Oggi vediamo ancora una volta il mondo alla rovescia: lo Stato di Israele viene accusato di genocidio mentre combatte il genocidio”[1]: a queste parole di Benyamin Netanyahu, pronunciate poco prima dell’apertura del processo contro il suo Paese, accusato davanti alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia di aver violato la “Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio” nelle operazioni militari in corso a Gaza, sono seguite altre parole simili durante l’udienza: “Se ci sono stati atti di genocidio, sono stati perpetrati contro Israele”, ha dichiarato Tal Backer, consulente legale del Ministero degli Affari Esteri israeliano.
È possibile ribaltare l’accusa?
Ribaltare l’accusa, cioè mettere in discussione la procedura e il tribunale che la sta conducendo, è una posizione che viene deliberatamente posta ai margini della legge. Ma è un approccio comune e talvolta pertinente: può accadere che l’accusato sia la vera vittima, non solo del suo accusatore ma dello stesso sistema giuridico. È addirittura questo che definisce un caso: l’imputato, o un terzo che assume il ruolo di informatore, credendo che il tribunale sia al tempo stesso giudice e giuria, si appella all’opinione pubblica, che si mobiliterà tanto più in quanto già divisa in due gruppi destinati a diventare sostenitori e oppositori [2].
È così che Voltaire difendeva Calas in un contesto di conflitto tra cattolici e protestanti, ed è questa la struttura del tipico affare Dreyfus; secondo Naftali Bennett, ex primo ministro di Israele, l’attuale processo è “l’affare Dreyfus del XXI secolo, uno spettacolo di ipocrisia e antisemitismo” [3].
Sebbene non manchino le differenze con l’affare Dreyfus, esse sembrano principalmente rafforzare la tesi di Israele. In primo luogo, Dreyfus è stato processato per spionaggio estero sul presupposto che, in quanto ebreo, era già uno straniero, un cittadino traditore agli occhi dell’ordinamento giuridico; Israele, invece, è firmatario della Convenzione di Ginevra, quindi può considerarsi imputato in virtù della sua fedeltà alla Convenzione, che lo ha obbligato a “prevenire e punire” (articolo I) il genocidio voluto e perpetrato da Hamas.
In secondo luogo, l’affare Dreyfus divise violentemente l’opinione pubblica francese, mentre l’opinione straniera era a stragrande maggioranza dreyfusista; al contrario, i crimini del 7 ottobre hanno unito la popolazione israeliana, mentre sono stati gli altri Stati e l’opinione straniera a dividersi in due clan, lungo una linea di frattura che potrebbe facilmente essere considerata “civile”: antisemiti filo-arabi da una parte, difensori del diritto all’esistenza di Israele dall’altra.
La terza differenza, in tensione con la seconda, è che Israele non ha sostenitori assicurati: ancor prima della creazione dello Stato ebraico, la Shoah ha sradicato la possibilità di fidarsi dei sostenitori occidentali, che si sono dimostrati inaffidabili nel corso della storia dello Stato. L’accusa di genocidio dei palestinesi, emersa dal pensiero decoloniale molto prima di assumere forma giuridica, può essere vista essa stessa come parte di una “doxa occidentale antisemita”[4], assunta paradossalmente anche dagli Stati decolonizzati (tra cui il Sudafrica). Da quel momento in poi, è dubbio che Israele si appelli all’opinione pubblica internazionale: la sua posizione sarebbe sicuramente quella di Dreyfus nella prima fase della vicenda, quando fu accusato (e condannato) senza sostegno; se non fosse che ora si tratta di uno Stato, o addirittura di un governo, che cerca soprattutto il sostegno della propria opinione nazionale.
Ma è a questo punto che la forza delle argomentazioni della difesa rivela anche la sua debolezza. È vero che Hamas può essere accusato di genocidio, in virtù dei criteri stabiliti dagli articoli II e III della Convenzione: i massacri del 7 ottobre possono ben combinare “l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso” e uno degli atti che realizzano tale intento, l'”uccisione di membri del gruppo”.
Ma la Convenzione prevede solo mezzi legali o multilaterali per prevenire o punire il genocidio: le “persone accusate” devono essere “portate davanti ai tribunali competenti dello Stato sul cui territorio è stato commesso l’atto” (articolo VI); oppure uno Stato firmatario può deferire la questione agli organi competenti delle Nazioni Unite per un’azione appropriata (articolo VIII); o, se il Consiglio di Stato non prende alcuna risoluzione, uno Stato firmatario può portare l’accusa davanti alla Corte internazionale di giustizia (articolo IX).
In nessun caso la Convenzione riconosce il diritto di uno Stato di decidere politicamente, senza procedura giudiziaria, sulla qualifica di genocidio e di agire di conseguenza in modo militare e unilaterale. In altre parole, se lo fa, è in virtù di altri motivi che possono essere legittimi in base ad altri testi, in questo caso tutti quelli che danno a uno Stato il diritto di difendersi in modo proporzionato.
Un altro Stato firmatario della Convenzione, in questo caso il Sudafrica, può quindi chiedere alla Corte internazionale di giustizia di stabilire se questa risposta al presunto genocidio non sia essa stessa, nelle intenzioni e nelle azioni, un genocidio, il che autorizzerebbe la Corte a prendere misure per porre fine a questi atti. L’incriminazione, che non è ancora una condanna, rimane la procedura normale prevista dall’articolo IX della Convenzione.
In secondo luogo, firmando la Convenzione, gli Stati accettano che il diritto locale e internazionale prevalga sui cosiddetti conflitti civili. Questa è la principale differenza tra i procedimenti civili, che si basano su un contratto tacito tra i cittadini e il loro Stato, e il diritto internazionale, che si basa su impegni espliciti.
Nel primo caso, la difesa può fare appello all’opinione pubblica, perché non chiede altro che chiarire questo contratto implicito: sei un soldato e un cittadino a tutti gli effetti se sei un capitano ebreo? Questa era la questione sollevata dall’affare Dreyfus, che un tribunale militare si dimostrò incapace di risolvere e a cui la Corte di Cassazione diede infine una risposta affermativa, consolidando così la definizione della Repubblica (senza tuttavia immunizzarla dalla sua trasformazione in uno Stato genocida, avvenuta 35 anni dopo). Nel secondo caso, non si può affermare di essere vittima di una Convenzione a cui si è aderito sovranamente e con cognizione di causa.
Infine, le stesse argomentazioni possono essere usate contro l’argomento, non solo civile ma anche storico, secondo cui l’accusa di genocidio israeliano fa parte di una “doxa occidentale antisemita” che risale a diversi secoli fa, di cui la Shoah è stato il momento più estremo. Non è possibile firmare un testo che afferma chiaramente che gli Stati firmatari possono essere portati davanti a un tribunale internazionale se sono sospettati di genocidio ed esimersi a priori, per ragioni storiche, da qualsiasi sospetto o accusa. I firmatari hanno invece accettato che il tribunale giudicherà intenzioni e fatti legati tra loro in un unico evento, e non sarà il tribunale della storia.
È anche in questa fase che la definizione unilaterale di genocidio determinata dalla Convenzione assume tutto il suo valore. L’intenzione di commettere un genocidio è legata, inutilmente ma spesso, a una situazione in cui un gruppo sente che la sua identità o integrità è minacciata da un altro gruppo e lo sospetta di avere intenzioni genocide. Quest’ultimo può essere del tutto immaginario, può derivare da una precedente situazione di dominazione (quella dei Tutsi sugli Hutu prima e durante la colonizzazione belga, ad esempio, prima che la situazione politica si ribaltasse), oppure può essere reale e persino seguito da atti di genocidio – e i massacri del 7 ottobre possono essere descritti in questo modo.
Ma la Convenzione definisce il genocidio in termini di intenzione e di atti che lo realizzano; considera questa intenzione come un elemento del crimine, ed esclude quindi la sua giustificazione e il suo cambiamento di natura a seconda degli atti che lo precedono. Gli atti di Hamas sono quindi chiaramente oggetto di un altro processo, proprio come gli altri genocidi commessi contro gli ebrei della diaspora o contro Israele.
Genocidio o no: aprire il dibattito e la singolarità degli eventi
Si può anche obiettare che stiamo trascurando un processo storico che implica necessariamente la legge, e che la lotta di idee (in altre parole, il dibattito) sul fatto che sospettare Israele di genocidio sia una continuazione dell’antisemitismo, rimane del tutto aperta. Si può persino obiettare che la stessa astrazione non tiene conto degli effetti politici del processo: l’accusa, per non parlare della condanna di Israele, darà all’antisemitismo e all’antisionismo una spinta giuridica, tanto più che non possiamo aspettarci che un odio secolare faccia la sottile distinzione tra un tribunale che giudica un crimine e un tribunale storico che condanna l’esistenza stessa di un Paese.
Cominciamo col dire che vorremmo che questo dibattito rimanesse aperto. Perché non chiamiamo “dibattito” il confronto tra due tesi insostenibili e inconciliabili: una afferma che ogni operazione militare di Israele è per definizione genocida, l’altra che Israele è l’unico Stato che per definizione non può essere accusato di genocidio, se non dagli antisemiti.
Si noti che ci sarebbe poi una terza tesi, la peggiore: quella del “doppio genocidio”, secondo cui ebrei e arabi sarebbero destinati a uccidersi a vicenda; questa tesi non ha alcun riscontro storico, naturalizza il conflitto, non è altro che razzismo – è cercando di invertire il genocidio dei Tutsi da parte degli Hutu che si è dispiegata in tutta la sua assurdità. Una volta evitate queste tre clausole di chiusura, il dibattito diventa di nuovo possibile. In altre parole, ciò che lo apre è la costante considerazione di due rischi di genocidio: quello degli ebrei e quello dei palestinesi, senza che l’uno implichi mai l’altro.
Questo rischio non nasce dalla tendenza ad uccidersi reciprocamente, ma dalla nascita di una tendenza ad uccidere che può essere trasformata in un’intenzione e poi in un atto. Questa tendenza non è né naturale né antropologica, ma storica e politica. Tuttavia, non è una civiltà nel senso di Huntington,[5] il cui paradigma dello “scontro di civiltà” è così lontano dalla realtà che non riesce a identificare e studiare queste “civiltà” e distorce tutte le situazioni storiche. Secondo Huntington, il conflitto tra Israele e Palestina dura all’infinito perché coinvolge la linea di demarcazione tra la civiltà occidentale (giudaico-cristiana) e quella musulmana. Tale spiegazione, tuttavia, si basa sul totale occultamento dell’antisemitismo nella sua dimensione cristiana, nonché sui dubbi israeliani circa il sostegno delle potenze occidentali.
Fa anche di peggio: saldando blocchi di civiltà che per definizione riuniscono gli Stati, non tiene conto della complessità delle relazioni che individui e gruppi hanno tra loro, con gli Stati e con le religioni (compresa la “loro” religione); non offre sfumature né nel campo delle idee né in quello della storia e del dinamismo delle società civili. Lo “scontro di civiltà” va quindi visto più come la dimensione più semplificante e aggressiva dell’opinione locale o globale, e quindi anche come una carta che gruppi o Stati possono giocare politicamente, che come una teoria politica.
È quindi molto più probabile che una tendenza al genocidio emerga come contraccolpo della globalizzazione, esacerbando le rivendicazioni identitarie basate sulla stessa semplificazione aggressiva[6]. Per dare conto di questa tendenza, quindi, occorre navigare tra tutte le scale geografiche e temporali, collegando il locale e il globale, la storia recente e la storia di lungo periodo; occorre anche tenere conto del sostegno che essa suscita o non suscita nei vari gruppi della società civile; infine, il dibattito deve essere aperto non alla, ma alla singolarità degli eventi politici, che vanno sempre al di là delle loro cause immediate o lontane.
Il modo in cui sono stati affrontati i massacri del 7 ottobre è molto significativo a questo proposito. Non possono essere visti come parte della continuità degli atti di resistenza alla colonizzazione (ebraica o occidentale); ma non possono nemmeno essere visti come un nuovo “pogrom” e quindi parte dei crimini subiti dalla diaspora ebraica[7].
Il 7 ottobre è un evento singolare: Certamente coinvolge la storia dell’antisemitismo e del colonialismo così come si sono sviluppati in una lunga fase (non originaria) di confronto tra la popolazione ebraica locale e quella palestinese, così come la storia della forma Stato che è diventata centrale (come soluzione e come problema, entrambi inevitabili) in questo confronto; Ma da un lato, questo scontro non riassume la relazione tra queste due popolazioni, né esemplifica alcuna essenza dell’Islam, dell’ebraismo o del sionismo, di per sé irriducibili al colonialismo; dall’altro, è molto di più dell’effetto di questo scontro. Come evento, va al di là di qualsiasi spiegazione causale; in altre parole, la sua comprensione è ancora da venire e comporta un dibattito tra tutti coloro che iniziano riconoscendo la sua singolarità[8].
Quanto alle operazioni militari a Gaza, anch’esse devono rientrare in questo processo di comprensione, che include il passato delle relazioni locali, lo supera attraverso la singolarità dell’evento e lascia aperto il futuro – quello di questo stesso processo e quello delle relazioni tra israeliani e palestinesi. Questo significa anche che non possiamo considerare il 7 ottobre come la logica continuazione del blocco di Gaza, così come non possiamo considerare l’operazione di Tsahal come la logica continuazione del 7 ottobre: soprattutto, questo determinismo sfugge alla regressione infinita solo ipotizzando una decisione libera che dà inizio a una serie di effetti, ed è così che si arriva ad attribuire tutta la responsabilità del 7 ottobre a Israele o tutta la responsabilità del bombardamento di Gaza ad Hamas.
Ma la comunicazione tra eventi singolari non è semplicemente una serie causale; è anche e sempre dell’ordine della rottura, che ci impone di considerare ciò che sta accadendo come radicalmente nuovo. E questa differenza irriducibile che attraversa o lavora sugli eventi è anche la differenza che fa sì che non ci sia continuità tra il rischio di una tendenza al genocidio, la tendenza stessa, l’intenzione e l’atto. È per questo che l’atto è sempre compreso nel futuro, nonostante la sua tendenza a essere riprodotto e ripetuto in modo traumatico, per mantenere le sue vittime in un passato che non passa[9].
Il dibattito e la legge
Qual è dunque il rapporto tra il dibattito delle idee e il ricorso alla legge? Va notato che chiunque ha il diritto di segnalare pubblicamente un rischio di genocidio, il che presuppone che disponga di prove concrete (come attore agli ordini o come vittima sul campo, o come osservatore, la cui credibilità aumenta se è accreditato e indipendente, come gli esperti delle Nazioni Unite o i giornalisti), o che usi queste prove per sviluppare un’argomentazione. È in gioco la libertà di espressione e, se l’informatore si sbaglia, coloro che cercano di confutarlo troveranno qui un’opportunità per affinare le proprie argomentazioni.
Chiunque ha anche il diritto di chiedere pubblicamente se il 7 ottobre sia stato un atto di terrorismo o un genocidio, o se l’uccisione di civili palestinesi nelle operazioni a Gaza sia stato un danno collaterale inevitabile nella lotta contro Hamas, un crimine di guerra o un crimine genocida. Può prefiggersi il compito di combinare questi due eventi singolari, purché non li presenti sotto forma di una sequenza necessaria; e se parla di un evento più dell’altro, o ne parla solo di uno, è un processo alle intenzioni ritenere che stia mascherando l’uno sotto l’altro.
Inoltre, non ci facciamo illusioni sulla limitata capacità di queste posizioni, e quindi del dibattito delle idee, di contrastare le semplificazioni civili e il loro uso demagogico, o di combattere il potere degli Stati e delle reti politiche in conflitto di distorcere la verità.
Il pensiero (quello di chiunque, ricordiamolo) non solo è sempre contestabile, ma soprattutto fragile; ma, in quanto componente più debole dell’opinione, è anche una componente essenziale della politica, intesa ora come luogo di coesistenza di individui che pensano in modo diverso, e quindi come politica della (e nella) società civile; è anche, e per lo stesso motivo, una componente essenziale del diritto, poiché le idee e i concetti giuridici si sviluppano insieme con lo stesso obiettivo, appunto quello della coesistenza, e quindi anche quello della pace, o della giustizia.
La funzione del diritto, quindi, è quella di rendere questa giustizia il più efficace possibile. Non partecipa direttamente al dibattito delle idee; ma lo libera il più possibile da ogni appiglio di civiltà mettendo in relazione l’universalità formale di una norma e l’estrema singolarità di un evento, esaminato per se stesso; dando un contenuto procedurale alla differenza tra accusare e condannare, alla necessità di un’indagine, all’ascolto di punti di vista contraddittori, è il più capace di qualificare un crimine, e quindi l’unico realmente in grado di proibirlo e punirlo.
Certo, i dibattiti, i casi e i conflitti possono protrarsi oltre le decisioni giuridiche, rivelando “l’incapacità della giustizia di esaurire la giustizia e ripristinare la pace”[10]. Ma da un lato, anche se le sue decisioni rimangono discutibili, il diritto rimane ciò che guida le discussioni verso questa giustizia, e addirittura dà loro un contenuto cosmopolitico che è l’opposto della semplice accettazione del conflitto. Dall’altro lato, in quanto diritto locale basato sull’autorità e la forza delle istituzioni internazionali, può ristabilire l’esercizio della giustizia in aree di repressione e violenza (Gaza e Cisgiordania sono tra queste), e quindi anche la coesistenza tra le popolazioni.
Certo, siamo in un momento in cui il diritto internazionale fa molta fatica a farsi sentire, e potrebbe addirittura cedere il passo a quello che Michel Feher ha definito un “multilateralismo distopico”[11] basato su rapporti di forza e alleanze oggettive; certo, l’elezione di Trump a Presidente degli Stati Uniti accelererebbe l’avvento di questa distopia, e continuerebbe localmente il lavoro iniziato durante il suo primo mandato: il rafforzamento dello Stato di Israele, concepito come uno dei fulcri degli interessi americani in Oriente, e l’abbandono di ogni sostegno americano ai palestinesi. Ma è ancora più importante che la via del diritto trovi urgentemente un reale sostegno nell’opinione pubblica.
Siamo ovviamente molto lontani da una situazione in cui il diritto locale sarebbe o diventerebbe l’espressione di una società civile israelo-palestinese (in uno Stato, o in due Stati, la cui popolazione o le cui popolazioni sarebbero inevitabilmente plurali); ma siamo in un momento in cui il diritto internazionale può ancora essere l’orizzonte di un pensiero cosmopolitico e il quadro di un’azione multilaterale per rafforzare la pace, il che darebbe un futuro a questa società e a questo diritto locale. Mentre terminiamo questo testo, viene pubblicata la traduzione di un articolo di Omer Bartov a sostegno di un progetto di pace, Una terra per tutti. Esso conferma che, più che ribaltare l’accusa di genocidio, l’urgenza è quella di “ribaltare la situazione”[12].
Note
[1] Courrier international (d’après La Repubblica), « “Génocide”. Devant la Cour internationale de justice, l’Afrique du Sud sonne la charge contre Israël », 11 janvier 2024.
[2] Cf. Luc Boltanski et Elisabeth Claverie, « Du monde social en tant que scène d’un procès », Affaires, scandales et grandes causes ; de Socrate à Pinochet, Stock, 2007, p. 396-452.
[3] Cf. Courrier international, article cité.
[4] Simon Sebag Montefiore, « The Decolonization Narrative Is Dangerous and False », The Atlantic, 27 octobre 2023.
[5] Samuel Huntington, Le Choc des civilisations [The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order], Odile Jacob, 1997.
[6] Cf. Mary Kaldor, New and Old Wars : Organised Violence in a Global Era, Polity Press, 2006.
[7] Cf. Omer Bartov écartant cette référence au pogrom dans ses « Notes sur l’attaque du Hamas et la guerre israélienne à Gaza », traduction française, revue Conditions.
[8] Réaffirmer la singularité du 7 octobre est la solide ligne éditoriale de la revue K. Les Juifs, l’Europe, le XXIe siècle. en ce début d’année – ce qui ne signifie pas que ses intervenants seraient d’accord avec nous sur tous les autres points.
[9] Cf. Jacques Derrida et Jürgen Habermas, Le Concept du 11 septembre, Galilée, 2004.
[10] Luc Boltanski, L’Amour et la justice comme compétences, Gallimard Folio, 2011, p. 167.
[11] Michel Feher, « Multilatéralité dystopique : portrait d’un monde qui vient », AOC, 22 décembre 2023.
[12] Omer Bartov, « La guerre à Gaza, inverser la situation et en sortir », AOC, 17 janvier 2024.
Autore
Jérôme Lèbre è un filosofo, direttore dei programmi del Collège International de Philosophie, il suo lavoro si concentra principalmente sulla giustizia e sulla mobilità. Nel 2018 ha pubblicato Éloge de l’immobilité con Éditions Desclée de Brouwer e nel 2019, con lo stesso editore, Scandals et Démocratie.