo amore, il conte la sposò e continuò a prestare servizio nella guardia. Forse sarebbe arrivato tra gli alti gradi dell’arma, ma all’inizio del regno di Alessandro II, gli capitò un piccolo guaio, la cui causa era anch’essa nascosta in quel burrascoso sangue Baranzov, in quella fatale bellezza di famiglia. Geloso di un ufficiale della guardia, lo sfidò a duello e lo freddò. La vicenda venne messa a tacere a malapena, ma era comunque imbarazzante per il giovane conte restare nel reggimento: fu così costretto a dare le dimissioni e a ritirarsi in una tenuta che aveva ereditato dal padre, spirato da poco.
Questo accadde nel 1857. A Pietroburgo si insinuavano già voci dell’emancipazione dei contadini, ma a Borki, così venivano chiamati i poderi dei conti Baranzov, ancora queste informazioni non erano arrivate. Lì, tutto andava avanti ancora secondo il buon vecchio ordine. Quanto bene stava il conte Mikhail Ivanovich in quel periodo: nessuno lo conosceva bene, e lui stesso tutti gli altri. La tenuta era grande, sebbene le dimensioni adesso non fossero quelle di prima. Anche il defunto paparino, buonanima, amava godersi la vita e per questo aveva abbattutto buona parte della foresta e venduto alcune disjatine[2] di terreno. Mikhail Ivanovich dopo aver servito circa 15 anni nei kirasirak, non senza dolore si intende, lasciò Pietroburgo. Decise, per riscattarsi dalle malefatte passate, di vendere ancora un consistente pezzo di terra e di porre un certificato d’ipoteca sul resto della proprietà. Adesso, tuttavia, tutto si sistemò al meglio e nessuno disturbava il conte. Lo starosta[3] era impeccabile: si riuscì a sistemare senza rumore, senza discussioni superflue: quando al signore servivano i soldi, questi erano già sottomano.
All’epoca del loro trasferimento in campagna, il conte Mikhail Ivanovich e la contessa Maria Dmitrievna, sebbene le tre figlie stessero già diventando grandi, erano e si sentivano ancora giovani. Non avevano nessuna preoccupazione o dovere e nessuno impediva loro di vivere in quella assoluta felicità.
La vita in campagna scorreva sui vecchi binari di libertà e felicità. Tutto in casa, già al tempo del defunto signore, era nello stile da gran signori: trenta cavalli stranieri nella scuderia, prato inglese, serre e una gran massa di inutili e svogliati servitori. Soltanto una cosa era diversa adesso, da quando il buon paparino era il padrone: la nuova generazione aveva aggiunto, a quelli già esistenti, i più diversi e raffinati capricci della capitale, dei quali prima, in campagna, non si fantasticava neppure. Nelle sale di gala tutta la tapezzeria era stata cambiata: adesso tutto era di seta. I pavimenti e le finestre che prima erano vuoti e nudi, adesso potevano sfoggiare tappeti e tende. I lacchè che prima andavano vestiti con bisunte finanziere, adesso potevano sciorinare le loro nuove livree. In cucina vennero assunti cuochi che si erano formati all’ Anglijskij Klub[4] e, alla serie di cameriere del popolo, impegnate notte e giorno a cucire, ricamare e intrecciare merletti, venne affiancata una serva affrancata che ostentava invidiabile eleganza.
Le scelte di gusto dei giovani signori avevano anche una sana influenza sui vicini. Non a caso, il governatore, in occasione del discorso in onore dei nuovi arrivati, disse che avevano portato un sospiro di nuova vita nella provincia. E in effetti dal loro arrivo ebbe iniziò una nuova era di festeggiamenti, banchetti e gioia; nessuno voleva fare brutta figura davanti agli ospiti della capitale. I proprietari terrieri e le loro mogli si scrollarono di dosso tutta la loro pigrizia tipica delle provincie. I semplici divertimenti di un tempo, gli abbondanti pranzi per festeggiare l’onomastico di qualcuno, carte e balli vennero in quel periodo sostituiti da passatempi raffinati, per così dire, più intellettuali. Già il primo anno dopo l’arrivo del conti Baranzov, in occasione dell’onomastico, nella città del governatorato, si tenne uno spettacolo di dilettanti, un concerto con quadri viventi e un ballo in maschera con sottoscrizione.
Sia Mikhail Ivanovich chè Maria Dmitrievna erano entusiasti della loro impressione nella provincia e entrambi si buttarono con tutto se stessi in questa, diciamo così, missione di civilizzazione. In occasione di un pranzo ufficiale, il conte, pronunciò un talk sull’importanza della gentry[5] inglese e sull’opportunità dei servi della gleba russi, di diventare come i landlord[6].
Anche la contessa svolgeva un suo ruolo al fine di nobilitare l’indole provinciale della gente di quella zona. Sentiva come un suo dovere ordinare abiti eleganti da Pietroburgo. La casa dei conti Baranzov era sempre aperta agli ospiti. Il pranzo veniva servito più tardi, secondo l’uso cittadino e, prima del pranzo, tutti i domestici erano obbligati a rivestirsi, come in una distinta famiglia inglese. Per antipasto non si servivano alcolici depurati, ma vodka inglese.
La casa dei Baranzov, pesante e vecchio edificio, le cui mura di pietra della misura di una arshin[7] e due volte spessi, ricordava dall’esterno uno di quegli enormi cassettoni, con attaccati, Dio solo sa perché, in vari punti fantastiche lanterne e balconcini. Era di un certo stile abbastanza definito che però sembra non fosse menzionato in nessun manuale di architettura, uno stile che potrebbe essere chiamato “della servitù della gleba”. C’era molto di tutto, materiali sparpagliati ovunque, ma in maniera rozza e grossolana. Era del tutto evidente che quella casa era stata costruita in quei tempi nei quali il lavoro degli uomini era gratuito e tutti trattavano i servi alla stregua di semplici mezzi. Mattoni cotti nelle proprie fabbriche, parquet prodotti dai propri boschi e dai propri servi; perfino l’architetto di quel progetto doveva essere stato un servo della gleba.
Anche la sistemazione interna delle stanze, nella casa dei Baranzov, non si distingueva dalla maggior parte delle case dei proprietari del tempo. Sopra vivevano i signori e al piano di sotto i bambini mentre il piano interrato era stato ricavato sotto la cucina e destinato alla servitù.
La contessa scendeva al piano interrato soltanto per Pasqua, quando andava a fare gli auguri alla servitù con i tipici tre baci. In occasione delle feste minori dava, ogni tanto, soltanto uno sguardo così come nei giorni normali, quando il tempo glielo permetteva, quando non aveva ospiti o quando lei stessa non era invitata da qualcuno, cosa che comunque avveniva abbastanza di rado.
In casa Baranzov le tre signorine crescevano e maturavano sotto la sorveglianza di due governanti, una delle quali, m-lle Julie, era una brunetta alta, spigliata e molto vivace la cui età non era dato sapere, e l’altra, m-me Night, era una rispettabile vedova con un viso severo, colossale e dai cospicui boccoli bianchi. Oltre a queste due goveranti un’altra schiera di persone stavano al servizio delle bambine: una vecchia tata, Anisja la cameriera e una ragazzina tuttofare.
Beh, in parole povere, tutto in casa Baranzov seguiva lo standard di una perfetta casa di nobili. Le tre fanciulle erano alte per la loro età e tutte e tre avevano dei bellissimi capelli folti che, al mattino, venivano loro intrecciati e a pranzo venivano sciolti sulle spalle. Insomma, le figlie dei Branzov promettevano bene, sarebbero diventate bellissime.
Le due più grandi, Liza e Lena, erano ancora, per così dire, impegnate a giocare con i loro giocattoli, ma sarebbe venuto presto il tempo in cui quei giochi infantili sarebbero stati sostituiti da discussioni davanti ad un samovar. Una aveva quattordici anni, l’altra tredici. Entrambe di già con fremente curiosità stavano ad ascoltare chiunque stesse mormorando qualcosa al piano di sopra ed entrambe si lamentavano di dovere ancora indossare quei piccoli vestitini.
La terza signorina, Vera, era soltanto una piccola bambina dal viso ovale e rubicondo e con quello sguardo particolarmente assorto, che quasi sempre hanno i bambini che vivono la loro infanzia in modo del tutto particolare. Vera ancora non si lagnava di niente e come ogni bambino che trascorre la sua infanzia senza particolari problemi, aveva in sè ancora gli istinti più naturali. Era attaccata a tutti coloro che la circondavano in modo del tutto naturale, sincero, proprio come un cagnolino, e mai ancora le era venuto in mente di dubitare dell’affetto delle persone a lei vicine. La sua mamma era la migliore delle mamme e la sua stanza dei giocattoli di certo la migliore al mondo.
In casa andava tutto nel migliore dei modi. A ciascuno il suo, e tutti vivevano pacificamente, tranquillamente, come sempre accade in quelle comunità rette da saldi principi e nelle quali al singolo non è dato disperarsi per trovare una qualunque fine personale.
Diciamo che dal piano più basso a quello più alto, in casa Baranzov, tutti pensavano, bisbigliavano e sognavano dell’amore.
E sembrava che niente, a parte le gioie e pene d’amore, potesse intralciare una strada diritta e chiara che si stendeva davanti alle tre signorine Baranzov. Per tutte le altre questioni della loro vita tutto era già determinato, era già ben prevedibile. Papà e mamma avevano già del tutto deciso che Mitino sarebbe stato donato come corredo a Lena, Stepino a Liza e a Vera sarebbe toccato Borki.
Sapevano anche mamma e papà che, in quel periodo, dopo tre-quattro annetti circa, sarebbe di sicuro apparso un qualsiasi drago o un ussaro, venuto a prendere Lena, dopo un po’ sarebbe stato il turno di Liza e infine anche Vera avrebbe fatto la stessa fine.
Le bambine non avrebbero vissuto più a Borki, ma in un’altra casa, Anisja non sarebbe più stata la loro governante, bensì una qualsiasi altra cameriera; ognuna avrebbe rivissuto questi piccoli cambiamenti come la mamma, come anche quest’ultima aveva fatto con la propria. Tutto era così chiaro e giusto e ognuno ne era cosciente, così come si sapeva che domani sarebbe stato domani.
Ma tutti questi calcoli infallibili e privi di ombra di dubbio, si sarebbero un giorno improvvisamente incrociati con un avvenimento inaspettato; avvenimento che poi tanto inaspettato non doveva essere, visto che una ventina di anni prima, se ne parlava già e al quale tutta la Russia si era già preparata. Ma come tutti i grandi eventi, quello ebbe la capacità, quando alla fine esplose, di lasciare tutti impreparati, come se esso fosse piombato giù dal cielo inaspettato.
Vera vide la prima ombra di questo futuro evento nelle circostanze che adesso vi dirò. Un giorno, agli sgoccioli dell’anno 1860, era a pranzo dai Baranzov, oltre ai soliti zii, nonni e vicini più intimi, anche un insolito ospite di riguardo: uno zietto di Pietroburgo, alto funzionario di un qualche ministero. Era venuto proprio quel giorno di buon mattino e si si era fermato per pranzo. Sia beninteso che parlò quasi soltanto lui, e raccontò diverse notizie delle più alte sfere del governo, che mai e poi mai sarebbero apparse sui giornali.
Durante il pranzo, tuttavia, la contessa più di una volta lo interruppe proprio quando il racconto si faceva più succulento.
“Stépan! prenez garde!”[8]diceva lei, misteriosamente annuendo ai lacchè mentre servivano le portate, i quali, comunque, mantenevano assolutamente la stessa imperturbabile espressione. Dopo il dessert si spostarono nel soggiorno e lo stesso conte si accertò che tutte le porte delle camere vicine fossero chiuse.
“Vous pouvez parler, Stépan!” disse il conte con aria solenne.
Vera sedeva sulle ginocchia del nuovo arrivato zietto, con il quale aveva giа avuto il tempo di fare amicizia. Non le diedero importanza, pensando che probabilmente non avrebbe capito niente della discussione.
“C’est fait! L’empereur a souscrit le projet qui lui a été présenté par la commission”[9] tuonò lo zietto.
La mamma, che stava proprio in quel momento versando il caffè, si sentì venire meno le mani, il cucchiaino tintinnò sul piattino, e qualche goccia di caffè andò versata su quella costosa tovaglia.
“Mon Dieu, mon Dieu”.[10] Così si sfogò la contessa cadendo sul divano e stringendosi il volto tra le mani.
Tutti i presenti stavano lì seduti scioccati dalle parole dello zio di Pietroburgo.
“Non vorrà mica dirmi che è giа tutto bello e deciso?” chiese il papà con voce bassa, calma ma decisa.
“Assolutamente certo! I primi di febbraio verrà distribuito alle parrocchie per renderlo noto ai cittadini” rispose lo zio, posando il caffè.
“Significa che ci rimane soltanto di affidarci alla bonta di Dio” sospirò il conte.
Passarono alcuni minuti di pesante silenzio generale.
“Ma signore, è davvero così? Secondo me è proprio un saccheggio, sì, un saccheggio bello e buono!” risuonò tutt’un tratto la voce del vecchio Semjon Ivanovich, lo zio del conte.
Sobbalzò dal proprio posto furioso e scagliò un pugno sul tavolo. I suoi bianchi capelli gli si drizzarono sul suo volto rosso di rabbia e intriso di astio.
“Non urli zio, per caritа di Dio! Les domestiques peuvent entendre”[11] lo supplicò timidamente la contessa.
“E allora spiegatemi voi tutti per bene, alla fine, cosa ne verrà da tutto questo! Significa che ben presto nessuno ci obbedira più?” irruppe nella discussione l’ansiana zietta Arina Ivanovicha, con sconcerto e in qualche modo offesa.
“E adesso non ci attacchiamo alle piccolezze, sorella. Lascia che Stépan ci informi bene su tutto, come si deve” disse il conte allontanandola con la mano.
Gli uomini si riunirono in gruppo attorno a Stépan Mikhajlovich, che aveva già cominciato a discutere di qualcosa di scottante. Le signore invece continuarono a disperarsi.
“Comment est-ce que l’empereur, qui a l’air si bon, peut nous faire tant de peine”[12] sortì una di loro con meraviglia.
Qualcuno entrò in quel momento per togliere il caffè. Tutti si zittirono.
“Signorina, lei è rimasta in soggiorno dopo pranzo. Non ha per caso sentito di cosa discorrevano i signori lì?” chiese Anisja, in tarda serata mentre metteva a letto la piccolina.
Da quanto aveva udito quel pomeriggio, nel soggiorno, Vera capì che tutti i suoi familiari si sentivano minacciati da una qualche povertà. Nessuno aveva neppure lontanamente pensato di ordinarle di fare silenzio, ma la piccoletta portando già dentro di sè un certo segno di appartenenza alla nobiltà, rispose dignitosamente:
“Non ho sentito niente Anisja”.
Sebbene adesso fosse chiaro a tutti che il manifesto non solo era già stato firmato dal sovrano, ma veniva già distribuito per le chiese, fino all’ultimo minuto dell’ultimo giorno, i signori continuarono a temere che la servitù venisse a sapere qualcosa.
La servitù, dal canto proprio, tacitamente qualcosa sapeva e così come le discussioni in soggiorno si interrompevano all’arrivo di qualcuno, così quel vivace ciarlare davanti all’ingresso o alla credenza svaniva all’apparire di uno dei padroni.
E così arrivò quel terribile, a lungo atteso 19 Febbraio[13], che avrebbe portato con sè tante di quelle conseguenze. Tutta la famiglia Baranzov andò in chiesa, e il prete avrebbe letto il manifesto.
Già alle 9 del mattino tutti a casa erano pronti e vestiti. Quel giorno tutto fu fatto in maniera febbrile e allo stesso tempo in modo del tutto solenne, come quando per esempio, si va ad un funerale. Tutti avevano paura di proferire una sola parola.
I bambini sentivano per instinto l’importanza e la solennità di quel giorno, stavano tranquilli pacifici e non osarono informarsi su niente.
Di fronte al portone principale stavano due carrozze. Una di esse era agghindata come nuova di zecca, sui cavalli i migliori finimenti, i cocchieri con nuove palandrane. Anche il conte si era messo in ghingheri, in alta uniforme sulla quale aveva attaccato tutti gli onori al merito. La contessa portava una mantella di velluto, le bambine sembravano quasi bamboline a corda.
Nella carrozza di testa sedevano i signori: il conte e la contessa davanti e le tre ragazzine nel sedile posteriore. Nell’altra carrozza si sistemarono le governanti, l’economa e l’amministratore. Il resto della servitù si diresse in chiesa a piedi. Fatta eccezione per i bambini più piccoli e per il vecchio rimbambito Matvej, nessuno rimase a casa.
La chiesa si trovava a tre verste[14] dalla casa dei Branzov. Per strada la mamma abbassava spesso lo sguardo verso il suo profumato scialle. Il padre, invece, severo taceva.
La piazza antistante il sagrato era nera di gente. Erano arrivati due-tre mila uomini e donne dai paesi vicini. Si disse, sembra, che era una densa massa di soprabiti grigi, tra i quali, qui e là, spiccavano gli accesi colori dei foulard che le donne portavano in capo.
“Ce spectacle me fait mal! Je pense involontairment а ’89”[15] borbottò nervosa la contessa.
“De grâce, taisez vous, ma chère[16]” sussurrò commosso il conte. Quel giorno, come in tutti gli altri dì di festa, il sagrestano attendeva nel campanile l’arrivo della carrozza dei signori, e soltanto dopo averla vista nella curva avrebbe dato il via allo scampanio.
La chiesa era piena zeppa, non c’era più spazio nemmeno per un respiro. Ma secondo quella vecchia abitudine ormai inveterata, quella folta massa di gente, con rispetto, cedeva il passo ai signori, invitandoli avanti con un gesto, verso il loro solito posto, alla destra del coro.
“Preghiamo in pace il Signore” annunciò il prete, uscendo dall’altare, tutto parato.
“E con il tuo spirito” rispose il coro dei primi.
Questa folta, grigia e cupa folla pregava in quel giorno come un sol uomo, assorti nella loro sofferenza. Uomini e donne si fecero il segno della croce e si inginocchiarono spesso. Scuri in volto, severi, col viso solcato da profonde rughe come se fosse in preda ad un crampo.
Tempio dei lamenti, tempio del dolore
Povera chiesa della mia terra,
Non San Pietro in Roma, non il Colosseo
Hanno mai udito più grevi sospiri[17]
Ma in quel giorno nella basilica non si sentiva nè un respiro nè un solo lamento. Quel giorno in quella basilica, e non solo in quella, bensì in ognuna delle centinaia di migliaia di chiese sparpagliate per il suolo russo, venivano rivolte al cielo quelle ardenti, infinite e accorate speranze, come non se ne sentivano da tempo.
“Signore nostro padrone! Abbi pietà di noi! Il dolore della nostra grandezza e vecchiaia. Andrà meglio adesso?”
Cosa era scritto sul manifesto? Fino a quel momento perfino i signori ne conoscevano il contenuto soltanto per sentito dire. Nessuno sapeva niente con esattezza, dal momento che i manifesti inviati ai preti avevano ancora il sigillo imperiale e sarebbero stai aperti soltanto al termine della liturgia.
Tutta quella gente ammassata in quella piccola chiesa e la moltitudine di candele accese all’interno della piccola chiesa, sebbene la porta e la finestra fossero aperte, avevano reso l’aria pesante, irrespirabile. Il soffocante odore dei vestiti sudaticci della gente e degli stivali sporchi si miscelava con l’aroma di incenso e con quella particolare fragranza che emana la cera quando brucia. Nuvole di fumo azzurro salivano verso l’alto dall’incensiere. L’aria non bastava. Il petto pompava a fatica e in maniera irregolare, e questa sofferenza fisica, provocata da una difficile respirazione unita alla tensione dell’attesa, diventava un tormento insopportabile e provocava sentimenti di timore inesplicabili.
“Adesso lo dice, adesso?” mormorava istericamente la contessa, stringendo convulsamente la mano del marito.
Il prete portò allora via il crocifisso. Passò una buona mezz’oretta durante la quale tutti gli astanti riuscirono ad accostarsi al prete. Finito il via-vai, il prete si nascose un minuto dietro l’altare per poi presentarsi di nuovo nell’ambone. Aveva nelle mani un pacco di carta bollata dal quale pendeva un grande sigillo imperiale.
Un profondo e lungo sospiro si estese per tutta la chiesa, proprio come se la folla avesse respirato insieme, con un sol petto. Ma proprio in quel minuto scoppiò un inaspettato marasma. L’enorme quantità di gente che non era riuscita a farsi largo all’interno della chiesa e che era rimasta nel sagrato fino alla celebrazione della messa, adesso aveva perso la pazienza. La folla, dalla porta spalancata, fece un assalto unico e inaspettato in avanti e quelli che stavano avanti rotolarono in gruppi verso i gradini dell’ambone. Urla, parolacce, gemiti e lo strillare dei bambini.
“Mon Dieu! mon Dieu! prenéz pitié de nous!”[18] disse la contessa quasi piangendo, sebbene lei, grazie alla copertura del coro, non corresse nessun pericolo.
I bambini, anch’essi, erano fuori pericolo.
Dopo qualche minuto l’ordine ritornò all’interno della chiesa. Di nuovo quel silenzio inesorabile, carico di tensione e assorto in preghiera. Tutti ascoltavano con vivo interesse, trattenendo il respiro; talora dal petto di un vecchietto affannato scappava un sibilo sordo, soffocato o un lattante cominciava a piangere; la mamma tra imbarazzo e paura subito si preoccupava di cullarlo, per farlo smettere almeno per un po’.
Il prete leggeva piano, con una sorte di cantilena, scandendo le parole, come stesse leggendo il vangelo.
Il manifesto era scritto in quello stile burocratico, come fosse un libro. I contadini ascoltavano senza prendere fiato, ma sforzavano tanto le loro menti per capire questo documento che sanciva il loro futuro, qualora ve ne fosse uno, ma non c’era una sola parola che essi riuscissero capire. Il senso generale era loro oscuro. Man mano che la lettura volgeva al termine, a poco a poco la tensione sui loro volti spariva e lasciava spazio a espressioni di ottusa perplessità, carica di paura.
Il prete terminò la lettura e i contadini, probabilmente, non sapevano neppure se fossero liberi o meno, e soprattutto, la risposta di vitale e ardente importanza alla domanda: “Di chi sarà adesso la terra?”. In silenzio, a capo chino ognuno cominciò ad andare per la propria strada.
La carrozza dei signori si mosse di un passo in mezzo ai crocchi di persone. I contadini le fecero spazio e si tolsero i cappelli dal capo ma non fecero profondi inchini, come accadeva prima, e tacevano in modo strano e ancora pìù sinistro.
“Sua eccellenza il conte! Noi siamo vostri e voi siete nostri!” si levò improvvisamente, tra il silenzio generale, una voce provocatoria, ubriaca e un omiciattolo mezzo morto, vestito con un caffettano ridotto in stracci, senza cappello, che era riuscito ad ubriacarsi già durante la celebrazione della messa e che si buttò contro la carrozza, cercando di corsa di baciare la mano del signore.
“E togliti!” disse allontanandolo cattivo un ragazzone dal viso accigliato e cupo.
La sera di quello stesso giorno, tutta la famiglia Baranzov era riunita nel piccolo soggiorno della contessa. Tutti ad eccezione dei domestici, m-mlle Julie e, ancora, della zia Arina Ivanovna e dello zio Semjen Ivanovich. Generalmente, di sera, tutti stavano in camere diverse, ma quella sera il comune sentimento di povertà li spingeva a sostenersi l’un l’altro, riuniti in un intimo gruppetto. La mamma era stesa sul sofà con una forte emicrania. M-mlle Julie le faceva degli impacchi freschi sulle tempie. Il papà, con le mani strette indietro, andava su e giù per la stanza, assorto e cupo. Lo zio si era relegato in un angolo della stanza e ansimava profondamente. La zia faceva un solitario e di tanto in tanto sospirava.
Si alzò verso sera una tremenda bufera di neve. Tutt’un tratto arrivò un folata di vento che si abbattè sulle imposte e scagliò delle foglie di ferro sulle tegole. A ogni sbattito la signora trasaliva e sobbalzava sul sofà. Nella stanza tutto si faceva sempre più buio. L’ampolla sul tavolo, visto che nessuno la riempiva, bruciava fioca e ad ed intermittente. Evidentemente era necessario versare dell’altro olio, ma tutti facevano finta di non accorgersene. Tutta la servitù quel giorno era sparpagliata chissà dove, e a nessuno andava di alzarsi e andare a chiamare un lacchè.
“Qualche giorno fа, i contadini del signor Leskovskij gli hanno bruciato la casa” sortì all’improvviso la zia.
“E non hanno altro da bruciare!” si udì dall’angolo del vecchio zio lugubre e con la voce che gracchiava.
“Sì, si sono infilati in una questione più grande di loro stessi” continuò egli stesso dopo qualche minuto con voce triste e profetica. “Vediamo come si tireranno fuori dai guai. Forza lei,” puntando la mano verso m-mlle Julie “mi dica come gli è andata nell’ottantanove”.
“Mon Dieu! mon Dieu! Que l’avenir est terrible!”[19] sussurrò nervosamente la mamma.
“La smetta di lasciarsi scappare certe sciocchezze. I russi non sono i giacobini” disse tranquillo il papà, anche se era visibile lontano un miglio che si trattava di una calma apparente.
“Eh no Michel, i nostri contadini sono bestie, i nostri sono peggio di quelli francesi” riprese la mamma dolorante sul divano, appoggiata sul gomito. “Lo sai bene che i contadini ci odiano…”
Nella stanza accanto si udì una porta cigolare. Tutti si voltarono e timidamente si guardarono intorno. Alla mamma, spaventata, scappò un “Ah”.
Arrivò lo zio Stépan, dicendo che il tè era finito.
Era ora che Vera andasse a letto. Nella camera dei giocattoli non c’era nessuno. La porta dava sul corridoio. Da giù, da dove stavano mangiando gli altri, arrivava il leggero suono di voci, il tintinnio di coltelli che sbattevano sui piatti, e risate fragorose.
A Vera era severamente proibito correre per la stanza della servitù. Ma quel giorno tutti si erano dimenticati di lei. Era presa da un sentimento misto di paura e curiosità per quel posto, ne era spaventata ma allo stesso tempo voleva dare uno sguardo a cosa si facevа lì. Rimase qualche minuto in preda all’indecisione. Ma lei aveva del fegato. Venne presa dalla curiosità e si lanciò giù come un lampo, dritto verso il piano interrato.
Lì c’era una gran baldoria. Al mattino il morale della servitù era riservato, perfino represso. Avevano ancora paura di crederci; ma alla sera i sentimenti esplosero. Per cena, chissа da dove, presero della vodka; tutti si ubriacarono e allora tutta la tensione volò via. Sui volti di tutti occhi lucidi e i capelli tutti arruffati, vi si leggeva un certo ardore.
L’odore dello sči[20] e del pane di segale, misto al pesante aroma della vodka e all’acre fumo dell’okhorka[21], che stava lì a corrodere gli occhi, il suono stonato di un’armonica e le voci ubriache che si sovrapponevano l’un l’altra: ecco cosa aveva attirato Vera lì sotto. Ma all’arrivo della signorina, tutto all’improvviso si calmò e tutti si rimisero a lavoro; ma dopo soltanto un minuto, in gran fretta ricominciò di nuovo la baldoria.
“Signorina, signorina! Vieni qua! Non aver paura!” disse il cocchiere con voce sbronza. “Cos’è, il padrone su piange? Il tè? Beh peccato per lui, adesso non gli è più dato di tiranneggiare su di noi?”
“Non è vero! Non è vero! Nessuno è mai stato tiranno con voi. Mamma e papà sono buoni”.
Questo urlo di parole scappò a Vera e con fiacca ira sbattè il piede sul pavimento. L’animo Baranzov si era risvegliato, avrebbe voluto spingersi su di loro, colpire quei servi impudenti. Offesa e indignazione avevano del tutto soffocato la paura.
“Non sono stati dei tiranni? E il vostro nonnino là, quello morto, a suo tempo ne ha mutilate poche di persone? Perché allora lui Andreuccio-il falegname non è nell’ordine dei soldati? Perché confinò la signorina Arinja nella stalla?” si levarono da più parti alcune voci contemporaneamente.
L’armonica si zittì. Tutta la servitù si riunì in cerchio e cominciò a raccontare storie dei bei vecchi tempi; storie terribili, inenarrabili che Vera non si sarebbe mai neppure sognata.
“Ma questo era il nonno, mamma e papà sono buoni!”.
Vera adesso non urlava, ma parlava piano, tra le lacrime, con voce sommessa.
Ci fu un minuto di silenzio.
“Si, i giovani signori non hanno niente di male, sono buoni!” concordò qualcuno, quasi controvoglia.
“Adesso il nostro padrone si è calmato, ma prima? Quando era scapolo, come ci trattava, come trattava le donne?” disse furiosa la vecchia governante.
“Siete dei farabutti! Peccatori! Non dovete toccare la piccolina!” si levò sdegnata e infuriata la voce della tata.
Cercava la bimba già da un po’ ed aveva corso per tutta la casa; ma non le era venuto in mente di poterla scovare nella stanza della servitù.
Vera a lungo non riuscì a dormire quella notte. Nuovi, terribili e avvilenti pensieri le frullavano per la mente. Lei stessa non riusciva a comprendere per bene, perché si sentisse così in pena, così amareggiata e profondamente vergognata. Stava sdraiata sul suo letto, piangeva e piangeva, mentre da giù, dal piano interrato, arrivavano il rumore dei piedi sul pavimento, il suono stonato dell’armonica e le urla ubriache e sconnesse di gente che cantava.
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Note
[1] In inglese nel testo originale
[2] Vecchia unità di misura russa corrispondente a 1.09 ettari.
[3] Nella Russia zarista, capo di un’amministrazione locale o amministratore di una tenuta.
[4] Il club inglese, un locale privato di Mosca, con un famoso ristorante, luogo di incontro dell’alta società dai tempi di Caterina II fino all’inizio della rivoluzione russa. Pushkin lo menziona nel settimo capitolo dell’Evgenij Onegin, Tolstoj nel quarto libro di Guerra e Pace.
[5] In inglese nel testo originale.
[6] In inglese nel testo originale.
[7] Vecchia unità di misura russa paria 0.71 m.
[8] In francese nel testo.
[9] In francese nel testo.
[10] In francese nel testo.
[11] In francese nel testo.
[12] In francese nel testo.
[13] In realtà la lettura da parte dello zar del manifesto avvenne il 5 Marzo 1861 nella capitale, nelle province ancora più tardi
[14] Vecchia unità di misura lineare russa pari a 1067 m.
[15] In francese nel testo.
[16] In francese nel testo.
[17] Citazione leggermente errata dalla poesia “Tishina” (Silenzio) di Nikolaj Nekrasov
[18] In francese nel testo.
[19] In francese nel testo.
[20] Zuppa russa.
[21] Miscela di tabacchi di infima qualità.
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III
Dopo l’emancipazione, in casa tutto rapidamente cambiò. La resa della tenuta si abbassò così tanto che costrinse ogni membro della famiglia a cambiare le proprie abitudini economiche. Lo starosta, da uomo affidabile che era nei pagamenti, si trasformò in un mascalzone, rispondeva male al padrone, faceva ostruzionismo e i soldi dell’ipoteca non arrivarono mai più puntuali. Arrivò, quindi, il momento in cui fu necessario cambiarlo e prenderne uno nuovo, ma quest’ultimo, come si sa… chi cambia la strada nuova per la vecchia… Quasi ogni giorno le cambiali e i doveri per la terra crescevano a dismisura, tanto che il conte non potè più tenerne il conto. Alla vista di ogni nuova cambiale, andava fuori dai gangheri, urlava a quella carogna dello starosta, e tuttavia bisognava pagare. Presto risultò inevitabile vendere Mitino, Stipino, i prati sul golfo e perfino la zona della foresta; restò soltanto Borki e un’altra inutile striscia di terra. Il male peggiore fu che adesso non c’erano così tanti acquirenti, per cui tutto venne svenduto a metà del prezzo reale.
Una grossa fettа della servitù venne licenziata e quelli che invece rimasero a servire, da sempre abituati alla pigrizia e al dolce-far-nulla, adesso da mattina a sera borbottavano, lamentandosi del continuo aumentare del carico di lavoro. Per i signori essere arrabbiati o “non essere dell’umore giusto” era diventata normale amministrazione. Litigavano tra loro in continuazione, ma questi scontri di adesso poco assomigliavano a quelli di un tempo, come la pioggia di una nuvoletta d’autunno poco ha a che fare con un acquazzone primaverile. Non litigavano per gelosia adesso, il conte e la contessa si scontravano sui soldi e su nient’altro che non riguardasse il denaro. Tutte le volte che la contessa andava dal marito per chiedere del denaro per comprare qualcosa, quest’ultimo la copriva di rimproveri, accusandola di sperperare gli averi, di noncuranza e di totale smisuratezza. Non ci fu una sola volta nella quale lei ordinò un vestito per se stessa, o per le figlie, che in casa non vi fu una gran scenata. D’altro canto, il conte cominciò a suggerire timidamente dei viaggi in città o delle visite a qualcuno dei vicini, cosicchè alla moglie venissero su i nervi. Ma lei adesso non temeva nessun buon vicino, ma piuttosto che il marito perdesse tutto a carte o che qualcos’altro provocasse una disgrazia finanziaria.
La situazione peggiorava di giorno in giorno. Arrivarono a rinunciare prima ad un piacere poi ad un altro, ma comunque i soldi non bastavano e non riuscivano a sbarcare il lunario. Come tutta quella gente senza assolutamente senso pratico, i conti prendevano l’economia dal lato sbagliato. Risparmiavano sui beni strettamente necessari e stavano a contare perfino i granelli di zucchero o i fiammiferi che usavano. Tutti gli sfizi più borghesi, invece, erano rimasti lì, proprio come prima. L’amministratore, lo starosta, l’economa, il cuoco, il cocchiere; tutti vivevano come prima alle spalle dei padroni, con l’unica differenza che prima rubavano in una certa misura, diciamo con grazia di Dio; adesso invece le continue scenate, i rimproveri gratuiti, a torto o a ragione, e le infinite minaccie di licenziamento non avevano fatto che inasprire il rapporto con la servitù. Ognuno riusciva a strappare quanto più poteva fino alla fine e i beni dei signori venivano sparpagliati con azzardo e cattiveria. Tutto in casa aveva addosso un non so chè di squallido e meschino. Sotto pressione dei dispiaceri e delle giornaliere liti che corrodevano la loro serenità, il conte e la contessa alla fine si lasciarono andare, così improvvisamente. Quando Vera durante le nostre conversazioni ricordava della madre le venivano in mente due figure distinte e totalmente diverse: la prima una donna giovane, bella e piena di gioia di vivere: la mamma della sua infanzia; la seconda era capricciosa, bisbetica, trascurata e che rendeva la vita impossibile a se stessa e a gli altri: la mamma dell’ultimo periodo.
La situazione era decisamente la stessa per tutti i vicini. I proprietari terrieri avevano perso il suolo “natio” da sotto sotto i piedi ed erano rimasti attoniti, incapaci di cavarsela da soli senza neanche capire cosa fosse loro capitato. Non c’era proprio niente che fosse piacevole o felice. Quando due o tre latifondisti si trovavano insieme, sedevano, si piangevano addosso e lamentandosi si sfogavano contro i contadini e il governo. I più giovani tra i proprietari, ancora energici, avevano lasciato perdere la proprietà e disperati erano andati a Pietroburgo a cercare aiuto. Nelle tenute erano rimasti soltanto i vecchietti.
Lena e Liza Baranzov erano adesso delle signorine adulte. Entrambe soffrivano della noia delle campagne e si lamentavano amaramente della loro sorte. Effettivamente la sorte giocò loro un brutto scherzo. Che fine avevano fatto tutte le loro scintillanti speranze? Tutta la loro infanzia, tutta la loro educazione erano state, per così dire, soltanto la preparazione a quel dato giorno nel quale avrebbero indossato un abito lungo e sarebbero state immesse nell’alta società. Beh ecco arrivato quel giorno che, a parte la noia, non aveva portato un bel nulla.
Anche Vera non viveva in maniera particolarmente felice. La prima misura economica adottata dalla famiglia Baranzov era stata il licenziamento di tutto quel personale che si occupava dei bambini. M-me Night era stata mandata via per un qualche plausibile pretesto, mentre m-lle Julie si era annoiata e lei stessa aveva fatto i bagagli. I genitori di Vera decisero che mantenere una governante esclusivamente per lei non rientrava nelle possibilità della famiglia. Nel capoluogo della provincia era stato aperto in quel periodo il primo ginnasio femminile; lì si iscrivevano le figlie dei borghesucci, dei mezzi burocrati e dei mercanti; sin dall’inizio la contessa Baranzov aveva provato ripugnanza per quell’istituto. Allora era stato deciso che Vera venisse mandata al monstero di Smol’nyj.[1] Si parlò per quasi un anno di questa decisione; alla fine la contessa scrisse ad una sua vecchia amica di Pietroburgo per sapere le condizioni di ammissione e improvvisamente ricevette un’inaspettata quanto spiacevole risposta, nella quale si diceva che Vera era già troppo grande per essere ammessa presso quell’istituto.
Il conte allora ordinò a Lena e Liza di occuparsi dell’educazione della sorella minore.
Ma questa decisione era ben lontana dalle vedute delle signorine.
“E così noi avremmo studiato per essere delle governanti?” si lamentarono accettando l’incarico di controvoglia.
Vera, stando alle sue stesse parole, era stupida, svogliata e poco recettiva. Non vi fu lezione in cui non versò almeno una lacrima. Sia le insegnanti che l’alunna sfruttavano qualunque pretesto per accorciare le lezioni. I genitori, dal canto loro, presto dimenticarono la questione dell’educazione della piccola e così, a poco a poco, le lezioni svanirono del tutto. Vera si ritrovò in questo modo a quattordici anni abbandonata a se stessa.
In qualche modo era ancora estate. Passava le intere giornate nel parco selvatico o correndo per i campi e le foreste dei dintorni. I bimbetti dei contadini evitavano la sua compagnia e non meno lei temeva loro. Quando le capitava di andare per il paese, le sembrava sempre che le ridessero dietro e che la disprezzassero. Fu allora che cominciò a nascere dentro di lei un certo sentimento di ostilità nei confronti degli uomini.
Durante l’inverno Vera se la passava anche peggio che in estate. Andava in giro per tutti gli angoli della casa, da una grande stanza vuota ad un’altra, senza trovare niente da fare. Dalla noia cominciò a frugare nella libreria, ma lì sembravano solo esserci romanzi francesi e Vera aveva già fatto in tempo a dimenticare quasi completamente quella lingua in cui ciarlava così bene quando aveva cinque anni.
Ciò che era peggio era che tutti a casa non erano mai di buon umore. Dovunque andasse c’era sempre qualcuno che litigava e così Vera le buscava sempre da tutti. Guardava le sorelle che bisticciavano per una qualunque stupidaggine, o per una sciocchezza che non era dato loro fare. Se proprio in un determinato momento, contro la loro volontà, non avessero avuto niente per cui litigare, allora sicuramente sarebbero andate a lamentarsi dai genitori: “Ma noi non vivevamo così, quando eravamo piccole. Siamo cadute in basso e adesso stiamo qui ad annoiarci in campagna”.
Se fosse andata dalla mamma, l’avrebbe trovata a fare qualche scenata con la cameriera o con l’economa. Allora andava nella stanza dei giocattoli: lì peggio che mai.
Beh, in due parole, sembrava proprio che tutti erano al mondo soltanto per soffrire e tormentarsi a vicenda. L’unica in casa che non tormentava nessuno, che non faceva soffrire anima viva, che non si lamentava di niente era la vecchia tata. Una soltanto era la sua preoccupazione: che il lumino di fronte la sua icona nell’angolo della sua stanza non si spegnesse. Dandole un paio di copeiche per comprare l’olio, lei era felice e contenta. Si era ridotta mezza cieca e, allontanatala dalle sue mansioni, la lasciarono nella casa ma tutti si dimenticarono di lei; a volte per giorni interi nessuno le rivolgesse uno sguardo. In realtà la cameriera si ricordava di lei e le portava qualcosa da mangiare oppure il suo vecchio tesoruccio Vera passava da lei la sera. Ogni volta che la piccolina si trovava davanti l’ingresso dell’angusta stanzetta della tata sentiva un particolare odore: un misto di incenso, olio da lampada e canfora. Una straordinaria sensazione di pace rapiva Vera in presenza di quella fragranza.
Una di quelle sere: “Ti annoi tata?” le disse lei maliconicamente, seduta su quello sgabellino, con la testa appoggiata sul tavolo di legno.
“Annoiarmi di che, tesoro? Bisogna pregare Iddio” rispose pacata e affettuosa la tata, con quella stessa voce di quando la tranquillizzava e Vera aveva soltanto cinque anni.
Allora Vera, effettivamente, seguì il consiglio della tata e cominciò a pregare. Pregava accoratamente, appassionatamente e con tanto ardore. La passione per la religione, per la sua ritualità e per il suo aspetto intimo cominciarono, pian pianino, a riempire la vuota e noisa vita della ragazzina.
Proprio in quell’anno, tre settimane prima di natale, osservò un fioretto e la vigilia della nascita non mangiò niente, fino alla camparasa della prima stella. Così all’inizio dell’imbrunire, quando arrivarono come di consueto in quel giorno, i preti e cominciarono a servire messa per tutta la notte difronte a quell’altare improvvisato nell’angolo della mensa, Vera sentiva un senso di gradevole fragilità su tutte le membra, come se non fosse più corpo e, minuto dopo minuto, fosse in grado di staccarsi dalla terra e sollevarsi in volo.
Il fumo blu di incenso coprì tutta la stanza di una fitta nebbia, attraverso la quale scintillava la fiamma delle candele accese. Quel penetrante profumo dolce di landana provocava un lieve capogiro.
“Pace al mondo, parole sante” – cantavano i coristi e a Vera sembrava che le loro voci venissero da così lontano.
“Niente, niente mi serve sulla terra, soltanto servirti mio Dio! ” questo pensava lei con commozione.
La sua anima era intrisa di miracolo e di santa felicità e singhiozzi di gioia le scappavano dal petto.
Proprio quel giorno a Vera si avverò un miracolo, almeno lei stessa prese per un tale quello che le capitò.
Sebbene la tata fosse analfabeta, teneva con se, come cose sacre, alcuni libri religiosi che di tanto in tanto chiedeva alla sua piccola signorina di leggerle ad alta voce. Tra quei volumi vi era anche “Il martirio di quaranta uomini e trenta donne”. Vera, iniziatolo a leggere, fu subito presa da quella lettura, lo chiese in prestito alla tata e lo lesse per ore intere.
“Perché non sono nata in quei tempi?” pensava spesso con delusione.
Ma proprio quella vigilia di natale, nella quale fece voto di eterna fedeltà a Dio, le capitò quanto segue: di sera, stava alla lezione di studi superiori, quando improvvisamente le venne sotto gli occhi un vecchio numero di “Detskij Chtenije”[2] alle quali si erano abbonate, chissà quando, le due sorelle. Da che non aveva niente da fare, cominciò a sfogliare quel giornalino e la prima storia sulla quale si imbattè fu un toccante racconto su tre missionari inglesi mandati in Cina. I pagani che li avevano catturati e contro i quali loro continuavano a inveire li avevano fatti prigionieri e messi allo spiedo. Questo accadeva cinque-sei circa prima. In Cina anche allora c’erano genti pagane e ancora da quelle parti ci si può “guadagnare” una bella corona di spine.
“Dio! Proprio tu mi hai ispirato! Hai scelto il mio cammino e mi stai richiamando all’eroismo!”
Si buttò in ginocchio per l’entusiasmo e l’emozione. In quell’evento e cioè che quella rivista fosse caduta nelle sue mani proprio quel giorno come fosse una risposta alle ardenti preghiere recitate notte e giorno, Vera vide l’indubitabile e tangibile operato del Signore.
Da quel giorno il suo destino era ben delineato ai suoi propri occhi. Tutti i suoi sogni presero una determinata immagine e una precisa direzione. Tutto quanto riguardasse la Cina adesso era di suo vivo interesse e diventava rossa in viso anche soltanto se, a pranzo, un discorso sfiorasse quel paese. Soltanto una cosa spaventava Vera: e cosa sarebbe accaduto se la Cina si fosse convertita al cristianesiamo prima che questa bambina fosse cresciuta del tutto?
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Note
[1] L’Imperatrice Caterina II (La grande) aveva fondato lo “Instituto per fanciulle nobili” nel monastero di Smol’nyj nel 1764.
[2] “Letture per bambini”, una rivista pubblicata per la prima volta nel 1865. Tuttavia nelle edizioni pubblicate della rivista non è stato ritrovato il racconto descritto dall’autrice.