Autori: Ben Gidley, Daniel Mang, Daniel Randall
Daniel Randall è un ferroviere con sede a Londra, Daniel Mang è un operatore sanitario che lavora in Svezia e Ben Gidley è un sociologo del Birkbeck College (Università di Londra).
Stiamo osservando il numero delle vittime civili a Gaza aumentare, con orrore, giorno dopo giorno, ormai da settimane. Siamo sconvolti e indignati per la punizione collettiva inflitta agli abitanti di Gaza dall’IDF, per la crescente violenza dei coloni in Cisgiordania e per la repressione da parte dello Stato e delle forze di destra contro i cittadini palestinesi di Israele. Negli Stati Uniti, in Europa, in India e altrove, l’attivismo palestinese nel suo complesso è demonizzato da molti politici tradizionali e da gran parte dei media, e in alcuni casi criminalizzato dallo Stato. Gran parte dei resoconti occidentali su Israele/Palestina sono intrisi di razzismo civilizzatore, spesso inquadrando gli israeliani come un popolo moderno, occidentale e civilizzato, la cui sofferenza è in qualche modo più reale e importante di quella dei palestinesi. La disumanizzazione razzista dei musulmani e degli arabi contribuisce alla sofferenza dei palestinesi.
In questo contesto c’è un comprensibile impulso a concentrarsi solo sull’immediato. Può sembrare che questo non sia il momento giusto per parlare di ciò che non va nell’attivismo di sinistra per Israele/Palestina e nella sinistra più in generale.
Ma crediamo che, di fronte alla crisi, l’autoriflessione sia più – non meno – importante. È ora, non più tardi, che dobbiamo riflettere criticamente se le prospettive dominanti nei nostri movimenti, in senso ampio, siano quelle giuste per ottenere effettivamente un cambiamento.
Molto di ciò che si dice e si crede a sinistra riguardo all’imperialismo, al nazionalismo e all’internazionalismo, al razzismo, all’islamismo e a molti altri argomenti, è, ai nostri occhi, profondamente sbagliato e talvolta reazionario.
Troppi esponenti di sinistra hanno difeso o addirittura celebrato il massacro del 7 ottobre da parte di Hamas e della Jihad islamica nel sud di Israele. Secondo noi tutto questo è espressione di analisi errate e tendenze reazionarie.
Siamo attivisti e organizzatori di sinistra da molto tempo. In questo testo vogliamo confrontarci con gli umori prevalenti nella sinistra e, attraverso di esso, far sapere agli altri che si sentono come noi che non sono soli. È anche un invito ad altre persone di sinistra a unirsi a noi nel prendere posizione contro l’antisemitismo, l’antirazzismo parziale, il campismo, il nazionalismo, l’accordo con l’islamismo e altre alleanze sinistra-destra. Scriviamo nella speranza che una sinistra internazionalista migliore sia possibile.
Lo scopo della nostra critica non è quello di attenuare il sostegno della sinistra ai diritti e alla libertà dei palestinesi, ma di riannodare tale sostegno in un progetto coerentemente democratico, internazionalista dal basso e quindi veramente universalista. Vogliamo una sinistra che lotti in modo più efficace non solo per i diritti dei palestinesi, ma per la democrazia, l’uguaglianza e la libertà per tutti.
Mentre molte delle immagini emerse inizialmente dai confini di Gaza il 7 ottobre riguardavano civili che sfondavano le recinzioni, a metà mattinata era chiaro che Hamas e i suoi alleati avevano brutalmente assassinato un gran numero di civili disarmati, rapendone altri. Le vittime erano vecchie e giovani e includevano sopravvissuti all’Olocausto, braccianti agricoli migranti e arabi beduini. Esistono chiare prove di tortura e violenza sessuale estrema. La portata e la brutalità degli attacchi hanno provocato ondate di paura e trauma non solo nella società israeliana ma in tutta la diaspora ebraica globale, in un’epoca in cui la maggior parte degli ebrei – sionisti e non sionisti – ha molteplici legami con Israele. Il massacro del 7 ottobre e gli attacchi missilistici contro i civili israeliani sono atti di insensibile crudeltà che causano profondo dolore agli ebrei in Israele e nella diaspora.
Ma le scuse di gran parte dell’estrema sinistra per la violenza di Hamas contro i civili rivelano non solo una mancanza di compassione umana di base, ma anche un’errata valutazione di Hamas come forza politica. Hamas non è semplicemente un’espressione astratta di “resistenza” a Israele. Compie le sue azioni per perseguire i propri obiettivi politici che sono fondamentalmente reazionari. Eludere questi obiettivi sulla base di un sostegno incondizionato a (qualsiasi) “resistenza” significa negare l’agency palestinese, ridurre i palestinesi a una forza meramente reattiva, incapace di fare scelte politiche. Opporsi ad Hamas non significa “dire ai palestinesi come resistere”, ma schierarsi con quei palestinesi che anch’essi si oppongono ad Hamas e sostengono una resistenza effettiva, su una base politica diversa.
Le azioni di Hamas sono state seguite da una massiccia risposta da parte dello Stato israeliano – come Hamas sapeva che sarebbe accaduto, e in effetti ci contava. Vogliamo ribadire: siamo sconvolti e ci opponiamo agli attacchi dello Stato israeliano alla vita civile e alle infrastrutture di Gaza, allo sfollamento delle popolazioni palestinesi, al linguaggio disumanizzante e alle proposte di pulizia etnica da parte dei politici israeliani, ai piani dei coloni per la colonizzazione di Gaza e alla violenza dei coloni e delle forze di sicurezza israeliane contro i palestinesi in Cisgiordania. Sosteniamo la lotta per i diritti dei palestinesi e ci opponiamo alla violenza e all’occupazione dello Stato israeliano.
Ma se vogliamo che i nostri movimenti siano efficaci nel perseguire gli obiettivi emancipatori e democratici, deve esserci spazio per la riflessione e la critica degli impulsi all’interno della politica di sinistra che sono contrari a tali obiettivi.
Riconoscere e mettere al centro la sofferenza palestinese in corso non significa che non si possa anche pensare seriamente a cosa potrebbe esserci di sbagliato in molte reazioni della sinistra al 7 ottobre, e in gran parte delle prospettive della sinistra più in generale.
In seguito agli attacchi, gli episodi di antisemitismo – compresi attacchi violenti e episodi di molestie online e di persona – si sono moltiplicati a livello globale. Il discorso antisemita si è diffuso in modo virale sui social media e nelle strade. Anche il razzismo anti-musulmano è aumentato drammaticamente. L’estrema destra ha utilizzato il conflitto come un’opportunità per raggiungere un nuovo pubblico, sia tra i sostenitori che tra gli oppositori di Israele. La crescente polarizzazione e divisione ha contribuito alla disumanizzazione non solo di israeliani e palestinesi, ma anche di ebrei, musulmani e arabi ovunque, e all’approfondimento di una cultura del vittimismo competitivo a somma zero invece che di solidarietà.
Ci opponiamo ai tentativi di respingere, demonizzare o addirittura criminalizzare tutto l’attivismo solidale con la Palestina a causa della presenza di antisemitismo all’interno del movimento e della sinistra in generale – tuttavia, il confronto con l’antisemitismo resta necessario.
Non è una questione di pubbliche relazioni o di “ottica”. La ragione per affrontare l’antisemitismo quando appare a sinistra non è che faccia “sembrare cattiva” la causa della solidarietà con la Palestina. Il fatto è che la presenza di prospettive reazionarie e complottiste nei nostri movimenti, anche in forme codificate o in modo marginale, rischia di intossicare la nostra politica.
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Perché è così difficile per gran parte della sinistra assumere l’umanità di base e la sofferenza traumatica dei civili – compresi i cittadini israeliani – come punto di partenza coerente? Perché alcuni sono incapaci di condannare un massacro senza relativizzarlo fino a renderlo privo di significato o contestualizzandolo fino a renderlo insignificante? Perché la solidarietà della sinistra con le vittime dell’oppressione talvolta sembra condizionata dall’allineamento geopolitico dello Stato che le opprime? Perché gran parte della sinistra fatica ad identificare e resistere all’antisemitismo tra le sue fila?
Non esiste una risposta unica e semplice a queste domande, ma crediamo che iniziare a rispondere sia un passo essenziale nel rinnovamento della sinistra. Offriamo qui la nostra analisi di quelli che consideriamo alcuni dei problemi più importanti.
Feticizzazione di Israele/Palestina
Israele/Palestina è diventato il dramma morale centrale per gran parte della sinistra contemporanea, così come lo fu il Sudafrica per molti della generazione precedente.
Alcuni reportage e commenti mainstream utilizzano una cornice orientalista per narrare l’intera regione, ritraendo gli arabi come barbari e premoderni, in contrasto con Israele, che di solito viene descritto come una moderna democrazia liberale.
Allo stesso tempo, sia i media mainstream che quelli di sinistra prestano molta più attenzione alla Palestina/Israele che alla Siria, al Kurdistan, al Sudan, all’Etiopia, alla Repubblica Democratica del Congo, allo Sri Lanka, a Myanmar o a qualsiasi altro punto critico globale in cui gli Stati militaristi (o attori non statali) opprimono le minoranze nazionali ed etniche o compiono massacri.
Il punto non è stabilire una gerarchia politica o morale delle oppressioni globali, né dividere l’attenzione e le attività sulla base di quelle che comportano la maggiore sofferenza. Piuttosto, la solidarietà con i palestinesi dovrebbe scaturire da un impegno a favore dei diritti universali, che dovrebbe anche spingere la solidarietà verso tutte le altre lotte contro l’oppressione.
Feticizzando Israele/Palestina, romanticizzando e idealizzando la lotta palestinese, la sinistra rispecchia la disumanizzazione dei palestinesi da parte del mainstream. L’effetto di questa feticizzazione di Israele/Palestina da parte della sinistra è quello di rendere sia i palestinesi che gli ebrei israeliani degli avatar trascendenti per narrazioni politiche, piuttosto che esseri umani in carne e ossa, capaci di una gamma di risposte alle loro condizioni ed esperienze.
Analfabetismo storico
Nonostante la centralità della causa palestinese per la sinistra contemporanea, spesso c’è uno scarso livello di comprensione della storia della Regione e del conflitto.
Gran parte della sinistra ha trasformato concetti potenzialmente utili come il “colonialismo di insediamento” da strumenti di analisi a sostituti dell’analisi. Applicare queste etichette in modo semplicistico consente agli attivisti di evitare il confronto con la complessità. La diversità storica interna interna del sionismo, il suo rapporto ambivalente con i vari imperialismi e le diverse storie di sfollamento che hanno portato alla migrazione ebraica in Israele da vari Paesi sono spesso poco comprese.
Il processo di formazione nazionale ebraica israeliana ha incluso il colonialismo di insediamento e ha visto lo sfollamento di un gran numero di abitanti anche attraverso crimini di guerra ed espulsioni. È stato anche un processo di fuga disperata di persone che erano state vittime di violenza razzista e di tentativi di sterminio. I palestinesi sono, secondo le parole di Edward Said, “le vittime delle vittime e i rifugiati dei rifugiati”. Gli ebrei israeliani sono stati tutt’altro che gli unici ad essersi consolidati come nazione e a fondare uno Stato su basi che includevano l’espropriazione violenta degli abitanti di un territorio.
Affrontare questa storia in toto, con tutta la sua complessità e tensione, non significa minimizzare le ingiustizie subite dai palestinesi nel processo di fondazione di Israele, o successivamente. Ma non riuscire ad affrontare la storia nella sua interezza non serve né alla comprensione né agli sforzi per sviluppare e sostenere le lotte per l’uguaglianza.
Una maggiore alfabetizzazione storica, nonché una presa di coscienza più precisa degli aspetti pratici di uno Stato, due Stati e di altre possibili “soluzioni” al conflitto, consentirebbero un rinnovato movimento di solidarietà.
Politica sincretica
Una delle tendenze chiave nella politica contemporanea, sulla scia del crollo dei movimenti operai di massa, è l’ascesa di forme politiche sincretiche, che attingono a tradizioni politiche disparate: quella che a volte viene chiamata politica rosso/bruna, diagonalismo o confusionismo. Parti della sinistra hanno stretto alleanze pericolose con forze dell’estrema destra. Da oratori di estrema destra alle manifestazioni contro la guerra a ex esponenti di sinistra che si uniscono alle proteste contro il blocco del Covid, da vlogger antimperialisti che accolgono ospiti paleoconservatori a cantanti folk anarchici che promuovono il negazionismo dell’Olocausto, l’ultimo periodo ha visto alcune allarmanti collaborazioni politiche. Questi movimenti a volte nascono o crescono dal tentativo dell’estrema destra di legittimarsi a sinistra. Poiché l’antisemitismo spesso lega elementi disparati all’interno di formazioni sincretiche, queste tendenze possono essere politicamente tossiche quando si manifestano nell’attivismo solidale con la Palestina.
Campismo
In tutto il mondo assistiamo a lotte per il cambiamento democratico e per ottenere maggiori diritti e uguaglianza. Ma a queste lotte si risponde sempre più spesso con affermazioni secondo cui tali principi rappresentano l’egemonia di una “élite liberale occidentale” e del suo “ordine mondiale unipolare”, piuttosto che aspirazioni e diritti umani universali.
I regimi autoritari e oppressivi sostengono che gli sforzi per vincolarli a questi principi sono solo tentativi di proteggere l’egemonia unipolare dell’Occidente. Questi regimi si presentano come leader di un mondo “multipolare” emergente in cui i diversi regimi autoritari saranno liberi di definire la propria “democrazia” a loro immagine e somiglianza.
Allo stesso modo, come i movimenti razzisti, patriarcali e autoritari in Occidente si presentano come voci autentiche e radicate del popolo contro le élite “globaliste”, nelle ex colonie occidentali si presentano come la maggioranza “decoloniale” contro l’egemonia delle “élite occidentalizzate”.
La sinistra spesso non riesce nemmeno a riconoscere questa dinamica. Quel che è peggio, alcune parti di essa amplificano la sua (falsa) premessa: che le forze e i regimi tirannici, autoritari e reazionari rappresentino una resistenza progressista all’”imperialismo occidentale”. La loro preoccupazione per la sopravvivenza e la forza di questi regimi “multipolari” va a scapito di una solidarietà autentica, significativa e coerente con la resistenza a questi regimi.
L’imperialismo occidentale deve affrontare sfide provenienti da alternative reazionarie: l’imperialismo russo, l’imperialismo cinese e l’imperialismo regionale iraniano, che spesso dispiega forze paramilitari per procura come Hezbollah e, in una certa misura, Hamas, giocando un ruolo controrivoluzionario nel contesto dell’ondata di lotte di liberazione scoppiata nel 2011. Le petro-monarchie della penisola arabica sono sempre più potenze globali; anche altre potenze regionali imperiali o sub-imperiali, come la Turchia espansionista e interventista, sono sempre più forti, e certamente non sono semplici stati clienti degli Stati Uniti.
Di fronte a questo stato di cose, una sinistra radicale che da anni predica l’idea che tutto ciò che danneggia l’imperialismo egemonico (quello degli Stati Uniti) e i suoi alleati deve necessariamente essere progressista (una prospettiva nota come “campismo” – schierarsi con un “campo” geopolitico piuttosto che perseguire un progetto genuinamente internazionalista) è molto probabile che crolli nell’apologia di queste alternative reazionarie. Questo “antimperialismo” campista è cieco di fronte al fatto che sostenendo l’”asse della resistenza” non si oppone all’imperialismo ma si schiera con un polo imperialista rivale in un mondo “multipolare”.
In un periodo storico precedente (che raggiunse il suo apice nella Guerra Fredda), il polo di opposizione agli Stati Uniti nell’immaginario della sinistra campista era l’URSS (che spesso non fungeva da faro guida, ma semplicemente da segnaposto per la possibilità di qualsiasi tipo di alternativa). Ma dopo l’embargo petrolifero dell’OPEC del 1973 e la rivoluzione iraniana del 1979, e soprattutto dopo la caduta del blocco sovietico, questo ruolo è stato assunto sempre più da varie configurazioni dell’”asse della resistenza”, tra cui la Repubblica islamica dell’Iran e, in breve tempo, Hamas.
Teoria del complotto
Il nostro mondo complesso e “multipolare”, la natura apparentemente opaca dei meccanismi di potere e di oppressione, nonché i processi di frammentazione sociale, inducono le persone a cercare risposte e spiegazioni al di fuori del “mainstream”. Le economie delle piattaforme che monetizzano sulla disinformazione la cattiva informazione e facilitano la condivisione di miti e bugie, forniscono un facile accesso alle teorie cospirative che sembrano offrire risposte e spiegazioni.
Le odierne forme di condivisione e acquisizione della conoscenza, frammentate, rapide e digitali, incoraggiano contemporaneamente il cinismo di fronte alle autorità “mainstream” e la credulità nei confronti delle fonti “alternative”, la gioia per lo “smascheramento” delle verità nascoste e la disperazione per la portata onnipotente dell’egemone, la ricerca di connessioni tra fenomeni disparati che manca degli strumenti analitici per comprenderne il significato. E le teorie del complotto portano quasi sempre all’antisemitismo, che di solito funziona come una sorta di meta-teoria del complotto.
Nell’immaginario cospirazionista contemporaneo di estrema destra l’antisemitismo è spesso fuso con l’odio anti-islamico , attraverso le teorie della “Grande Sostituzione” che sostengono un complotto architettato da “finanzieri globalisti”, in particolare George Soros, per sponsorizzare l’immigrazione prevalentemente musulmana verso i paesi a maggioranza “bianca”, al fine di “sostituire” le popolazioni “bianche”.
L’Antisemitismo come pseudo-emancipazione
Come altre teorie del complotto, l’antisemitismo offre risposte e spiegazioni false e facili in un mondo confuso. A differenza di molti altri razzismi, l’antisemitismo è spesso apparso “un pugno di ferro”: puoi attribuire al suo oggetto un potere, una ricchezza e un’astuzia quasi infiniti. Per il suo carattere pseudo-emancipativo, l’antisemitismo è spesso apparso radicale. Ma si tratta di uno pseudo-radicalismo: identificando gli ebrei come l’élite nascosta che controlla le nostre società, serve a rendere invisibili le vere classi dominanti, proteggendo strutture di potere di classe, deviando invece la rabbia per l’ingiustizia nei confronti degli ebrei in quanto tali.
Come ha sostenuto Moishe Postone, spesso agisce come una “forma feticizzata di anticapitalismo”: “Il misterioso potere del capitale, che è intangibile, globale e che sconvolge le nazioni, i territori e la vita delle persone, viene attribuito agli ebrei. Il dominio astratto del capitalismo è personificato negli ebrei”. Questo antisemitismo pseudo-emancipativo ha una lunga storia, da alcuni dei testi fondanti delle principali correnti del socialismo moderno, ai congressi della Seconda Internazionale, ai sindacati e partiti operai al tempo della migrazione di massa dall’Europa dell’Est, alle forme di fascismo New Age nel movimento verde. Era presente e contestato all’interno dei partiti della Rivoluzione Russa, e si esprimeva nell’ideologia nazista, e stalinista del dopoguerra, e dai loro eredi di oggi, con i finanzieri “cosmopoliti” e “globalisti” visti come calamari vampiri che sfruttano i lavoratori nativi, produttivi e radicati. Ma è anche sempre più spesso legato a una visione “antimperialista”, in cui vengono visti come succhiatori di linfa vitale dai dannati della terra nel Sud del mondo.
Accordarsi con l’Islamismo
Mentre alcune parti della sinistra (soprattutto in Europa e nelle Americhe, ma anche in altre regioni del mondo) hanno una lunga storia di razzismo anti-musulmano (tornato alla ribalta durante la guerra in Siria, quando settori della sinistra usavano il linguaggio della guerra al terrore per demonizzare le rivoluzioni), nel periodo successivo alla Seconda Intifada e all’11 settembre, la visione campista del mondo sopra descritta ha portato molti a sinistra a vedere l’islamismo come una forza progressista, persino rivoluzionaria, rispetto all’imperialismo occidentale egemone.
Questo è, purtroppo, un fenomeno globale. Tuttavia, la maggior parte delle sinistre dell’Asia sud-occidentale e del Nord Africa (SWANA) [SWANA sta per Sud-Ovest Asiatico e Nord Africano. Questo termine è usato per descrivere la regione comunemente chiamata Medio Oriente. SWANA è un “modo per distinguere la regione in termini geografici, piuttosto che in “termini politici” come definiti dal mondo occidentale” (SWANA-LA) ndr.] che si sono confrontate più direttamente con la politica reazionaria dell’islamismo, a differenza della sinistra di altre parti del mondo, non hanno simili illusioni: al contrario. La sinistra esterna a SWANA dovrebbe ascoltarli.
L’islamismo comprende una serie di filoni diversi. Hamas non è l’Isis, l’Isis non sono i talebani, i talebani non sono il regime di Erdoğan in Turchia. Anche Hamas stesso contiene correnti diverse. Comprendere queste distinzioni è importante. Ma ciò non dovrebbe rendere cieca la sinistra di fronte alla realtà materiale, vale a dire che, a livello di potere sociale, i movimenti e i regimi islamisti hanno – in comune con altre forme di religione fondamentalista politicizzata – brutalizzato le minoranze religiose, etniche e sessuali, le donne, i dissidenti politici e i movimenti progressisti.
Il razzismo antiebraico è un elemento persistente dell’ideologia islamista, chiaramente evidente nell’opera fondamentale di Sayyid Qutb “La nostra lotta contro gli ebrei” (1950), e nel Patto di Hamas del 1988 (che cita i “Protocolli dei savi di Sion”, famigerato falso antiebraico). Le posizioni dell’islamismo su Israele, sul sionismo e sugli ebrei non sono puramente “politiche”, spiegabili esclusivamente in termini di confronto tra palestinesi e sionismo/Israele, ma fanno parte di una più ampia visione del mondo antisemita.
Pur avendo prospettive e programmi propri, i movimenti islamisti dovrebbero essere compresi nel contesto della competizione tra potenze regionali in un mondo di imperialismi concorrenti: gli islamisti spesso resistono all’imperialismo egemonico in nome o in alleanza con imperialismi regionali rivali – come ad esempio quello dell’Iran. Allo stesso tempo, anche l’imperialismo statunitense e le potenze regionali ad esso alleate, come Israele, hanno talvolta tollerato o incoraggiato i movimenti islamisti come un modo per indebolire altre forze.
Una visione delle lotte di liberazione che considera il genere e la sessualità come di secondaria importanza politica rispetto ad altre questioni, ad esempio la lotta contro “il nemico principale” dell’”imperialismo statunitense”, spiega in qualche modo la volontà di molti esponenti della sinistra di silenziare e mettere a tacere le critiche o addirittura proporre alleanze con movimenti che, come tutti i movimenti religiosi fondamentalisti, sono ossessionati da una visione patriarcale omofobica e transfobica del genere e della sessualità.
L’abbandono dell’analisi di classe
L’unico strumento possibile per una politica autenticamente democratica e anticapitalista è la lotta consapevole degli sfruttati e degli oppressi per l’auto-emancipazione. La politica di classe è stata ostacolata da decenni di vittorie neoliberiste e di sconfitte del movimento operaio. Ma l’abbandono dell’attenzione all’agency della classe operaia e delle altre lotte democratiche dal basso ha una storia più lunga. L’ultimo secolo è tragicamente pieno di casi in cui la sinistra ha sostituito l’azione degli sfruttati e degli oppressi con quella degli Stati stalinisti e di varie altre forze autoritarie.
Molti sedicenti esponenti della sinistra sono arrivati al punto di sostenere, a volte in modo più “critico”, a volte meno, forze statali e non statali che nemmeno fanno propria la retorica e la simbologia socialista: la Russia di Putin, la Siria di Assad, la Repubblica islamica iraniana e forze paramilitari islamiche come Hamas e Hezbollah.
Riteniamo che l’ascesa della politica sincretica, del campismo e della teoria del complotto, così come l’approfondimento dell’antisemitismo pseudo-emancipatorio, possano in parte essere spiegati come sintomi di questo abbandono della classe da parte della sinistra e di un’analisi delle dinamiche del capitalismo globale.
Gran parte della politica di sinistra degli ultimi decenni si è basata non tanto su una lotta contro il capitalismo come relazione sociale, quanto sul rifiuto dell’”egemonia americana”, della “globalizzazione”, della “finanza” – o, talvolta, del “sionismo”, visto come avanguardia di tutte queste forze. Ciò ha portato molte persone che si considerano di sinistra a simpatizzare con alternative reazionarie agli attuali assetti politici ed economici.
Allo stesso tempo, forme tronche di anticapitalismo, che si concentrano sui presunti mali morali del capitale “finanziario” o “improduttivo” – piuttosto che sull’antagonismo oggettivo tra capitale e lavoro – incoraggiano critiche personalizzate alle “élite globaliste” e ai “Banchieri Rothschild”, piuttosto che un movimento verso l’abolizione del capitalismo stesso, attraverso l’organizzazione collettiva e la lotta dal basso.
Antirazzismo monco
L’antirazzismo globale contemporaneo è stato plasmato in un contesto del XX secolo dominato dalle lotte contro il razzismo anti-nero, negli Stati Uniti e altrove, e contro l’imperialismo e il colonialismo occidentali. La sua comprensione della razza è spesso semplicistica e binaria, inadatta a comprendere le complesse linee intersezionali della razzializzazione del XXI secolo.
Le prospettive dominanti di gran parte del pensiero “decoloniale” offrono una visione manichea che divide il mondo in categorie di “oppressori” e “oppressi”, nelle quali vengono inserite intere nazioni ed etnie.
Questa visione lascia la sinistra impreparata a comprendere come i diversi razzismi si collegano tra loro e sovrappongono l’uno all’altro: perché i suprematisti indù in India sostengano con entusiasmo il nazionalismo israeliano, ad esempio, o perché lo stato cinese suprematista degli Han si presenta come difensore dei diritti dei palestinesi mentre perpetra un’occupazione coloniale e una repressione di massa in nome di una “guerra del popolo al terrorismo” contro i musulmani nello Xinjiang/Turkestan orientale.
E lascia la sinistra mal equipaggiata a comprendere il razzismo quando non viene codificato a colori, come nel caso del razzismo degli europei occidentali contro gli europei dell’Est “bianchi ma non del tutto”, o il razzismo russo contro gli ucraini, o il razzismo anti-armeno.
L’antisemitismo in particolare si inserisce perfettamente nella visione del mondo di questo antirazzismo monco, che vede gli ebrei come “bianchi” e quindi non riesce a comprenderli come bersagli del razzismo. Questa prospettiva cancella gli ebrei che si presentano come “bianchi” e non coglie la contingenza e la costruzione sociale della bianchezza stessa. L’integrazione di alcuni ebrei nella razza bianca è reale, ma è anche disomogenea e in molti casi piuttosto recente.
Questo antirazzismo monco rispecchia l’anticapitalismo monco che ha segnato la sinistra.
In breve, il rinnovamento della sinistra come movimento di solidarietà internazionale richiede un antirazzismo coerente, un femminismo coerente, un rinnovamento della politica di classe, un rinnovamento dell’analisi del capitalismo globale e il rifiuto della visione campista che divide il mondo in binari netti di bene e male.
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Offriamo questa analisi come un passo verso il rinnovamento della sinistra sulla base di una politica genuinamente internazionalista e coerentemente democratica. Non è sempre facile affrontare le idee reazionarie all’interno delle nostre fila. Ma quando lo facciamo, i nostri movimenti traggono, ogni volta, vantaggio dalle comprensioni più profonde che emergono. Come potrebbe essere per la sinistra iniziare a farlo?
Solidarietà coerente
Il nostro punto di partenza come internazionalisti dovrebbe essere la difesa del diritto universale ai diritti democratici. Insistere sulla solidarietà con i civili sotto attacco da entrambe le parti non è una forma superficiale di equivalenza morale o quant’altro, ma un primo principio etico. Una vera solidarietà coerente non significa vedere tutti uguali e ignorare le differenze strutturali tra le vittime, ma riconoscere e rispettare le differenze.
La sinistra dovrebbe preoccuparsi di tutte le morti civili, siano esse causate dallo Stato ebraico o dagli Stati arabi, dagli Stati del campo occidentale o da Stati che si oppongono a tale campo, o da attori non statali.
I fini sono sostanzialmente condizionati e prefigurati dai mezzi; una politica perseguita attraverso il massacro indiscriminato di civili non può servire a fini di emancipazione.
Particolarmente problematiche sono le correnti politiche che si concentrano sulla sofferenza palestinese a Gaza, ma che sono rimaste in silenzio – o addirittura entusiaste – mentre i siriani (compresi i palestinesi siriani) sono stati massacrati dal governo di Assad e dai suoi alleati (spesso giustificati esattamente dalla stessa retorica di guerra al terrorismo che Israele a volte usa per giustificare gli attacchi contro i civili) o mentre gli uiguri e altre minoranze etniche prevalentemente musulmane si trovano ad affrontare l’incarcerazione di massa, la sorveglianza totale e la cancellazione culturale in Cina.
Mettere al centro le voci e le esperienze delle forze della classe operaia, progressiste e costruttrici di pace di entrambe le parti.
Un cambiamento democratico radicale è impossibile senza un’agenzia che lotti consapevolmente e attivamente per questo. Una sinistra internazionale che concentra le proprie energie nel fare il tifo per le forze reazionarie non aiuta in alcun modo lo sviluppo di tale compito, anzi, lo inibisce.
In Israele/Palestina, come in ogni lotta internazionale, una sinistra genuinamente internazionalista e coerentemente democratica dovrebbe concentrare la propria attività sull’ascolto, il coinvolgimento e la costruzione di un sostegno pratico per le forze che si organizzano sul campo per far avanzare la politica democratica. Ciò significa amplificare le voci degli attori di base – femministe, attivisti queer, sindacalisti, attivisti ambientali – sia nella società israeliana che in quella palestinese che si oppongono alla violenza perpetuata dallo Stato e alla divisione razzista.
Criticare gli Stati non significa opporsi ai diritti fondamentali dei loro cittadini
I gruppi nazionali nel loro insieme spesso traggono vantaggio dalle politiche di colonialismo e di oppressione di altri popoli attuate dai loro Stati. Ma questi benefici non sono uniformi, né significano che tutti i membri di un dato popolo siano ugualmente complici o abbiano lo stesso potere sulle politiche del loro Stato.
La solidarietà con i palestinesi non dovrebbe significare un’ostilità di fondo nei confronti degli ebrei israeliani come popolo, né opporsi al loro diritto ai diritti. La politica di sinistra dovrebbe mirare ad eguagliare ed equiparare i diritti democratici, non a toglierli ad alcuni per “ridistribuirli” ad altri.
Gli ebrei di tutto il mondo – che sono spesso legati in molteplici modi alle persone e ai luoghi di Israele – si sentono sotto attacco quando gli israeliani in generale vengono presi di mira. Sostenere i diritti dei palestinesi richiede un’attenta identificazione dello Stato israeliano – e dei suoi apparati ideologici – come autori dell’ingiustizia, e non del popolo israeliano nel suo insieme, visto come un blocco omogeneo e politicamente indifferenziato.
Comprendere Israele nel mondo
L’antisemitismo attribuisce tradizionalmente agli ebrei un potere assoluto. Quando questa attribuzione viene applicata a Israele, rimane antisemita. Israele esiste in un mondo complesso, liquido, “multipolare”; è uno Stato potente, ma il suo potere è limitato all’interno del sistema globale. Certamente non è il motore dell’imperialismo mondiale, come talvolta viene descritto nelle narrazioni di sinistra.
Molte delle cose per le quali è giusto e necessario criticare Israele sono cose che esso ha in comune con molti altri Stati nel mondo, compresi alcuni dei Paesi in cui noi stessi viviamo. Rifiutare di demonizzare Israele o di considerarlo del tutto eccezionale non significa riconciliarsi con le sue politiche, ma piuttosto situare quelle politiche all’interno di tendenze di cui sono un’espressione, piuttosto che la quintessenza. Anche la brutalità della portata che Israele sta ora infliggendo al popolo di Gaza ha un recente precedente diretto, nella guerra del regime di Assad contro il popolo siriano.
Le correnti di sinistra che criticano il colonialismo di insediamento israeliano mentre si comportano come apologeti del colonialismo russo in Ucraina stanno applicando doppi standard. Invitiamo inoltre i compagni a riflettere se loro e le loro organizzazioni utilizzano gli stessi tipi di linguaggio e registri emotivi riguardo, ad esempio, all’oppressione dei curdi da parte della Turchia, o all’oppressione dei Tamil da parte dello Sri Lanka, come fanno riguardo all’oppressione dei palestinesi da parte di Israele. Se la risposta è no, considerate l’impatto politico e le implicazioni di questa eccezionalizzazione.
Un approccio critico al nazionalismo
Le nazioni sono costrutti sociali, che funzionano in parte per mascherare sfruttamenti e oppressioni all’interno della nazione, come classe, genere, razza e altri, in nome di un “interesse nazionale” unitario. Il nostro obiettivo a lungo termine è la libera associazione di tutti gli esseri umani, cioè un mondo senza nazioni, in cui le identificazioni etniche siano diventate secondarie. Tuttavia, è difficile concepire il superamento della nazione in un mondo in cui le persone sono oppresse, occupate e talvolta massacrate sulla base del loro background nazionale.
La sinistra dovrebbe prendere posizione contro l’oppressione delle persone a causa della loro nazionalità. Ma dobbiamo anche riconoscere che tutti i nazionalismi – compresi quelli dei gruppi attualmente oppressi – sono almeno potenzialmente escludenti e oppressivi. Sostenere il diritto di un dato popolo a difendere o ottenere l’autodeterminazione non significa adottare vicariamente il suo nazionalismo. Una sinistra internazionalista non dovrebbe sventolare acriticamente alcuna bandiera nazionale, né sostenere acriticamente alcuno Stato o movimento nazionale.
La sinistra dovrebbe sostenere il diritto all’autodeterminazione come parte di un programma per l’uguaglianza democratica. Ciò significa sostenere il diritto di tutti i popoli all’autodeterminazione su base paritaria e opporsi a qualsiasi programma che miri al dominio di un popolo su un altro.
L’obiettivo di Hamas di sostituire il dominio nazionalista ebraico con il dominio nazionalista islamico – uno Stato teocratico in cui gli “usurpatori” ebrei vengono cacciati – è reazionario. Il fatto che sia altamente improbabile raggiungere questo obiettivo non lo rende più sostenibile dal punto di vista della politica democratica e internazionalista.
Antirazzismo incondizionato
La ragione per sostenere le vittime del razzismo non è semplicemente la preoccupazione compassionevole per i sentimenti feriti delle persone – sebbene la preoccupazione sia preferibile all’insensibile indifferenza a volte mostrata dalla sinistra – ma perché le idee che spingono al fanatismo avvelenano gli sforzi volti a portare avanti le lotte democratiche.
Ciò significa rifiutare di condizionare politicamente la nostra solidarietà contro il razzismo.
Nello stesso modo in cui è sbagliato chiedere ad un palestinese (o a un arabo o musulmano) di condannare Hamas prima di avere il diritto di protestare contro il razzismo, è sbagliato anche chiedere ad un israeliano o a un ebreo della diaspora di dimostrare la propria purezza ideologica — essere dei ‘buoni’ ebrei — prima che l’antisemitismo contro loro sia preso seriamente.
La solidarietà contro il razzismo non richiede l’approvazione della politica dominante della persona o del gruppo vittimizzato. Ma richiede che l’opposizione al razzismo e ad altri fanatismi sia incondizionata, anche quando i membri del gruppo preso di mira abbiano opinioni reazionarie.
La sinistra può e deve opporsi incondizionatamente al fanatismo anti-palestinese e anti-musulmano senza appoggiare Hamas; può e deve opporsi incondizionatamente all’antisemitismo senza avallare lo sciovinismo israeliano.
Non fare alleanze con falsi amici
Una caratteristica particolare della crisi attuale e delle sue conseguenze globali è che gli attivisti di estrema destra (compresi i fascisti più accaniti e i nazisti letterali) usano cinicamente la solidarietà con la Palestina per promuovere l’antisemitismo. Un piccolo numero di attivisti di estrema destra partecipano alle marce anti-israeliane. Un gran numero di utenti di social media filo-palestinesi stanno amplificando i disinfluencer di estrema destra che si sono inseriti nel discorso, spesso sostenuti da reti di influenza dello Stato russo e iraniano. Nelle settimane successive al 7 ottobre, account come Jackson Hinkle (un sostenitore del “Comunismo MAGA”) e Anastasia Loupis (un’attivista anti-vaccinazione di destra) hanno accumulato milioni di follower tra gli utenti ostili a Israele con i loro post virali (molti contenenti storie false) sul conflitto.
D’altra parte, l’estrema destra non è omogenea e gli attivisti islamofobi di estrema destra, molti dei quali si rivelano essi stessi antisemiti se solo si gratta un po’, stanno cinicamente sfruttando la paura ebraica e l’indignazione pubblica più ampia nei confronti del terrorismo di Hamas per promuovere l’ostilità anti-musulmana e riciclare la loro reputazione razzista. Dobbiamo smascherare ed emarginare questi cattivi attori. Dobbiamo tracciare linee chiare. Non dobbiamo permettere che la sofferenza ebraica e palestinese venga strumentalizzata da imprenditori politici. Tutti i gruppi che forniscono una piattaforma attiva per relatori nazisti, fascisti e affini dovrebbero essere trattati in modo simile a quelli simpatizzanti del separatismo bianco.
Abbiamo scritto questo testo come una critica al senso comune che è diventato predominante in gran parte della sinistra. È una critica da sinistra e per la sinistra.
Come attivisti e organizzatori di sinistra, non vediamo le tendenze che descriviamo come inevitabili escrescenze dei principi fondamentali della sinistra. Li vediamo come il risultato della distorsione e dell’abbandono dei principi fondamentali della sinistra.
Accogliamo con favore ulteriori co-firmatari, anche da parte di coloro che desiderano sostenere alcune parti del testo ma non altre, e risposte critiche. Dato il contesto, accogliamo con particolare favore le risposte, comprese quelle critiche, da parte della sinistra palestinese e israeliana. Ci auguriamo che il testo possa contribuire ad un dibattito più ampio su come trasformare e rinnovare la sinistra.
Consideriamo questo sforzo di rinnovamento e trasformazione un compito necessario per chiunque non voglia precludersi la possibilità di un cambiamento sistemico. Accogliamo con favore l’impegno di chiunque sia impegnato in tale cambiamento e comprenda che, per essere uno strumento efficace per realizzarlo, la sinistra deve cambiare se stessa.
Traduttore dal inglese Elisabetta Michielin
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Abe Silberstein, Aditya Sarkar, Adrienne Harris, Alan Rutkowski, Alenka Zupancic, Alexander Guschanski, Alexander Reid Ross, Algo Ferrari, Alma Itzhaky, Amaury Charvy, Andrea Giacometti, Andreas Hechler, Andy Blunden, Anna Zielinska, Annabeth Nix, Annie Bourguignon, Antoine Malamoud, Antonia Halton, Arash Azizi, Ari Garnick, Barbara Szaniecki, Barrie Selwyn, Bernhard Hayden, Phạm Binh, Blair Taylor, Bradley Olson, Brunello Mantelli, Bruno Chiambretto, Bruno Slama, Charlie Thomas, Charlotte Rubin, Christian Gourdet, Claude Deleville, Con Avramidis, Dan La Botz, Dana Charatan, Daniel Feldmann, Daniel Nichols, Daniel York Loh, Daphnée Azoulay, David MacKenzie, David Morgan, David Seymour, Dekoloniala Judiska Perspektiv, Didier Epsztajn, Dmitry Vilensky, Eduardo Barros Mariutti, Elaine Leeder, Eleanor Finley, Elisabetta Michielin, Emma Robertson, Eva Illouz, Fabien Gallet, Fabienne Messica, Gabrielle Amato-Bailey, Gavin Gatenby, Gilad Nir, Gili Bar Hillel, Gilles Horvilleur, Giuseppe Cocco, Greg Dubamix, Gregory Sholette, Guillaume Moscovitz, Hadar Cohen, Haggai Matar, Harsh Kapoor, Henry Kaplan, Howie Hawkins, Ivor Stodolsky, Jacques Kirsner, Jacky Assoun, Jakob Heyer, Janette Habel, Javier Sethness, Jay Bernstein, Jean-Michel Masson, Jeanne Favret-Saada, Jean-Pierre Fournier, Jeffrey Axelbank , Jeffrey Gleisner, Jeremy Green, Jim Davis, Jim Monaghan, Jo-Ann Mort, Joel Weisz, Jörg Heiser, Jonas Pardo, Jonathan Kabiri, Jonathan Portes, Jonathan Schorsch, José Chatroussat, Jose Teogenes Abreu, Joshua Yunis, Judias e Judeus pela Democrazia San Paolo, Juives et Juifs Révolutionnaires, Julie Wark, Julien Wilson, Kavita Krishnan, Kerrie Thornhill, Lanfranco Caminiti, Leigh Phillips, Léo Heller, Lisa Drostova, Lourdes Argüelles, Luc Bernard, Lynne Marks, Marc Daniel Levy, Marianoemi de Luca, Marieme Helie Lucas , Marina Strinkovsky, Mark Wyatt, Martín Alonso Zarza, Mauricio Lapchik, Maurizio Rossi, Max Price, Memphis Krickeberg, Michal Frenkel, Michel Lanson, Misha Wolf, Mitchell Abidor, Mordechai Liebling, Mylene Mizrahi, Nancy Burke, Natalie Högström, Nedjib Sidi Moussa , Nicky Fraser, Nimrod Flaschenberg, Nissim Mannathukkaren, Oded Erez, Oded Na’aman, Olivier Delbeke, Patrick Le Trehondat, Patrick Silberstein, Peter Ullrich, Philippe Corcuff, Pierre Madelin, Pierre Rousset, Posle.Media collettivo, Rabyaah Mohamed, Rachel Garfield , Raf Noboa y Rivera, Ralph Leonard, Rasmus Fleischer, Rebecka Katz Thor, Rémy Victor, Renato Athias, Renee Obstfeld, Rikard Friberg, Riley Gombis, Roane Carey, Robert Duguet, Robi Morder, Romain Descottes, Ronen Eidelman, Rosa Klee, Sandra Laugier, Sasha Morinière, Sébastien Guex, Sender Vitz, Severino Filippi, Shyama Iyer, Sibylle Heilbrunn, Sivan Balslev, Slavoj Žižek, Steff Brenner, Stéphane Julien, Stephen Shalom, Stephen Soldz, Steve Cooke, Steve Ongerth, Steven Reisner, Sue Grand, Susan Feiner, Susanna Hislop, Sylvaine Bulle, Tae Phoenix, Talia Ringer, Tamar Glezerman, Tara Bianca Rado, terry narcissan, Thierry Hommel, Thomas Greenspon, Thomas Harrison, Tobias Sauer, translib Leipzig, Trudy Bond, Uğur Yıldırım , Valter Sinder , Vincent Presumey, Vincent Rosenblatt, Vincenzo Angelo, Vittorio Beonio-Brocchieri, Wayne Knights, Yann Moulier-Boutang, Yaron Matras, Yavor Tarinski, Yosef Brody, Yosi Sergant, Yuval Kremnitzer, Yves Coleman, Zackary Sholem Berger, Zef Egan
Questo è l’elenco delle persone che hanno scelto di firmare il nostro testo. Non è un elenco di partecipanti a un progetto politico comune. Non controlliamo i firmatari. Il nostro testo vuole essere uno stimolo per ulteriori discussioni. Non è il programma di un’organizzazione. Accogliamo con favore le risposte al testo.